Brevi profili di storia sociale e culturale dell’Unione Sovietica. Dalla invasione della Cecoslovacchia (1968) alla caduta dell’URSS (1991). Di Giuseppe Moscatt.

Michail Sergeevič Gorbačëv.

1. L’U.R.S.S., da Brežnev a  Gorbačëv (1969-1985).

La critica storica dominante individua alla fine degli anni ’60 una situazione di inquietudine delle relazioni internazionali derivata dall’intervento del Patto di Varsavia nella Cecoslovacchia, paese satellite dell’Unione Sovietica. E se il testo finale di quel Patto proponeva alla Nato una conferenza sulla Sicurezza Europea; le ragioni Occidentali opposte di cautela, ma non di rigetto, dimostravano la fondatezza di tali necessità, vista anche la durata della lunga guerra del Vietnam scoppiata nel 1964, che vedeva i due blocchi contrapposti col rischio di una conflagrazione nucleare. Ed è perciò che gli U.S.A. accettarono solo una Conferenza Multilaterale estesa al Canada. Intanto, epurati i sostenitori praghesi del nuovo corso democratico ceco; espulsi e incarcerati gli intellettuali coinvolti e ridotti al minimo le libertà civili del Paese; caduta una rigida censura sulle informazioni; a Mosca si teneva in giugno del ’68 una conferenza mondiale di tutti i Partiti Comunisti. E qui scoppiò una grana politica non indifferente, che miscelata alla crisi economica e culturale che il Paese ormai soffriva dalla morte di Stalin – 1953 – costituirà il primo punto di caduta del Regime sovietico. Infatti, i Paesi Socialisti opposero a Breznev un netto rifiuto alla dottrina della Sovranità limitata e del diritto di Intervento negli affari interni. Cavalieri del loro dissenso sono proprio i Partiti Comunisti dei Paesi Occidentali che così influiranno nei decenni successivi a condannare politicamente l’Unione Sovietica, producendo altresì l’effetto di rallentare gli scambi fra il Mercato Europeo e la Repubblica Sovietica. Italia, Francia e Germania occidentale rappresentavano l’export e l’import dell’URSS e poi trasferirono nel successivo sistema unitario Europeo le loro riserve. Non è un caso che gli storici economici calcolano la caduta dell’export di beni e servizi verso la Russia e che da questa provenivano indici industriali di decadenza progressiva, un aumento di popolazione anziana e la diminuzione di giovani. Inoltre gli anni ’70 registravano un Paese moralmente degenerato e burocraticamente corrotto. Stagnazione, inflazione, crisi petrolifera del 1973, creavano un crollo del Prodotto interno Lordo, aggravato da un centralismo organizzativo statuale che spinse Polonia e Ungheria a sottrarsi agli obblighi economici e militari. La ricca Polonia cattolica, ma  antisemita, in tre occasioni – 1950, 1970,1980 – tentò uno strappo analogo alla Cecoslovacchia, peraltro represso dal generale polacco Jaruzelski,  poliziotto di Mosca, ma inefficace a reprimere il sindacato operaio di Solidarność e la parola del Papa Polacco Wojtyla. Dopo un’incerta transizione dei primi anni ’80, sorgerà  il Governo di Gorbačëv (1985), che abbandonerà il Regime di stretto Monopartitismo; annullerà ogni tentativo interventista nei Paesi del Patto di Varsavia e lascerà però intatti i potenti servizi segreti – dove già cresce la figura diabolica di Vladimir Putin – ma anche adotterà una riforma ormai necessaria per contenere la crisi del lavoro e della società, sempre più refrattaria alla cultura monolitica. Succeduto improvvisamente a Jurij Andropov, Capo dei servizi segreti, e dunque si allontanava il pericolo di una nuova e più forte ristrettezza delle già limitate libertà civili e malgrado che il discepolo Vladimir Putin attendesse pazientemente il Potere di cui godrà fra meno di un decennio con fini per nulla democratici. Gorbačëv fonderà il suo breve quanto fondamentale Governo su due pilastri rivoluzionari: la Glasnost – cioè la trasparenza, ivi compresa l’apertura al mondo occidentale e la maggiore attenuazione, per non dire la cessazione, dell’intransigenza politica, fino a diminuire il rigorosissimo controllo del partito sulla situazione politica interna; nonché la Perestrojka, vale a dire l’abbandono della continuità autocratica ereditata dall’Impero zarista della classe veterocomunista di Stalin, di Brežnev, i campioni della oligarchia comunista, sacerdoti dell’economia centralista, dove l’Unione sovietica era raffigurata come un sistema nazionale e internazionale chiuso, dove stagnano i diritti civili e dove i cittadini tornano a vivere più liberamente il quotidiano senza alcun lasciapassare politico controllato dall’alto.

