Il lato oscuro della Resistenza. In memoria del Maggiore Ferruccio Spadini, ufficiale della Guardia Nazionale Repubblicana, torturato e fucilato dai partigiani nel 1946, a quasi un anno dalla fine della guerra. Di Barbara Spadini.

Il Maggiore Ferruccio Spadini.

Non ho mai conosciuto mio nonno Ferruccio, ma da molti anni cerco di mantenere viva la sua memoria e non solo nell’ambito familiare: tuttavia l’aver militato nella Repubblica sociale italiana e l’essere stato parte di un “male” definito  “assoluto” non ha certo spianato la strada a che questo frammento di storia, il racconto della vita di un uomo, potesse essere lasciato ad imperituro ricordo. Taccio, perché non è questa la sede per raccontarle, delle brutture ideologiche, delle strumentalizzazioni politiche, delle offese a lui e alla nostra famiglia, che sono piovute quando – dal 2008 in avanti-  alcune iniziative locali, come il bando per una borsa di studio intitolata al nonno nelle scuole e poi assegnata per un quinquennio, sono state talmente caricate di odio e timore da indurre i genitori di alcuni vincitori della stessa a non ritirare il premio (assegnato poi in base alla graduatoria). Rimane intatta comunque l’operazione storica personale, pur affettivamente improntata, di consegnare la storia di un uomo normale, pur più umano, colto e coraggioso di altri,  che ha pagato con la vita per scelte coerenti. Vale la pena di accennare al fatto che la storia che segue è stata oggetto di “revisionismi” partigiani, ma i fatti, i documenti, i ricordi, le fotografie, insomma le fonti storiche sono conservate nell’archivio familiare e mio personale per corroborarne l’autenticità e l’assoluta verificabilità della cronologia temporale, il tutto arricchito da testimonianze scritte originali del tempo, che rendono onore a mio nonno. Termino questa introduzione dichiarando la mia personale indifferenza all’odio di parte e alle ideologie, nonché alle politiche strumentali che ancora oggi vengono utilizzate come metodi storici: basterebbe aver studiato la storia ed avere almeno un’infarinatura di metodologia della disciplina per sapere che non è davvero così.

Chi era Ferruccio Spadini.

Nato a Mantova il 12 agosto 1895, Ferruccio – educato in una famiglia borghese estremamente cattolica – la mamma Maria insegnante e il padre Rienzo funzionario della Banca d’Italia- cresce serenamente, studia, si dedica nel tempo libero alle attività giovanili presso l’oratorio dei Gesuiti della chiesa di S. Teresa a Mantova. La famiglia subisce un grave lutto con la morte di Giulio, in tenera età, per malattia. Il ricordo e l’affetto verso il fratellino defunto è per Ferruccio un atto di fede e tanto più lo diventa durante la prima guerra mondiale, quando egli stesso racconta ai familiari che, nel corso di un’azione, improvvisamente l’immagine di Giulietto, quasi un angelo custode, con le mani tese in segno di fermarsi, lo salva dallo scoppio di una mina e dalla morte certa. Molto sportivo, Ferruccio si dedica alla palestra ed al gioco del calcio, partecipando per due anni consecutivi al campionato italiano di prima categoria. Il nome di Ferruccio Spadini è infatti ricorrente nelle cronache calcistiche del tempo in qualità di “ veloce ala sinistra” : si parla degli anni 1910-1914, quando la Mantovana del presidente Michielotto e la Juventus di Reggiani tentano una fusione (1914): i contatti e i primi accordi vengono purtroppo interrotti a causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, motivo per cui quasi tutti i giocatori del Mantova si arruolano volontari nell’esercito: “ la prima squadra dell’A.M.C. non esiste più: tutti sono ora al loro posto di combattimento (…) il veloce Spadini nell’Artiglieria Treno” Poco più che diciannovenne ed ancora studente universitario prende parte al primo conflitto mondiale, arruolandosi volontariamente. Viene assegnato al 23° Reggimento di fanteria e da comandante di plotone raggiunge l’incarico di aiutante maggiore di battaglione. E’ decorato con la medaglia d’argento al valore militare col grado di sottotenente di reggimento per un’ardita azione di combattimento sul Monte Solarolo il 15 giugno del 1918, con una croce di guerra al valore militare il 15 luglio 1918 ed una al merito di guerra per azioni sul Piave il 13 agosto 1918. In questi anni ha modo di conoscere e diventare ottimo amico di Gabriele D’Annunzio, che gli dedica un’epigrafe significativa :“ A Ferruccio Spadini compagno d’arme che per predestinazione eroica porta nel suo stesso nome l’acciaio ed il ferro- Gabriele D’Annunzio, Fante del Veliki,1916”. Ritorna a Mantova alla fine della guerra e solo un mese dopo rimane orfano di padre. La famiglia, composta ora di tre figli, tra i quali una bimba nata nel 1916, costringe la madre a riprendere l’insegnamento, mentre Ferruccio resta nell’esercito per un anno e, congedatosi, entra nel mondo del lavoro e termina contemporaneamente l’Università.

