“Va pensiero…”. Quando la Musica interpreta la Storia. Il ‘caso’ Giuseppe Verdi. Di Marco Affatigato.

Giuseppe Verdi.

E’ una delle arie più note del panorama lirico mondiale, quella del “Coro degli schiavi” nel “Nabucco”, in particolare il versetto “Oh mia patria si bella e perduta”, considerata sin dalla creazione come una forma di iniziazione patriottica di Giuseppe Verdi (1813-1901), anticlericale e massone. Una iniziazione che pare avvenuta presso quella loggia di Bologna che, in seguito, accoglierà anche Giosuè Carducci (1835-1907) e Giovanni Pascoli (1855-1912).

Parlando di Verdi non si può prescindere dall’apporto che egli diede alla causa dell’Unità d’Italia, impegno che lo pose in posizione privilegiata. Nato nel 1813, tre anni più tardi il giovane Verdi ne contava ventitré e aveva già sommato una serie di deludenti esperienze, sia a Busseto che a Milano. Siamo alla metà degli anni Trenta del XIX secolo e l’Italia, nonostante il fallimento dei moti carbonari del ‘21, è più che mai percorsa dai fremiti libertari. La gioventù continua a conclamare il suo diritto alla libertà, chiedendo a viva voce: via alle dominazioni straniere dall’Italia; via ai regnanti di qualsivoglia nazione, compresi i Savoia, con quel Carlo Alberto che, dopo tante promesse, nel ’21, aveva fatto arrestare tutti i suoi amici liberali; e, soprattutto, via alle insopportabili differenze sociali. Non a caso, era da più di un secolo che gli illuministi avevano predicato come essere l’intelletto, la conoscenza e la ragione, il più alto grado di nobiltà di un essere umano…Via, insomma tutto! Migliore credo non ci poteva essere per attrarre, dunque, i giovani, e molti, nella terra del giovane Verdi, già dai tempi della massima espansione della Carboneria, s’erano iscritti alla associazione segreta, pagando anche, per tale appartenenza, un tributo amaro, chiamato carcere. Nel 1836, la carboneria, nonostante gli sforzi del Buonarroti (discendente del famoso Michelangelo) era alquanto in disuso, perché soppiantata dalla “Giovine Italia” del Mazzini.

Giuseppe Verdi.