1968: i carri sovietici entrano a Praga. La folla contesta e cerca di opporsi.

Solo che la coscienza sociale partecipativa non ebbe nei trenta anni dall’episodio di Praga un chiaro sentimento di tale rivoluzione culturale. Infatti l’opinione pubblica appariva assente, silenziosa di fronte ad una minoranza dissidente e non vedeva i vantaggi di un Welfare State andato in crisi per la corruzione burocratica diffusa e per la povertà dei lavoratori, la cui tutela sanitaria e scolastica sembrava più debole, mentre la classica politica imperialista affannava le finanze e le famiglie e la guerra di intervento in Afghanistan contro i Talebani durerà più di un decennio (1978-1989), senza una vittoria definitiva, ma senza neppure una effettiva capacità dei guerriglieri di cacciare l’invasore russo, peraltro dissanguate o in uomini e mezzi.

2. La letteratura del dissenso e la società civile (1925-1991).

La domanda di Diritti Civili è presente però in un gruppo di intellettuali fin dall’età di Stalin: lo scrittore Maksim Gor’kij (1868-1936), nell’ultimo romanzo Vita di Klim Samghin del 1925, trasferì il sentimento realista dell’osservatore estraneo al quotidiano alla dura nostalgia di ciò che è stato e che non è mai diventato. Vale a dire il sentimento di cambiamento che gli intellettuali ripongono nel Partito marxista di Lenin e la diversa configurazione dello Stato Autoritario di Stalin. E che dire di Isaac Babel (1894-1941) che nei Racconti di Odessa (1921) e poi nell’Armata a cavallo (1923) dissacrava e smitizzava la leggenda della guerra civile giusta, narrando le vicende tragicomiche vicende degli Ebrei di Odessa, oppure le prodezze dei Cosacchi, descritte con dolorosa ironia proprio nella guerra polacca operate dalla cavalleria bolscevica, lasciando uno strascico di risentimento fra le due parti non ancora dimenticate? E poi, la massiccia opera di Vladimir Majakovskij (1893-1930), un poeta di cult ufficialmente adorato dalla dirigenza bolscevica per la sua imponente verve vitalista e futurista, ma poi morto suicida perché il naturale fluido poetico e lirico appare a Stalin e soci incompatibile col realismo operaio del Partito. tornerà all’ordine il Paese dopo la guerra civile? Ma non è da meno la triste vita da recluso del poeta Sergej Esenin (1895-1925), la cui sempre meno latente omosessualità e l’estetica illogica e incoerente rispetto gli stili di arte e vita imposti dalla critica comunista, gli determinò un senso di solitudine che del pari si concluderà con la morte. Questo senso di escapismo dal reale – che però si distacca di fatto dalle masse sempre più incatenate a schemi di realismo imposto dalla mutualità unitaria socialista e popolare – trova nella poetessa Anna Achmatova (Odessa, 1889 – Mosca, 1966) un esempio di vita in esilio in Patria. Prima della Rivoluzione Anna produsse liriche sublimi intimistiche ed espressioniste fondate sugli aspetti di una realtà di amori non corrisposti nella società ipocrita zarista (per esempio, Lo stormo bianco del 1917); poi sotto Stalin serbò in silenzio religioso e polemico con la Chiesa Ortodossa troppo servile