Un’altra istantanea del Maggiore Ferruccio Spadini.

Laureato in Lettere, nel 1922 si sposa con Guglielmina – figlia di un docente ginnasiale mantovano, Giovanni Varinelli, poi Preside a Brescia e lì si stabilisce, dedicandosi all’insegnamento presso l’Istituto dei Filippini della Pace ( doposcuola e scuole serali) e presso l’Istituto “Cesare Arici” retto dai Gesuiti. Dal loro matrimonio nascono cinque figli: Giuliana, Giovanni, Rienzo, Giulio, Spartaco. Questi sono anni duri per Ferruccio che si fa carico della propria famiglia e di quella della moglie, rimasta, intanto, senza genitori e con due sorelle minorenni da mantenere. Il primo gennaio 1926 Ferruccio ebbe la tessera del Partito Fascista, obbligatoria per gli insegnanti. Soprannominato scherzosamente “ il prete”, poiché insegnava dai Gesuiti, ha modo di diventare uno dei docenti più stimati, sia per le qualità umane che professionali, per la riservatezza, l’umiltà e la condotta di vita che non gli permettevano di accettare nemmeno il più modesto dono dalle famiglie dei propri alunni, nonostante la riconoscenza di tutti nei confronti di un professore che sapeva sempre far ben figurare agli esami i propri scolari. Dal 1929 chiamato a far parte della M.V.S.N. ( Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale), in quanto già ufficiale del Regio esercito, con la nomina di Capo Manipolo istruisce e comanda un plotone con incarichi di ordine pubblico sportivo, tra i quali anche la sorveglianza ai campi durante le partite di calcio, un impegno militare ma anche da appassionato, svolto prevalentemente alla domenica. Il 2 novembre 1932, nel corso della visita di Benito Mussolini a Brescia, vi fu una contestazione al Duce da parte di alcuni militi al suo comando, che prestavano servizio sotto l’arengario, nel cortile del Broletto ( oggi Prefettura) ove cantarono un inno a favore di Augusto Turati: “senza Turati la barca non va…”. Ferruccio viene così deferito alla commissione del Partito fascista e punito con il ritiro della tessera, la sospensione per un anno dall’insegnamento, l’obbligo di presentarsi alle ore 15 ogni giorno dal Prefetto. I quattro figli piccoli e l’arrivo dell’ultimo, sostenuti dal solo suo lavoro, danno il dovere a Ferruccio di non scoraggiarsi e – pur nell’avvilimento della pesante punizione- di tirare avanti con traduzioni dal francese, lingua coltivata fin da piccolo. Solo dopo poco più di un anno è riammesso al suo posto di lavoro, dando modo a Guglielmina di poter completare gli studi universitari alla facoltà di Matematica . Allo scoppio della guerra Etiopica parte volontario e ottiene nuovamente la tessera del partito, pur rimanendo Capo manipolo, nonostante il grado di Capitano nell’esercito, della 114^ Legione CC.NN. Qui guadagna una medaglia di bronzo al valore militare per l’operazione militare all’Uork Amba ( 27 febbraio 1936) descritta con tono appassionato nei suoi scritti pubblicati in “Eco di vita collegiale”.