Sopravvivevano, però, le varie logge e, Verdi, apparentemente freddo, non poteva, per le passioni brucianti e represse che sapeva tanto bene nascondere e covare in seno, non sentire il fascino di queste organizzazioni segrete. Infine, Verdi era il prototipo di affiliato perfetto; senza contare che in qualche modo doveva pur sfogare la rabbia che teneva in petto contro la società imperante, rea di non averlo compiutamente compreso. Pertanto, tutto indica che furono quelli gli anni nei quali, Giuseppe Verdi, divenne componente di una delle tante logge, figlie, più o meno dirette, dei Fhiladelfhi del Buonarroti. Da quel momento inizia anche la carriera dell’oscuro musicista che, poco dopo, ottiene, inspiegabilmente, un contratto per produrre un’opera nuova, nientemeno che alla Scala. Verdi, nella sua lunga vita non vorrà mai parlare sul ‘‘come’’, pur risiedendo a Busseto, gli sia piovuto quell’incredibile contratto, ma, attraverso delle induzioni e operando delle similitudini, rimane possibile avanzare alcune ipotesi, circa… tanta fortuna. La similitudine è con Beethoven che, appena diciottenne e sconosciuto, alla morte di Giuseppe II imperatore d’Austria, ottenne una commissione per scrivere una cantata commemorativa; e ciò nonostante la presenza, a Vienna, di altri celebrati maestri. L’arcano è facilmente scioglibile se si tiene conto che Giuseppe II era protettore della massoneria tedesca e che il giovane Beethoven s’era da poco, tramite il suo protettore Ferdinand von Waldstein, iscritto alla massoneria tedesca dei “Cavalieri Teutonici”; e, come dire, s’era posto sulla piazza. Pertanto, essendo ormai, per scandali vari, in declino la stella di Mozart, aderente alla setta dei “Fratelli illuminati”, alla massoneria non restava che lanciare un altro musicista di sicura fede; qualcuno che fosse, ugualmente, in grado d’inserire, nell’opera musicale, elementi simbolici della massoneria; un qualcosa che, eccellentemente, seppe fare Beethoven, quando usò, per due delle pagine più importanti della cantata per Giuseppe II, le tonalità massoniche (per via delle tre alterazioni che le contraddistinguono) di “do minore e mi bemolle maggiore”. Ugualmente, lo allora sconosciuto Verdi, divenuto adepto di una delle tante società segrete riconducibili alla massoneria, potrebbe essere stato prescelto dai “fratelli”, per arricchire il numero di musicisti aderenti all’ordine; e, per questo, presentato, o imposto, all’impresario della Scala, Bartolomeo Merelli, anch’egli di stretta osservanza massonica. Non è il «Nabucco», che venne rappresentata alla Scala nel 1842, l’opera dell’esordiente musicista Verdi ma lo “Oberto, conte di San Bonifacio”, che viene, dunque, rappresentata nel sommo teatro ottenendo un discreto successo. E sono sempre i “fratelli”, per meglio facilitargli il cammino, che lo introdussero anche nei ‘‘salotti che contavano’’ a Milano, quale quello della contessa Maffei, anche lei ardentemente votata alla carboneria. Ora, immaginate, per un attimo la situazione: come avrebbe potuto, un uomo di bassissima estrazione sociale, quale era Verdi, figlio di contadini e non ancora raggiunto dalla gloria, entrare in un salotto tanto esclusivo, se non fosse stato un affiliato? No, Verdi, senza aiuti, sarebbe rimasto come altri “al palo”. Ma, detto questo, occorre aggiungere che per divenire uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi, come già per Beethoven e Mozart, non sarebbero bastate affiliazioni e protezioni… in seconda battuta, occorreva possedere la stoffa del genio. E’ infatti noto che, senza la sostanza, la fortuna non si acquisisce neppure nei salotti. Ma ben presto, però, le frequentazioni dei salotti ebbero termine; Verdi, nel giro di pochi mesi sarà sopraffatto dalle disgrazie; tempo due anni e il poveretto si ritrovò a perdere moglie e due figli. In quelle condizioni non poteva che perdere anche il successo! Ancora alla Scala, la sua seconda opera “Un giorno di regno”, composta in quel tristissimo contesto familiare, cadde clamorosamente. L’uomo è sconfitto, ma, a rimetterlo in piedi ci penserà ancora una volta il “fratello” Merelli, il quale, aduso in genere a non guardare in faccia a nessuno, quella volta volle fare un’eccezione, spingendo lo sfortunato musicista a riprovare con «Nabucco» . Ecco che nel 1842 sarà il primo grande successo di Verdi! Nabucco, conquista il pubblico milanese che, pieno di aspirazioni fortemente liberali, al coro “Va pensiero” e alle parole “Oh mia patria si bella e perduta” andò letteralmente in delirio. Da quel momento il musicista verrà identificato come colui che può divenire il cantore delle aspirazioni patriottiche di tutti. Ma se la musica é di Verdi il librettista era tale Temistocle Solera, rimasto sconosciuto ai più, che scrisse in tutta indipendenza quei versi. Temistocle Solera era figlio di un patriota italiano prigioniero in Austria e, senza alcun dubbio, aveva una ‘‘ coscienza politica’’ più ferma di quella di Giuseppe Verdi. Ma è solo dopo circa quarant’anni, al momento in cui il compositore riscrive la sua propria storia, che farà di «Va pensiero» un canto seminale dell’unificazione italiana e non una semplice opera biblica. Ricordiamo che il tema del «Nabucco» è la situazione degli ebrei ridotti in schiavitù dal re di Babilonia Nabucodonosor. Ma già nel 1842 il mito Verdi era definitivamente installato. Verdi, non poteva avere quindi solo vantaggi dai “fratelli”; cori operistici a parte, doveva rendere ad essi altre testimonianze concrete. Infatti, il maestro, con il divenire sempre più ricco e celebre, inizierà a destinare alla causa liberale elargizioni cospicue. Nel ‘47, conosciuto a Londra Mazzini, non mancò neppure d’iscriversi alla “Giovine Italia”, collaborando attivamente con lui. Sarà presente e vicino a Mazzini, persino a Roma, durante l’avventura, finita tragicamente, della “Repubblica romana”. Ancora, negli