Leonardo Sciascia, un filosofo della storia pessimista. Il caso dei ‘Vendicatori’ (1976). Di Giuseppe Moscatt.

Leonardo Sciascia (ritratto a matita).

1. Il metodo di Leonardo Sciascia

Come è noto, lo spirito polemico di Leonardo Sciascia (1921-2021) lo porta ad appena 20 anni ad abbandonare gli studi classici di Magistero a Messina per sostenere il concorso di abilitazione a maestro elementare nel suo paese natale, Racalmuto (Agrigento), dove era nato nel 1921. Nei ritagli di tempo , il giovane maestro pubblica una miriade di articoli e recensioni su giornali e riviste, non nascondendo il suo sentimento di filosofo della storia, di radicale riformista e soprattutto di polemista. I primi libri lo vedono già eccellere nella memorialistica, nel diario personale e nel bozzettismo realista della sua terra, la Sicilia di Verga e Pirandello. Ma dopo un decennio di indagini piuttosto legate alla storia locale, spicca in questo primo periodo narrativo il saggio Le Parrocchie di Regalpetra, (1956) in parte ripresa dal Tornatore nel suo famoso film Nuovo Cinema Paradiso (1988), un Oscar che riprodusse buona parte degli episodi di vita reale di paese già stigmatizzata dallo Sciascia. La sua verve storica emergeva poi in un primo romanzo storico del 1963, Il Consiglio d’Egitto. Brilla in questa prima discesa in campo nella storia la scelta illuminista che lo guiderà fino all’ultimo romanzo, Una storia semplice, (1989). In tutte le successive opere – dove spesso l’indagine storica si alternava alla fiction realista – basti pensare a Il Giorno della civetta (1961) e A ciascuno il suo (1966) – come metodo di accertamento dei fatti applicò la legge ferrea dell’agire razionale dello storico, vale a  dire quella regola di Pierre Bayle – eminente filosofo illuminista della storia, autore di un fondamentale Dizionario storico e critico (1697) – secondo cui lo storico moderno deve essere acribico e imparziale, uno scienziato di stile newtoniano di fronte alle fonti, scrupoloso selettore, impersonale e estraneo all’evento, onde risultare equo nel giudizio finale. Quell’essere lo storico però una macchina insensibile, gli sembrò impraticabile. Bandire dell’analisi degli eventi le leggende, le superstizioni e il fanatismo politico era centrale; ma evitare un sentimento morale di giustizia e di egualitarismo sostanziale lo rendeva perplesso. La massima di Kant la legge morale dentro di me, il cielo stellato sopra di me, invece lo affascinava. La domanda di etica sociale derivata dallo Schiller che amava, risulterà anni dopo la risposta più idonea per quei dubbi che gli laceravano l’anima.