rispetto al Governo. Difficile fu poi la sua vita di donna e di madre durante la guerra patriottica dal 1941-1944, quando I 6 libri, del 1940, sembrarono aderire a un larvato disimpegno politico scambiato dalla censura come mero estetismo disfattista. Solo nell’età del disgelo di Chruščëv (1954-1964) – genere culturale coniato dallo scrittore russo Il’ja Grigor’evič Erenburg per significare il breve emergere della letteratura intimista fra il 1955 e il 1965 – Anna riesce a mediare il sofferto lirismo antirivoluzionario con le necessità e la storia quotidiana, esprimendo nel 1962 in Poema senza eroe, un forte dissenso sulla società sovietica vuota di spirito, meccanico e formale, non minore di intensità struggente dei coevi poeti occidentali Vittorini, Camus e Anders. Si parla ora di disgelo, appunto, malgrado la crisi degli intellettuali comunisti, scossi dalla invasione militare dell’Ungheria nel 1956, quasi che i sintomi di apertura al mondo occidentale nati dopo la morte di Stalin, si fossero improvvisamente interrotti e rinnegati. Ecco, allora, un doppio tentativo degli intellettuali occidentali di superare l’apparente stallo della rinascita della letteratura russa dopo la parentesi totalitaria: il premio Nobel per la letteratura a Boris Pasternak (1890-1960) nel 1958; a Michail Šolochov (1905-1984) nel 1965 e ad Aleksandr Solženicyn (1918 -2008) nel 1970; rappresentano, tutti, la prova che l’occidente democratico è solidale allo spirito di riforma culturale della società russa dopo la caduta dello Stato autocratico monopartitico. Sono note le vicende culturali e politiche dei predetti autori – rispettivamente premiati dai giudici svedesi per Il dottor Živago; Il placido Don e Arcipelago Gulag – un pò meno lo sono le vicende legate ad Erenburg. La sua vita e il percorso intellettuale sembrano indicare un’era di libertà tanto agognata quanto sfumata proprio nei primi anni successivi alla fine dello zarismo. Ėrenburg, come Babel, soffre in gioventù sia per essere un Ucraino – nato nella Kiev russa come per l’Odessa del Babel, governate dall’oppressore zarista avversario delle idee democratiche occidentali – poi fuggito a Parigi per sottrarsi alla polizia politica. Nel 1917 combattè da russo bianco, pur se socialista, contro il bolscevismo perché ne comprendeva lo spirito prettamente materialista e cinicamente tirannico e centralista. Poi, alla morte di Lenin, ritornò a Mosca sperando in un bolscevismo democratico, al seguito dei Commissari del popolo Zinov’ev e Kamenev che a Pietrogrado guidavano l’ala moderata del Soviet Supremo e che guardavano al mondo occidentale favorendo il ritorno al commercio privato con la Nuova Politica Economica dopo la guerra civile. Erano gli anni della speranza di un nuovo modo di scrivere e di fare cultura, finalmente nel solco di Tolstoj e di Gor’kij, una mediazione fra realismo sociale e soggettivismo espressivo. Escono i suoi vari romanzi popolari che richiamavano la cultura meridionale europea, per esempio  Nel vicolo Protocny (1927), dove un occhio speciale è dato alla realtà popolare del quartiere operaio di Mosca, non lontano