Con la dissoluzione dell’URSS, gli indipendentismi del Caucaso meridionale si sono risvegliati, e oggi nuovi conflitti minacciano la sicurezza di una regione di importanza fondamentale nel quadro degli equilibri internazionali. Di Roberto Roggero.

Mappa della zona contesa.

Un territorio conteso da decenni, eppure molti sanno a stento dove si trova se si parla di Nagorno Karabakh, mentre se si parla di Artsakh, lo sanno certo in meno. Forse perché si crede ci riguardi poco, e sarebbe un errore di valutazione. In Italia, e in molti Paesi d’Europa, ci sono numerose comunità armene, e gli scambi commerciali sono intensi. Armenia, Azerbaijan, Artsakh, Georgia, ovvero la regione del Caucaso, uno dei punti cruciali dei sistemi di collegamento del mondo come oggi lo conosciamo, regolato principalmente da interscambi di risorse. E il Caucaso è un territorio ricco di risorse quali petrolio, gas naturale, fosfati, ed è attraversato dai gasdotti più importanti di una delle regioni globalmente più fondamentali. 

E’ uno dei motivi che fanno della piccola Repubblica dell’Artsakh un territorio conteso, pur non avendo sbocchi sul mare, incastonata nel Caucaso meridionale, sull’altopiano armeno, su circa 11.500 km quadrati, con l’etimologia del nome che si riferisce alla definizione come “nero giardino montuoso”.

Artsakh è il nome che ha assunto il Paese alla formazione della Repubblica, eccetto la regione di Shahumian-Goranboy, di fatto inglobata dall’Azernaijan, che pare non avere intenzione di rinunciare anche al restante territorio.

Storicamente, l’Artsakh faceva parte della Federazione Transcaucasica, creata dopo la Rivoluzione del 1917, ma gli accesi nazionalismi hanno dato origine alle divisioni fra Armenia, Georgia, Azerbaijan e Nagorno Karabakh. La maggioranza della popolazione, armena per il 98% circa, diede logico motivo di rivendicazione di appartenenza da parte di Yerevan, nonostante questo, anche l’Azerbaijan ha esteso le proprie mire e, nel 1923, il Nagorno Karabakh fu “assegnato” all’Azerbaijan per decisione di Stalin, con lo statuto di Oblast autonoma.

Glasnost, Perestrojka e autodeterminazione

Dopo anni e anni di “fuoco sotto la cenere”, e il delicatissimo periodo della Guerra Fredda, nel 1985 Mikail Gorbachev, con giusta lungimiranza, cominciò a orientare la politica verso le ben note correnti dell’apertura e della riforma soprattutto economica, poiché aveva giustamente interpretato i segnali evidenti delle conseguenze della dissoluzione. Una di queste fu la dichiarazione del febbraio 1988, con la quale il Soviet Regionale del Karabakh decise di votare l’unificazione all’Armenia, contro i programmi del segretario locale Heydar Aliyev, futuro presidente dell’Azerbaijan.

A seguito delle aperture politiche di Gorbachev, la dissidenza e l’opposizione presero corpo, sulla storica comunanza di visione culturale e sociale di molti celebri intellettuali armeni e russi, fra i quali Andrej Sacharov, la cui moglie era armena.

Furono denunciati scontri armati a Kapan, Askeran e Meghri, confische, violenze, espulsioni forzate, coinvolgimenti delle minoranze musulmane, regolamenti di conti, fino a episodi tristemente celebri come quello di Sumgait (non lontano da Baku) alla fine del febbraio 1988, dove la comunità armena fu presa di mira con crimini, atti di violenza (e oltre una trentina di morti), interrotti dopo tre giorni dall’intervento di forze armate russe e dall’esodo totale di tutta la popolazione armena. Lo stesso avvenne a Kirovabad, dove i morti furono oltre 200. Nel gennaio 1990 un altro pogrom contro gli armeni a Baku con decine di morti, spinse Gorbachev a dichiarare lo stato di emergenza e inviare le truppe per ristabilire l’ordine. Venne imposto il coprifuoco, ma violenti scontri scoppiarono fra soldati sovietici e ribelli azeri del Fronte Popolare, con oltre cento morti. Avvenimenti che hanno reso insanabile la frattura etnica, e soprattutto politica, e determinato un indebolimento delle relazioni fra l’Azerbaijan e Mosca.