2. Il testo e le critiche sollevate.

Che fosse uno scrittore in cerca di risposte etiche  lo provano i romanzi sulla Sicilia antica e moderna ulteriori a quelli già citati – e dunque  più da critico che da attore presente nel reale –  quali  Morte dell’inquisitore sulla storia di un brigante cristiano nel ‘500 (1963) e la Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D. (Alexander Dubcek) del 1969, su un conflitto fra Stato e Chiesa durante il secolo dei lumi, con un protagonista A.D. che si riferiva in sigla al maggiore esponente della Primavera di Praga, perseguitato e deposto dal Governo a seguito dell’invasione Sovietica della Cecoslovacchia. Siamo ormai nel decennio della maturità di filosofo della storia. Acquisito con autorevolezza il metodo storico – critico, era ora tempo di dare un senso alla storia. Dopo due saggi meramente pedagogici sul come non fare politica – Il contesto e Todi modo, dove la satira e l’ironia esteticamente illustravano pessimisticamente i consensi democristiani e la sotterranea forza dei cc.dd. poteri forti che influenzavano polizia e magistrature – viene fuori finalmente l’unico saggio pienamente tratto dalla storia, I pugnalatori, del 1976, in cui la fiction cede il passo alla narrazione degli eventi. Trattasi di un libro-inchiesta che rievoca un complotto contro lo Stato unitario, avvenuto a Palermo nel 1862. Dalle carte processuali che Sciascia ritrova nell’archivio storico,  nonché dalle pagine dei giornali dell’epoca, nell’ottobre del 1862 una serie di omicidi eccellenti (tanto per richiamare il film di Francesco Rosi dello stesso anno, altro regista neorealista affabulato dagli scritti di Sciascia) si perpetrano nelle buie strade  del centro storico di Palermo. Quasi allo stesso punto e  alla stessa ora tardo serale – addirittura rappresentabile sulla cartina della città storica in forma di stella a 13 punte – vengono accoltellate appunto 13 persone. Il giovane piemontese Guido Giacosa, è il sostituto Procuratore del Re chiamato ad indagare. Subito Sciascia, nelle prime righe, esprime  un concetto che avrà già sentito dire, forse passeggiando dinanzi al Teatro Massimo, che un altro polentone viene a rompere le scatole a Palermo, sentimento che già nei bar di paese si era sentito dire su un alto ufficiale dei carabinieri che aveva svolto indagini nel 1963, tale Carlo Alberto Dalla Chiesa di Saluzzo, sulla tremenda strage di Ciaculli, dove sette carabinieri furono dilaniati da un attento mafioso. L’indagine del  Giacosa rivela nel Principe di Sant’Elia, filoborbonico,  ricchissimo imprenditore e proprietario agricolo di immensi feudi nel palermitano, un organizzatore tanto perfetto quanto sorprendente perché l’accusato è senatore del Regno d’Italia. Con un linguaggio pieno di rabbia e di sdegno, melanconico ma deciso, Sciascia riassume gli stessi interrogatori in un crescendo di dichiarazioni di pentiti e di traditori, di confidenti ed agenti provocatori, che si disperdono in doppie verità e in accuse spesso contraddittorie. Il Procuratore del Re – quasi in anticipo di un secolo alla metodologia inquisitoria di Falcone e Borsellino – con l’arma della pazienza e con coraggio civico analogo agli articoli dell’Autore – orientato ad entrare in politica direttamente come farà prima nel PCI e poi fra i radicali di Marco Pannella – costruisce un quadro accusatorio di tutto rispetto. Ma alla fine, il processo sarà insufficiente a dare un risposta, salvo a contentare la pubblica opinione solo dal lato degli sventurati esecutori, spesso povera gente assoldata per fame. I veri responsabili – borbonici o mafiosi mai si saprà – sfuggiranno alla pena. La realtà infatti lasciò lo stesso Giacosa, alquanto sgomento: malgrado la Corte di Appello di Palermo fosse riuscita ad accogliere parte delle sue tesi  e a fare condannare qualche autore materiale, lascia libero il Sant’Elia, la cui reputazione era  notoria per la sua devozione all’attuale nuovo ordine unitario, come si legge ancora nella sentenza. Tuttavia la strage ancora continuava, perché si ebbero successivi ferimenti di altre persone, tutte appartenenti a varie classi sociali. A conclusione del saggio, Francesco Crispi, capo del Governo locale ed esponente della sinistra storica – tallonato dall’avversario politico, il massone della destra Giuseppe La Farina – si limita a dire con l’ambiguità che lo caratterizzava che il mistero continuerà e che giammai conosceremo le cose come veramente sono avvenute. Le conclusioni del Giacosa rispecchiano il pensiero sconfortato di Sciascia: la consapevolezza del Principe, sussurrata, mai provata, ma chiaramente percepita, c’era tutta … ma le cose andavano per come erano sempre andate, per come non potevano non andare: il Principe libero e onorato, in carcere tutti gli altri. E così anche è la conclusione per Crispi, che era già pronto a governare l’Italia di fine secolo con metodi politici spregiudicati che portarono l’Italia in una profonda crisi istituzionale.

Una bella istantanea di Leonardo Sciascia.