dai racconti veristi di Pérez Galdós e di Matilde Serao. L’omaggio al governo centralistico è ormai sulla scia censuristica di Stalin: il romanzo – Il  secondo giorno della creazione, è tolto dalla circolazione perché quando con ironia ebraica lanciava sottili critiche al Primo Piano Quinquennale. Seguiranno anni di silenzio, quelli della poetessa Achmatova, in piena coincidenza delle purghe staliniane che per miracolo non lo interesseranno. Silenzio che romperà dopo la morte di Stalin (1953): ora Ėrenburg esce allo scoperto e dopo aver attraversato il mare della letteratura minore fra fumetti e polizieschi; si lancia in una scelta epocale. E’ la descrizione cioè della successione politica, sociale e culturale del Regime autocratico del vero e proprio erede dello zarismo imperialista, pubblicando un romanzo – Il disgelo (1954) – il cui titolo raccoglie il consenso di tutti gli intellettuali di ogni scienza e arte e che perfino il nuovo segretario del PCUS, l’ucraino Chruščëv, adotterà il 14 febbraio del 1956 quale tema dominante del XX Congresso del Partito a Mosca. Egli denunziò in modo puntuale e il culto della personalità di Stalin e gli eccessi della classe dirigente dispotica e brutale, sia nella politica estera che nella politica interna. Nondimeno continuò la testimonianza culturale di Ėrenburg nella rivista Novyi Mir sui mutamenti della società sovietica e nella parallela ricerca della coesistenza pacifica fra le due superpotenze e il notevole contenimento della guerra fredda, specialmente nel 1962 con la gravissima crisi di Cuba. Fu anche in prima fila nella rievocazione memorialistica di personaggi e fatti, spesso nascosti dalla stampa di Regime, della vita culturale anche del dopo stalinismo. Senza la sua intelligente ricerca storiografica e letteraria, la fama del cinema russo del secondo dopoguerra – per esempio i commenti al film di grande successo in Occidente Quando volano le cicogne del 1957 del regista Michail Kalatozov – non avrebbero consentito la diffusione delle opere maggiori di cui si è detto. Del resto, molto presto le speranze di un Comunismo dal volto umano, saranno deluse dall’intervento militare sovietico in Ungheria nel novembre  del 1956. Sono gli studenti ungheresi che spingono la popolazione a chiedere il ripristino delle libertà democratiche e a riportare di fatto al governo del Paese il socialista democratico Imre Nagy (24 ottobre), malgrado la presenza di truppe sovietiche da tempo entrate a Budapest in ottemperanza alle citate clausole di intervento del Patto di Varsavia, Nagy dapprima avallò la rivolta popolare; poi di fronte al rischio di una gravissima guerra civile, cedette al segretario comunista Kadara, seguace del sovietico Krusciov  e consentì il ritorno delle truppe sovietiche e la feroce repressione. L’Onu protestò, i partiti democratici europei levarono gli scudi, quelli di ispirazione comunista criticarono con forti debolezze come quello italiano; ma la guerra fredda continuerà. Gli episodi di ribellione all’URSS della Cecoslovacchia, della Germania Est e della Polonia lo proveranno nel decennio successivo.