Di contro, esistevano diverse enclave azere in territorio armeno, dove gli scontri etnici si acuirono. A Yukhari Askipara, Barkhudarli, Sofulu, Karki, forze armene attaccarono i villaggi di confine. Il 26 marzo 1990 diversi mezzi con paramilitari armeni giunsero nel villaggio di Baganise e uccisero una decina di abitanti azeri. Altri villaggi furono bombardati con razzi, granate e mortai. Il primo attacco venne respinto, una volta giunti i rinforzi da Yerevan, gli armeni riuscirono a conquistare Oskipara e Baganis Ayrum. Alla fine di agosto, carri armati, cannoni contraerei ed elicotteri d’assalto dell’Armata Rossa agli ordini del generale Yuri Shatalin, costrinsero gli armeni a ripiegare.

Sul piano politico, il referendum indetto da Gorbachev generò l’ascesa al potere di Boris Eltsin in Russia, Levon Petrossian in Armenia, e Ayaz Mutalibov in Azerbaijan, che boicottarono l’adesione alle urne e portarono i rispettivi Paesi all’indipendenza.

Nella regione del Karabakh armeni e azeri cominciarono ad armarsi, Mutalibov si rivolse a Gorbachev per evitare un bagno di sangue e, tra fine aprile e inizio maggio 1991 forze interne di sicurezza sovietica (OMON russi e azeri) intervennero nel nord del Karabakh, a Shahumian, e nei pressi del confine. Quella che doveva essere una pur massiccia operazione di ristabilimento della sicurezza, si trasformò in una evacuazione forzata della popolazione armena, con numerosi morti e feriti.

Anche nella élite politica del Cremlino, però, si manifestavano opinioni ben definite, sostenute fra gli altri dal consigliere economico di Gorbachev, Abel Aganbegyan, di chiare origini armene, e la stampa internazionale cominciò a dare risalto alla questione, sull’onda delle manifestazioni operaie e popolari per le strade di Yerevan e, all’opposto, in quelle di Baku. Gorbachev incontrò i leaders del Movimento armeno del Karabakh, Silvia Kaputikian e Zori Balayan, ma la situazione non si sbloccò fino all’inizio degli anni ’90.

La dissoluzione dell’URSS fu un evento epocale, che trascinò il mondo verso nuovi assetti, non ancora stabiliti oggi, e il conflitto fra Azerbaijan, Artsakh e Armenia ne è un evidente manifestazione. Al crollo sovietico, l’opposizione armena del Karabakh si mobilitò e denunciò l’imposizione forzata di Baku nel voler assorbire il territorio.

Nel 1991 il locale Comitato del Soviet, decide di dichiarare la formazione della nuova Repubblica del Karabakh, facendo valere la legislazione sovietica, con l’appoggio dell’Azerbaijan, a sua volta dichiaratosi indipendente da Mosca, ma i vari referendum, plebisciti, ed elezioni, manifestarono le chiare intenzioni della popolazione. A questo punto, in ottobre, l’Azerbaijan passa all’azione militare, fermata poi nel ’93 da un accordo di cessate-il-fuoco. I negoziati che, da allora, sono in corso con vicende non certo risolutive, sono attualmente ancora condotti con la mediazione del Gruppo Minsk della OSCE, e con il recente rinnovato cessate-il-fuoco concluso a Mosca e, a quanto pare, già ripetutamente violato.