Partigiani italiani osservano una loro preda di guerra (Nord Italia, Aprile 1945). Alla fine della guerra si cercò di lavare il sangue con altro sangue, spesso innocente.

E’ di questo periodo il conferimento del Cavalierato nell’ordine equestre della Corona d’Italia per meriti di guerra. Tornato all’insegnamento all’Arici, si rifiuta di partecipare alla guerra di Spagna, considerata da Ferruccio una guerra di partito e quindi politica, non per la sua Patria. Del resto poco o nulla lo coinvolge la politica del tempo, dalla quale sta in disparte, soprannominato per questo nell’ambiente fascista “il ribelle”, a causa delle idee piuttosto inconsuete e del suo non rinunciare mai ad esprimerle. Partito volontario per la campagna d’Albania, Ferruccio torna deluso, avendo avuto modo di verificare ingiustizie di vario tipo: ufficiali al comando proposti per immeritate ricompense al valore, viveri che partivano agli alti comandi, falsità che circolavano nelle gerarchie più alte, per nascondere errori e responsabilità, scontati poi da chi non c’entrava. Per questo motivo e per la possibilità legale di ottenere il congedo in quanto capofamiglia di cinque figli, cerca di riprendere la sua vita da civile, tornando all’insegnamento. Dopo circa sei mesi viene chiamato dal Comando per essere assegnato ad una compagnia di mitraglieri in partenza per il fronte. In un primo momento Ferruccio si oppone, ma l’appello dei superiori all’amore di Patria, trova ancora una volta il suo “sì”, nonostante la disperazione della moglie Guglielmina. Inviato a Sesana e, dopo un mese di duro addestramento, a Lubiana, col gradi di Centurione coordina una compagnia mitragliatrici pesanti, incorporata nel 215° Btg. Squadristi “ Nizza”. Compie azioni notevoli in Slovenia, riuscendo d’iniziativa a liberare dall’accerchiamento tre battaglioni della divisione Isonzo, dopo un’estenuante giornata di combattimenti e assalti all’arma bianca. Per l’appartenenza al btg. Nizza dei Gruppi d’Azione nizzarda, acquisisce il titolo di Garibaldino e Camicia Rossa. Sotto il comando del Maggiore Tebaldi, squadrista e già questore di Bologna, si trova -però – presto in conflitto con lui per carattere, ideali, motivazioni. Si fa rimpatriare, cosa che gli riesce a causa dell’esubero di ufficiali e, dopo un breve periodo a Roma viene riammesso alla 15^ Legione Leonessa a Brescia, assegnato alla matricola e all’addestramento sportivo dal console Baccoli, riuscendo in pochi mesi a far conquistare alla propria Legione il secondo posto. Poco prima del 25 luglio 1943, dopo l’appello del console a tutti gli ufficiali, che li esorta a dare il massimo della propria opera ed impegno per la vittoria della guerra, qualche ufficiale esterna le proprie perplessità sul destino che attende l’Italia: Ferruccio stesso, interrogato se credesse o meno in Mussolini, risponde di no e di credere invece al fatto che il proprio dovere consistesse piuttosto nel restare sempre e comunque al proprio posto. Per questo riceve un solenne rimprovero davanti a tutti gli ufficiali, mostrando comunque il coraggio d’esprimere le proprie libere opinioni. Arrivato l’8 settembre con l’armistizio Ferruccio assiste – lo si recepisce con chiarezza dalla lettura dei suoi due memoriali – alla crisi dell’esercito, al disfacimento dei valori in cui credeva, alla confusa reazione della gente. Rifiutata con convinzione la nomina a questore di Cuneo per la propria avversità alle cariche politiche, resta all’ufficio reclutamento di Brescia fino al dicembre 1943, poi inviato al Castello (Brescia) al comando di un battaglione con il quale egli spera di poter in breve ripartire per il fronte, per assecondare la propria predisposizione di attivo soldato all’ideale di difesa della Patria. Inviato invece il 29 giugno 1944 a Breno, riceve l’incarico di ordine pubblico all’interno della costituita G.N.R. alle dipendenze del Generale Ricci e del Tenente Colonnello Valzelli, col