3. La fine dell’URSS: cause ed effetti (1989-1991).

Ritorniamo alla esperienza dirompente di Gorbačëv (1985-1991). La dottrina storica liberale (Romano) e quella marxista di Hobsbawm, concordano su un punto: nè il cittadino russo comune, né lo studente intellettuale colto e consapevole della crisi di identità dal regime sovietico; leggono con attenzione e con prassi conseguenziali i capolavori letterari della dissidenza. Non si rilevano rivolte studentesche come a Budapest e Praga; neppure, la base operaia di Solidarność in Polonia, ha obiettivi riscontri a Mosca. Certamente, quella invocata rivoluzione costituzionale connessa al programma di liberalizzazione (Perestrojka e Glasnost) non verrà dal basso. Vero è che fra il 1987 e il 1988 vengono autorizzate per legge le cooperative di piccole imprese private, approfittando dei fallimenti delle Grandi imprese di Stato. E gli economisti più aperti all’Occidente prendono a modello la poco collaudata Nuova Politica Economica di Lenin che già il primo piano quinquennale ridusse al minimo l’agricoltura, per favorire l’espansione industriale. Il rischio dell’anarchia economica e la mancata riduzione delle spese militari provocano invece ulteriori crolli nel tenore di vita popolare. E perciò appaiono in cirillico Il dottor Živago (1987), che viene letto in chiave romantica e nostalgica; oppure i libri della poetessa Achmatova, in chiave melanconica. Trionfa anche la letteratura di costume di autori giudicati in patria al limite della pornografia, come Vladimir Nabokov (1899-1977) con la sua Lolita; mentre un poeta di Leningrado, Iosif Brodskij (1940 – New York, 1966), discepolo dalla Achmátova, pubblica in esilio in America Fermata nel deserto (1972) e Elegie Romane, (1982), divenendo un seguace della metrica classica, come recita la motivazione del Premio Nobel per la letteratura conferitogli nel 1987. In realtà, le correnti storiografiche citate convergono su una notevole riforma troppo rapida e per di più con leggi calate dall’alto. Inoltre, si verifica un fenomeno sociale che l’Italia ha conosciuto nel quindicennio successivo alla fine del secondo conflitto mondiale: la mancanza di una revisione profonda del sistema amministrativo e della dirigenza compromessa col Fascismo, che blocca per anni la introduzione della Corte Costituzionale, del Consiglio Superiore della Magistratura, dall’accesso delle donne negli uffici pubblici, senza contare il ritardato avvio della organizzazione delle Regioni. Del resto la famosa frase di Guglielmo Giannini – si stava meglio quando si stava peggio – riecheggia nei bar di S. Pietroburgo fra i tanti disoccupati mandati a casa dalle privatizzazioni di Gorbačëv. Mentre il mondo degli scienziati plaude al conferimento del Premio Nobel per la pace al fisico Andrea Sacharov (1921-1989), non per il contributo alla messa a punto della bomba all’idrogeno, quanto e piuttosto per la sua intensa attività a favore di diritti civili (1988); si consuma volente o nolente contro la classe dirigente di Gorbačëv il più grave colpo di Stato nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche; a seguito del programma politico Separatista voluto dalla Perestrojka, le Repubbliche dei governi comunisti federati ottengono il controllo autonomo e politico, a cominciare dalle Repubbliche Baltiche – Lettonia, Estonia e Lituania – peraltro in scarsa armonia alla Costituzione dell’URSS del 1977. Mentre rimaneva l’unità della Russia Classica da S. Pietroburgo a Mosca sotto la sigla a R.S.F.R., la cd. Federazione Russa; sorgono ben 14 repubbliche autonome, con la caratteristica che dal 1991 ha una forma politica di stato contraddittoria, perché non tanto le elites governative locali intendono opporsi alla Russia quando tendono a liberarsi dalle elites appartenenti ai Partiti Comunisti che finora le governavano. Qui precipitò il Governo Gorbačëv: le nuove élites democratiche emergenti spingono l’acceleratore con l’alleanza politica col più accreditato esponente delle nuove compagini politiche, Boris Eltsin (1931-2007) e assumono cariche sempre più importanti nel Politburo comunista della Federazione, facendo leva sulla crisi del Grano – già scoppiata con la nuova repubblica Ucraina – e con quella dell’Acciaio, visto che l’abbandono scomposto della Russia dall’Afghanistan ha esposto il Paese ad un debito pubblico ancora più alto. Nel 1991 la politica russa – già scossa dalle polemiche per la caduta del muro di Berlino e dalla avviata riunione della Germania Est all’Ovest, nonché divisa dalle dichiarazioni troppo critiche del governo cecoslovacco ormai anticomunista, sotto la guida dello scrittore Václav Havel, ultimo