Una spirale di violenza

La situazione degenerò rapidamente verso la guerra aperta, che iniziò il 31 gennaio’94  con migliaia di soldati e mezzi blindati azeri in avanzata verso le montagne del Karabakh, mentre aerei e artiglierie bombardavano la capitale Stepanakert e i villaggi di Nakhicivanik, Khramort e Farruk. I combattimenti più violenti si registrano ad Askeran e nei pressi di Shushi. Dal canto loro gli armeni conquistano Malibayli, Karadagly e Aghdaban, registrando un centinaio di perdite, ma il conflitto si allarga e degenera, fino al massacro di Khojaly, sede dell’unico aeroporto della regione nonché di una base di artiglieria azera che teneva sotto tiro Stepanakert. Secondo la parte azera, gli armeni conquistarono la città e, per rappresaglia, uccisero almeno 500 civili, fra cui donne e bambini. Il governo armeno ha sempre negato ogni responsabilità.

Poco meno di due mesi dopo Khojaly, oltre 50 persone vennero uccise a Maragha, e altre cento rapite da gruppi estremisti azeri. Successivamente si combatte accanitamente a Sushi, dove alcune centinaia di armeni, spalleggiati da carri armati ed elicotteri, attaccarono la città. I combattimenti si svilupparono nelle strade con alcune centinaia di caduti. Al termine degli scontri, per quanto numericamente superiori, le forze azere si ritirarono.

Il 18 maggio le forze armene (che dal 9 maggio erano ufficialmente organizzate nell’Esercito di Difesa del Nagorno Karabakh) entrano a Lachin, ma a metà giugno le forze azere lanciano un’offensiva in forze per la conquista dell’intero Nagorno Karabakh, causando la aperta minaccia di intervento del governo armeno. Oltre 30mila armeni di Stepanakert lasciano la città, generando una aperta crisi umanitaria. L’operazione consente agli azeri di conquistare in poche settimane quasi metà del territorio. Nonostante lo sforzo, tuttavia, l’Azerbaigian non riesce ad avere la meglio e il 1992 si chiude in stallo. Le ostilità ripresero, e sfociarono ancora in atti di violenza e crimini di guerra. Numerosi morti si ebbero nella battaglia di Kelnajar fra marzo e aprile ’93, poi a Martakert, nel frattempo a Baku scoppiò anche la crisi di governo. Feroci combattimenti avvennero a Merzuli (dove fu ucciso il leggendario comandante armeno Avo”), Askeran, Agdam e, mentre il Gruppo di Minsk teta l’azione diplomatica, altri scontri armati si hanno a Fizuli, Jibrail e Zangilan, pericolosamente vicine al confine con l’Iran.

Nel 1994 si combatte a Gulistan-Talish, Chily, Madaghis e Levonark, poi la guerra comincia a calar di intensità, e nel maggio si arriva all’Accordo di Biskek (Kirghizistan) tra Armenia, Azerbaigian e Nagorno Karabakh.

Un resoconto ufficiale sulle conseguenze del conflitto non è mai stato stilato con precisione. Oltre ai circa 30mila morti e 80mila feriti vanno considerate alcune centinaia di migliaia di profughi che da una parte e dall’altra hanno dovuto abbandonare le proprie case.

A conclusione delle vicende belliche la repubblica del Nagorno Karabakh aveva esteso il suo territorio fino a raggiungere gli attuali 11458 km quadrati. Il conflitto, però, non si spegne, in particolare per le continue violazioni del cessate-il-fuoco lungo il perimetro di confine, dove sono molto diffuse attività come contrabbando, mercato nero, traffico di armi o droga, e altro ancora. In diverse situazioni, le parti opposte sono arrivate allo scontro aperto, inizialmente contenuto nei limiti di schermaglie isolate, poi sempre più pesante dal punto di vista di perdite di vite, e di impiego di armi.

Nel giugno 1999, a Martakert, si sono avuti accaniti scontri, e nel marzo 2000 si è avuto in tentativo di incursione di reparti azeri nella stessa zona, con diverse vittime e feriti.

Nel giugno 2003 alcuni soldati azeri rimasero intrappolati in territorio nemico nei pressi del villaggio di Karakhambeili e due anni dopo, a marzo 2005, una decina sono stati uccisi mentre tentavano un avvicinamento lungo le postazioni di Aghdam. Molti gli scambi di colpi d’arma da fuoco lungo la frontiera fra Azerbaigian ed Armenia.