grado di Maggiore. Da questo momento ogni responsabilità d’ordine pubblico della Valle Camonica ricade su di lui, pronto a scontrarsi col generale tedesco di stanza ogni volta un ordine abbia a ritorcersi negativamente sulla popolazione italiana; pronto a scusare l’operato, dei partigiani definendoli paternalisticamente “ giovani ribelli”, tanto da essere accusato di debolezza e quasi di collusione con loro; pronto a “non vedere” l’attività e la rete organizzativa partigiana che agiva sotto i suoi occhi, evitando a tanti giovani ed alle loro famiglie conseguenze di dura repressione da parte del comando tedesco ; pronto a interrogare a vuoto- e solo per salvare le apparenze con il comando superiore- tanti partigiani, nonostante il tentativo- sventato dal curato di Ponte di Legno don Giovanni Antonioli, partigiano- di rapimento della figlia Giuliana prima e del figlio Giulio poi, ricoverato in ospedale ed operato di appendicite, da parte delle Fiamme Verdi, che miravano a ricattare il Maggiore con l’ostaggio prezioso, per potere accordarsi sullo scambio di prigionieri importanti. Il 26 aprile 1945 di fronte ad un documento di richiesta di resa non firmato, senza ordini dal comando italiano e tedesco, non ne accetta le condizioni e, messosi a disposizione della Brigata Tagliamento, parte al seguito di questa per Edolo e poi per Fondo (Tn) dove, visto il proclama di scioglimento della G.N.R., si consegna spontaneamente attraverso il parroco del paese al comitato di liberazione (C.L.N.) locale. Riportato come prigioniero ad Edolo e da qui tradotto alle carceri di Breno e successivamente a Brescia, ripetutamente picchiato e torturato, viene poi processato dalla corte d’assise straordinaria e riconosciuto colpevole d’omicidio di alcuni partigiani. Condannato alla pena capitale, perso il ricorso in Cassazione e respinta la domanda di grazia, inoltrata a sua insaputa, Ferruccio viene fucilato al poligono di Mompiano (Bs) il 13 febbraio 1946. La guerra era finita da quasi un anno. Ferruccio ha 50 anni e lascia la moglie vedova ed i cinque figli orfani alle prese col provvedimento della confisca dei beni, nell’indigenza completa e fino al 23 aprile 1960 a lottare per la riabilitazione di un marito e padre caduto al grido di : “viva l’Italia” , fucilato ingiustamente come traditore, colpito alla schiena da un plotone d’esecuzione interamente composto da armati partigiani, in quanto i carabinieri presenti si erano rifiutati di prendere parte all’esecuzione. Sepolto, in abiti civili, al cimitero di Brescia, viene riportato a Mantova (locale cimitero) nella tomba di famiglia il 9 ottobre 1965. Partita la salma da Brescia con il tricolore steso sul feretro, giunto il corteo nella Provincia di Mantova, a Castiglione delle Stiviere, esso viene fermato per ordine prefettizio e fatto proseguire solo dopo aver fatto rimuovere la bandiera, il simbolo di quella Italia che per Ferruccio era l’ideale sommo, per addotti “motivi di sicurezza”. Negato anche il picchetto d’onore militare, viene tumulato nella tomba di famiglia dopo le esequie celebrate nella Chiesa di S. Andrea ed un breve, triste passaggio memoriale accanto alla sua dimora mantovana, in via Nievo, dalla quale mancava dal 1922. Tutte le fasi della cerimonia vengono seguite da forze dell’ordine in borghese.

Dal libro “FERRUCCIO SPADINI: OGGI, IERI 2008 – 1895″ di Barbara Spadini.

«Tu non sei morto: ancora una volta sei innanzi a noi come sulle balze del Grappa e sulle pietraie del Carso o fra le sabbie dell’Africa o fra le impervie regioni albanesi, che videro il tuo giovanile entusiasmo e il tuo animo generoso. Tu ci chiami e ci attendi là dove tacciono gli odi e i rancori e dal Cielo infondi fede e forza a chi ti chiama pregando»

(“ricordo” lasciato dalla moglie Guglielmina dopo l’avvenuta fucilazione del Marito Maggiore Ferruccio Spadini per mano partigiana)

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