eroe vivente della Primavera di Praga del 1968, si assiste impotenti – ma con il sostegno silenzioso della maggioranza del popolo stanco di quell’epocale cambio di Regime – alla fine dell’era di Gorbačëv. Il 1991 è l’anno del ritorno all’ordine, stavolta non contro il disordine della Rivoluzione del 1917, quanto contro lo stato confusionale che aveva generato lo scollamento fra paese legale intriso di ideologia comunista e paese reale aperto alle libertà civili ed economiche occidentali. Hobsbawm e Romano insistono sulle incapacità di Gorbačëv di essere stato troppo tenero con i vecchi burocrati e di non aver frenato lo strapotere delle nuove oligarchie. Nonché di non avere dato ascolto alla voce popolare e di aver sottovalutato la domanda di democrazia che si levava dal basso, non incanalata in strumenti costituzionali idonei a fronteggiare le istanze privatiste, che porteranno nel decennio successivo al ritorno dell’autocrazia di Putin e al suo intendimento di riaprire il Credo Panslavista in veste imperiale. Di certo, la politica estera negli anni di Gorbačëv e di Eltsin – 1985/2000 – subisce il crollo dell’impero sovietico, prima per la carenza ideologica federalista propugnata dall’ultimo Lenin e poi accentrata da Stalin e dalla sua nomenklatura. La supina accettazione della riunificazione tedesca (3.10.1990); l’estraneità della Federazione Russa alla prima guerra del Golfo (1990-1991); il silenzio sul separatismo politico crescente nelle vecchie repubbliche satelliti e sulle nazioni aderenti al patto di Varsavia; contribuirono contemporaneamente alla decadenza dello Stato Sovietico, uno dei pilastri della pace europea del 1945 ad oggi. Il modello di Stato federale americano adottato per la Russia nell’aprile del 1991 lasciò scontenta la classe borghese russa che osserva in silenzio scappare di mano un ampio mercato amico cui non potrà più attingere. E’ lo stesso dilemma che ha spinto il Comitato Centrale del PCUS alla fine della guerra civile nel 1920 e poi il più generale problema che si è presentato alla fine di tutti i furori rivoluzionari, dopo la guerra d’indipendenza americana a Hamilton e al Direttorio francese dopo Robespierre. Come loro anche Eltsin scioglierà il PCUS e difenderà le istituzioni repubblicane  dal tentativo della vecchia burocrazia di riprendere il potere a Mosca, nel cd. Putsch dal 21 agosto del 1991, quando alcuni esponenti del PCUS insorsero contro Gorbačëv e che Eltsin difese facendo leva troppo tardi su un Popolo che non intendeva più ritornare al passato comunista. E non manca il Romano a rilevare in quest’ultima occasione il valore e la forza dei movimenti nazionali in Europa centro-orientale. Ma Hobsbawm evidenzia però come la fine dell’URSS provoca in Europa un vuoto di potere che in modo lungimirante Pietro il Grande (1672-1725) aveva colmato con i suoi successori fino al 1917 e che lo stesso Comunismo aveva preservato dietro la scelta del Comunismo in un solo Paese. La frammentazione dell’Unione Sovietica in una miriade di Stati autonomi nel 1991 produce una vasta area da riorganizzare e che rischia per la storiografia marxista di essere un terreno di scontro fra Occidente e Oriente. Un decennio complesso che investirà anche la Russia ex Sovietica. Non pochi Paesi del Patto di Varsavia andranno verso la casa Europea che col Trattato di Maastricht ha revisionato il superato e logoro Mercato Comune (1994) e che si presenta come un’Istituzione più idonea a raccogliere le Nazioni dell’Est non più appendici della Madre Russia bolscevica. Del pari, il decennio anteriore alle entrata di Putin al Cremlino (21.8.1991-7.5.2000), appare analogo al nostro decennio di preparazione che ha avuto in Camillo Cavour e nella classe dirigente piemontese i protagonisti dell’Unità d’Italia. E come il Regno delle due Sicilie fu per quel progetto una pietra di inciampo, così la Repubblica Ucraina sembra esserlo per le prospettive dell’attuale Federazione Russa, tale da imporle un doloroso conflitto militare ancora lontano dal risolversi.

Bibliografia:

Per il trentennio 1969-1999, vd. ERIC JOHN HOBSBAWM, Il secolo breve, 1914-1991, ed. italiana, Milano 1997, nonché SERGIO ROMANO, Disegno della storia d’Europa dal 1789 al 1989, Milano 1991.

Per l’ideologia russista, cfr. ANDREA GRAZIOSI, L’Ucraina e Putin, tra storia e ideologia, Milano, 2022.

Per la questione Ucraina, vd. LUCIO CARACCIOLO, La pace è finita, Milano, 2022.

Per la letteratura del dissenso, vd. VITTORIO STRADA, Le veglie della ragione: miti e figure della letteratura russa da Dostoevskij a Pasternak, Torino, Einaudi, 1986.

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