2. Il contesto storico dei cc. Anni  di piombo (1968-1978).

Non v’è chi non veda in queste considerazioni la delusione dello scrittore, che da quella data era pervenuto alla drammatica posizione di polemista, razionalmente cosciente di un Potere corrotto da infiltrazioni di Mafia, Massoneria e Terrorismo, in quel 1862 analogo al 1976, anno in cui il terrorismo politico e la rinascita della mafia criminale sembravano coalizzarsi per la trasformazione autoritaria dello Stato democratico. I Pamphlet più noti sul Caso Majorana (1975) e sull’Affaire Moro (1978),confermavano la sua spietata analisi delle condizioni pericolose in cui la nostra Democrazia stava precipitando . Certamente, l’impegno politico per il PCI al Consiglio Comunale di Palermo, la deputazione a Roma per il Partito Radicale e la sua partecipazione da parlamentare alla Commissione d’inchiesta sul Caso Moro, lo spinsero alla scelta di rispolverare il Candido di Voltaire – sottotitolato ovvero un sogno fatto in Sicilia (1977) – e poi della importantissima raccolta  di critiche,  La Sicilia come metafora (1979). I suoi biografi leggono questa fase come una  fortissima aspirazione ad essere l’araldo della polemica contro tutte le ideologie, anche di quel credo comunista da cui si era già distaccato, fino ad aderire allo stretto anti giustizialismo in favore di Enzo Tortora all’epoca nel mirino della Giustizia penale. Ecco ora un suo nuovo mentore, che sarà Friederich Nietzsche. Ritornando al padre della verità relativa e alla letteratura delle contraddizioni del quotidiano, Sciascia si ritrovò sulla scia anche di Karl Kraus, il maggiore polemista del ‘900. Con in aggiunta la domanda del suo maggiore discepolo, Elia Canetti, che di fronte agli albori della seconda guerra mondiale, si chiedeva cosa fare quando un intellettuale, magari uno storico, vedeva ripetersi gli errori della storia, per esempio lo strano silenzio degli elettori degli anni ’70 quando sembrava onnipotente la presunta strategia della tensione, dopo i fatti di Piazza Fontana del 1969, mentre governava la onnipotente democrazia – democrazia cristiana e partito comunista – in mani a poteri forti che impedivano l’evoluzione della società italiana a colpi di arma da fuoco e con omicidi eccellenti da sud a nord. Sciascia in modo implacabile, col suo metodo da filosofo laico, con dubbio metodico si poneva a svelare i segreti del presente, rileggendo i fatti del passato, dove la dichiarazione stupefacente del Crispi era ribadita dall’alleanza di Andreotti e l’intellighenzia del PCI, in quella metà degli anni ’70 quando il caso Lockheed spazzerà via perfino la sacra figura della Presidenza della Repubblica. Il fuoco critico che aveva ora devastato la purezza della anticorruzione della Sinistra – come era avvenuto con Crispi sferzato dalle accuse della destra  storica del La Farina sul caso dei Pugnalatori – riemerse con evidenza nella reazione storiografica dello storico comunista Paolo Pezzino proprio nel 1992, non solo quando Sciascia era già morto (1989), ma anche in piena espressione del fenomeno di Tangentopoli. Nel 1992 usciva infatti un secondo saggio storico di quest’ultimo storico, legato alla storiografia marxista. L’accusa allo Sciascia era sempre quella di ogni avversario che rivendica l’assoluta primazia culturale: cioè la consultazione parziale della fonti, adombrando un uso partigiano di quelle selezionate, fino a dare del dilettante allo Sciascia e dunque proponendo la lettura del La Farina, che avrebbe invece subito la manipolazione le indagini del Giacosa proprio a favore del Principe Sant’Elia. Ci sarebbe stata una faida interna della loggia massonica e mai un chiaro intento di delegittimare l’autorità giudiziaria  palermitana. I giudici, insomma, sarebbero stati indenni da responsabilità perché le prove mancavano, non perché le avessero sottovalutate di proposito. La controreazione di Sciascia non vi fu per le ragioni predette. Ma la tesi