Pazzia e Potere Politico: una iattura che non discolpa il Popolo. Quando un leader dilata oltre il consentito le proprie competenze fino al delirio di onnipotenza tende spesso ad esercitare tra le masse un fascino a dir poco irresistibile. Di Alberto Rosselli.

Re Giorgio III con gli abiti dell'incoronazione di Allan Ramsay, 1765, Art Gallery of South Australia. Nel suo caso la 'pazzia' era dovuta alla porfiria.

Il rapporto tra Pazzia e Potere, un tema quanto mai attuale dal momento che, se si sfogliano i giornali di tutto il mondo, tale connubio sembra assumere frequentemente le sembianze di una regola, come anche la storia ci insegna. Effettivamente, nell’evolversi dell’umana specie e dell’esercizio del potere, la Pazzia si è spesso insediata nella mente di imperatori, sovrani e capi di Stato; o meglio, ne ha caratterizzato l’operato, pur non impedendo loro di governare, talvolta anche per lungo tempo, e con profitto, guadagnandosi addirittura il favore dei sudditi. Detto questo, si narra che un giorno Federico II di Prussia – uomo tutt’altro che folle –  abbia confidato ad un suo stretto collaboratore: “se i miei soldati cominciassero a ragionare, nessuno di loro sarebbe disposto a rimanermi fedele”: affermazione esemplare di come, nel corso della storia, taluni grandi leader abbiano cercato di nascondere la propria autentica immagine – spesso non commendevole – nel timore di essere disapprovati ed abbandonati dai loro fedeli, disposti – in virtù del carisma del capo – a seguirli ciecamente in imprese spesso folli, o apparentemente tali, e comunque non facilmente giustificabili dal punto di vista razionale. La considerazione del sovrano prussiano ci porta anche ad analizzare una sorta di insensatezza e sudditanza psicologica insita da sempre nelle masse: una insanità mista a pigrizia mentale, figlia dell’ignoranza e della disabitudine alla libertà, al ragionamento e all’esercizio critico. D’altronde anche un capo di Stato incapace, non necessariamente alienato, nella fase in cui dilata oltre il consentito le sue competenze, tende sempre ad esercitare un fascino irresistibile. Le masse, che ne percepiscono soltanto il carisma, sono indotte ad adorarlo e a seguirlo in qualsiasi avventura, anche la più demenziale, per poi magari rinnegarlo in caso di fallimento.

Lo psichiatra Hugh Freeman.

Nel suo libro “Le malattie del potere”, lo psichiatra Hugh Freeman afferma che l’esercizio del potere necessita frequentemente di una buona dose di follia o addirittura di un grave handicap psichico a carico del leader: fatto scientificamente dimostrabile. Ci riferiamo, nello specifico, all’esperimento compiuto dal fisiologo Erich Walther von Holst (1908–1962), il quale tolse ad un pesciolino appartenente alla specie dei cabacelli la parte anteriore del cervello, dove sono situate tutte le funzioni sociali. Il risultato del curioso esperimento fu descritto in seguito dall’etologo e zoologo Konrad Zacharias Lorenz (1903–1989): “il ‘cabacello’ privo di materia grigia anteriore si stacca dal gruppo e nuota, da solo, in una direzione diversa, che non è detto sia quella giusta… potrebbe, infatti, non esserci cibo o, peggio, potrebbe nascondervisi un predatore in agguato. Ciononostante, il cabacello ‘cerebroleso’ tende a voltarsi e a guardare cosa fa il branco… E solo se gli altri, convinti della sua scelta, lo seguono in numero cospicuo, questi, confortato, prosegue.. .altrimenti si rifugia nel mucchio”. Ciò dimostrerebbe due cose: primo, che, proprio in ragione della sua menomazione, il pesciolino senza testa tende a trasformarsi nel capo indiscusso di un branco acritico; secondo, che consequenzialmente né i potenti né le masse possono vantare il dono di un intelletto integro e indipendente. Lo psicologo Arno Gruen afferma poi che “chi si è votato al potere non avvicina mai i suoi simili su un piede di parità quantunque a voce dichiari il contrario”. Per Gruen, i rapporti con gli altri vengono definiti soltanto in termini di potere o di debolezza, ragion per cui chi detiene il comando deve accumulare più forza possibile “per diventare invulnerabile e dimostrarsi tale”. Ma sentiamo anche il parere del gentil sesso.

La scrittrice Barbara Wertheim Tuchman.

La scrittrice e storica Barbara Wertheim Tuchman (1912–1989), nel suo libro sui conflitti umani ‘La marcia della follia. Dalla guerra di Troia al Vietnam‘, annotò: “la follia è figlia del potere. Noi tutti sappiamo che il potere corrompe. Siamo meno coscienti del fatto che esso genera pure follia; che il potere di decidere spesso provoca la latitanza della riflessione”. La saggezza sarebbe quindi è secondo il filosofo e politico spagnolo Juan Donoso Cortés (1809–1853) “l’esercizio di una capacità di giudizio fondato sull’esperienza e sul buon senso (…) I despoti per natura sono “governati dall’irrazionalità”. La storia insegna che spesso i potenti, sia quelli forsennati che quelli più semplicemente sciocchi, si dimenticano del sotterraneo, subdolo palpitare acritico, ma sempre interessato, della massa, illudendosi di vivere in uno stato di invulnerabilità, fino a quando la massa che essi hanno lungamente e duramente soggiogato, e che per lungo tempo è apparsa adorante, d’un tratto si risveglia, rivoltandosi al capo con altrettanta, spesso irrazionale, violenza e follia, ponendo fine ad un ‘regime’, per poi, magari, contribuire ad instaurarne un altro, non meno forsennato, e non meno sciocco. La vittoria del capo folle e dell’altrettanto folle popolo è un fatto forse naturale e ineluttabile. “L’umanità è infatti cieca, ed essa vaga in un labirinto di cui nessuno conosce l’entrata, l’uscita e la struttura. E questo è ciò che noi chiamiamo storia”. A nostro parere l’argomento andrebbe ulteriormente approfondito, anche se sulla definizione di ‘Storia’ data dalla Tuchman ci sarebbe molto da ridire.

Il fisiologo Erich Walther von Holst.

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