anni ‘52 ‘53, rischierà tutto per aiutare Mazzini che, in Svizzera, stava preparando ennesimi moti insurrezionali per Milano, tutti però falliti. Comunque, il maestro, con la scusa di portare, ogni fine settimana, la delicata e sofferente compagna a prendere l’aria buona del lago di Como, attraversava il confine con la Svizzera e portava, nella sua carrozza, appositamente attrezzata, denaro e armi da destinare al Mazzini e ai “fratelli” rivoluzionari. Verdi, forte delle simpatie persino austriache che lo sopportavano, diviene, a tutti gli effetti, l’emblema delle aspirazioni liberali… il suo nome, quel “Viva Verdi”, osannato e invocato, diverrà sinonimo del grido “Viva Vittorio Emanuele re d’Italia”. Nel frattempo, lasciata la “Giovine Italia”, per divergenze di opinioni con Mazzini, Verdi aveva aderito, come del resto Garibaldi, al movimento filosabaudo e Cavouriano, creato da Daniele Manin. Gli anni successivi vedranno un Verdi che, pur assorbito da una carriera ormai internazionale, si troverà sempre pronto ad intervenire al bisogno. E non a caso Verdi sarà il primo al quale il conte di Cavour offrirà un seggio nel nuovo Parlamento del regno d’Italia. Eletto, come oggi si direbbe, in una “circoscrizione sicura” il giorno 18 febbraio sedé in Parlamento; e ciò non perché fosse un celebre musicista, ma perché liberale e patriota di antica data. Verdi, a seguire, continuò la sua carriera politica, ma iniziò a prendere le distanze dalla politica dei Savoia che, come Garibaldi, dichiarò di non condividere, e non sappiamo se si riferiva al meridione o al problema romano. Comunque, dopo essere stato deputato e senatore, chiuse la sua carriera politica quale consigliere provinciale del suo collegio di Fidenza. «Va pensiero» comincerà la sua ‘‘carriera politica’’ più complessa alla fine del XIX° secolo in quegli anni dell’Italia liberale. L’opera si politicizza ma in modi diversificati e, a volte, anche paradossali. In effetti, il suo messaggio, ai giorni nostri spessissimo a torto ripreso anche dalla Lega Nord, è indirizzato alla ricerca di una ‘‘patria comune’’: l’Italia. Questa ricerca si compie già nel 1861 con la proclamazione di Vittorio Emanuele II quale «re d’Italia» e si conferma ancor di più nel 1870 con la presa di Roma e poi la creazione dello «Stato italiano». In seguito, la capacità mobilizzante del «coro degli schiavi» va scemando e «Nabucco» é sempre di meno rappresentato nei teatri. Ma questo è il periodo in cui Giuseppe Verdi comincerà a creare la sua propria leggenda, mettendo questa ‘‘partitura’’ – ricordiamolo però che il libretto era scritto da altra persona Temistocle Solera – al centro della sua arte patriottica ed è attraverso la circolazione internazionale della sua opera musicale che Verdi sarà considerato dal mondo intero come ‘‘ l’artista italiano per eccellenza’’. Ed è la stampa internazionale e lanciare la sua fama e consolidare il mito verdiano accompagnante la ‘‘nazionalizzazione’’ dell’Italia. I suoi funerali, nel 1901, ne saranno testimonianza. Ma già a quella data il «Nabucco» stava sfuggendo al suo creatore. Con lo sviluppo del socialismo in Italia, la metafora del ‘‘popolo oppresso’’ passa dalla ‘‘nazione’’, come invece il librettista aveva descritto, alla ‘‘classe sociale’’: gli schiavi sono ormai i proletari incatenati al lavoro. E’ alla sinistra politica che, nello scacchiere politico, il «Va pensiero» trova il suo successo. Pietro Gori, un avvocato anarchico di nascita messinese di adozione livornese dove sin da giovane la famiglia si trasferii, più volte incarcerato e in esilio, ne utilizzò la musica per comporre un inno del 1° maggio (https://www.youtube.com/watch?v=_X0Rsf_7f0U ), inno ormai spesso ripreso dalle orchestre popolari perché canto di emancipazione che ritmica le lotti sociali. Con l’arrivo dei primi anni del XX° secolo arrivano anche le contestazioni e i dubbi. Gli errori dei padri della «unità» vengono messi in evidenza: inuguaglianze tra il Nord e il Sud, emigrazione (inuguaglianze che malgrado sia passato più di un secolo permangono ancor oggi – questo forse perché l’Italia non è ancora uno Stato unitario ma un Paese fatto di Comuni) povertà persistente e analfabetismo. La stessa esistenza di una ‘‘unità culturale’’ del Paese è messa in discussione. L’identità nazionale sembra essere ben debole. Emergono allora delle nuove idee di ‘‘nazione’’, come quella portata avanti da Enrico Corradini, politico scrittore esponente di punta del nazionalismo italiano. Per lui, esponente del Partito Nazionale Fascista, la ‘‘ giovane nazione proletaria’’ deve effettuare una espansione coloniale, unico rimedio apparente alle fratture del Paese. «Nabucco» e anche Verdi furono così recuperati dal nazionalismo italiano negli anni che seguirono la conquista della Tripolitania (regione storica della Libia occidentale), che corrispondevano anche al centenario della nascita di Verdi, nel 1913. L’opera del compositore diventa un mezzo di lotta e accompagna anche le rivendicazioni di terre irredenti, come a Trieste. Verdi diventa interessante per il movimento fascista: compositore nazionale e popolare. Ma sarà anche il musicista plebiscito dalla ‘‘italietta’’, l’Italia della borghesia liberale odiata dai fascisti e sarà ugualmente mobilizzato dagli antifascisti, nella sua versione proletaria, e a partire dal 1938 simbolo degli ebrei italiani. Il «Va Pensiero» diventa il canto di tutti. Dopo la guerra arriverà il momento della folklorizzazione. Questa opera musicale verrà utilizzata in contesti più diversificati: che siano politici, commerciali o di eventi. In definitiva è proprio la plasticità dell’opera che la rende leggibile almeno in cinque interpretazioni possibili: patriottica, liberale, socialista ma anche come “canto dell’esilio” o, come scrisse il suo autore, “inno universale alla resilienza”.

Lascia il primo commento

Lascia un commento