del Pezzino non solo apparve superficiale, ma anche del tutto incompatibile con quella offerta dallo scrittore siciliano. In realtà, lungi dell’entrare nella polemica specifica; ci permettiamo di notare che lo spirito indagatorio dello Sciascia non poteva non essere influenzato dai gravi fatti delittuosi a lui contemporanei. Infatti, proprio nel 1976 un arresto significativo interessò Edgardo Sogno, un liberale diplomatico e eroe della Resistenza. In quell’anno poi il Capo del Governo, Aldo Moro, si era dovuto dimettere perché l’altro componente della maggioranza, il Partito socialista, pretese la partecipazione per PCI in un governo d’emergenza causato da una gravissima inflazione diretta dai Mercati internazionali, tanto che la Banca D’Italia aveva chiuso la Borsa per un mese (15.1-28.2). Secondo il giudice istruttore di Torino, Luciano Violante – esponente dopo qualche anno del P.C.I. – aveva indiziato di attentato allo Stato il Sogno e il Pacciardi, altro esponente di destra, rivolto a impedire il legittimo ingresso nel Governo quanto auspicato dal Moro, cioè l’apertura al PCI. Voci di stampa davano per imminente una riforma costituzionale presidenzialista che avrebbe influito all’avvicinamento di forze Sovietiche in Italia. Conflitti fra Servizi di sicurezza fra due Blocchi avallati da un nugolo di pentiti, spesso sfociati in stragi mai spiegate, come quella di Milano del 1969 e quella di Brescia dal 1974, nonché vari attentati a industriali e magistrati legati ad indagini di mafia e terrorismo. Un clima stragista asfissiante che avrebbe dovuto costringere il Presidente Leone ad una svolta autoritaria. Di più: a dire del Pezzino, Sciascia avrebbe trascurato parte della documentazione già disponibile, dove la responsabilità dell’opposizione della destra storica a Palermo sarebbe stata svalutata per favorire la Sinistra di Crispi. Dunque un crepa nell’acribia dello Sciascia, un presunta forzatura che lo screditava nella sua politica di tutti contro tutti, ché anzi avrebbe convalidata la politica dei pentiti politici, senza guardare però alla verosimiglianza delle loro dichiarazioni. Insomma, la debolezza dello Sciascia sarebbe stata quella di scartare i riscontri dei pentiti, che spesso mancavano di razionalità e di coerenza con i fatti. La risposta alla miriade di critiche che Sciascia ebbe già in vita sui c.d. professionisti dell’antimafia e sull’abuso del pentitismo nei reati di terrorismo, con un netto doppiopesismo a favore della classe governante e della magistratura inquirente dell’epoca; la diede nel suo ultimo saggio politico che pubblicò nel 1979, Nero su Nero: la verità è nel fondo di un pozzo senza fine … Colui che la guarda o vede il fondo o vede il sole o la luna. Ma se si butta giù  per prenderla non troverà che il nulla .. la sicurezza del Potere sta proprio sull’insicurezza dei cittadini. Una vena di pessimismo storico alla Leopardi, ma non di sconfitta cosmica, perché la storiografia da lui privilegiata non relegava le masse a un mero gregge affidato alla buona guida di un Pastore, ma a un senso critico che selezionasse il grano dal loglio. E questo fu il vero messaggio dalla sua filosofia della storia.

Bibliografia:

  • Per la biografia e le opere, vd. MASSIMO ONOFRI, Storia di Sciascia, Laterza, 2004.
  • Per il contesto storico alla vicenda dei pugnalatori, vd. LUCY RIALL, La Sicilia e l’Unificazione italiana. Politica liberale e potere locale (1815-1866), Torino, Einaudi, 1998.
  • Sui cc.dd. Anni di piombo in Italia, 1969-1982, vd. fra i tanti SERGIO ZAVOLI, La notte della Repubblica, Roma, Nuova ERI,1992, nonché ENZO PESERICO, Gli anni del desiderio e del piombo, Milano, Sugarco, 2008.
  • L’edizione originale dei Pugnalatori è stata pubblicata da Einaudi, Torino, 1976.
  • Cfr. PAOLO PEZZINO, La congiura dei pugnalatori: un caso politico-giudiziario alle origini della mafia, Marsilio, 1992.

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