A marzo 2008 nei pressi del villaggio di Levornarkh (sulla linea di demarcazione) si sono avuti scontri che, secondo gli azeri, sono stati provocati dagli armeni per distogliere l’opinione pubblica nazionale dalle polemiche sulle elezioni presidenziali e i gravi incidenti di piazza. A loro volta gli armeni accusano il nemico di aver voluto approfittare della situazione interna per testare i limiti di difesa delle postazioni avversarie. Gli armeni lasciarono sul campo 12 uomini, gli azeri otto.

Nel giugno 2010, e sempre nella stessa zona, un altro scontro fu sul punto di far precipitare la situazione verso una nuova guerra aperta. Dopo un nuovo infruttuoso tentativo di negoziati a Mosca, una ventina di soldati azeri organizzarono una ricognizione in territorio nemico nei pressi del villaggio di Martakert; il combattimento durò diverse ore e, secondo una stima non confermata, causò quattro armeni e uno azero. In Armenia il fatto generò aspre polemiche, perché il Gruppo di Minsk dell’OSCE non prendeva una posizione per non compromettere i negoziati, mentre l’Azerbaigian allestiva imponenti manovre proprio lungo la frontiera.

A partire dall’estate 2010 si moltiplicarono le violazioni del cessate-il-fuoco, numerosi soldati (prevalentemente armeni), sono feriti o uccisi da cecchini nemici lungo la linea di confine e il ministero della difesa del Nagorno Karabakh denuncia la violazione dello spazio aereo da parte di aerei nemici. Nel novembre 2011 le milizie armene avviano una massiccia operazione lungo la frontiera, in risposta agli attacchi azeri che avevano provocato la morte di due soldati.

Di mese in mese, la situazione stava irrimediabilmente degenerando verso uno stato di guerra conclamata, e le violazioni degli accordi di tregua si diffondono non solo sul confine azero con l’Artsakh, ma ance lungo quello con l’Armenia, in particolare nella zona di Tavush, dove si segnalano numerosi tentativi azeri con numerose perdite da entrambe le parti. In quei giorni, da segnalare la visita dell’allora segretario di stato americano, Hillary Clinton.

Nel gennaio 2014, altro tentativo di incursione azera. Secondo fonti armene, non confermate dall’Azerbaigian, otto i morti e oltre 20 i feriti fra gli azeri e un soldato armeno caduto. Pochi giorni dopo un altro soldato dell’Esercito di Difesa del Karabakh viene ucciso da un cecchino. Nuovi violenti scontri si segnalano in agosto, mentre a novembre un elicottero armeno è abbattuto da un razzo azero.

Anche il 2015 fa registrare un crescendo di tensione soprattutto in gennaio, e da agosto a dicembre, quando per la prima volta viene documentato l’uso di un carro armato azero, impiego di armi di medio calibro, lanciarazzi e mortai.

Gli insuccessi Minsk-OSCE

Un’iniziativa evidentemente nata sotto auspici non positivi, che fin dalla prima conferenza dimostra una profonda crisi di credibilità. I primi colloqui, nel 1994, non arrivano a nulla, e nemmeno la Dichiarazione Conclusiva del Summit di Lisbona nel ’96, soddisfa le parti in causa.

Nel maggio 1997 il Gruppo di Minsk presenta un nuovo documento che scontenta sia gli armeni che gli azeri, e altri tentativi successivi non portano alcun risultato. Nel 1999 il presidente armeno Robert Kocharyan e quello azero Ilham Aliyev si incontrano a New York, al Palazzo di Vetro, primo di numerosi incontri fra le massime autorità dei due stati, ma nonostante le volte strette di mano e foto di buon auspicio, la situazione rimane in stallo. Anche e Parigi nel gennaio 2001, a Key West in Florida nell’aprile seguente, Rambouillet nel gennaio 2006, gli incontri si concludono senza risultati apprezzabili e nemmeno il pregevole tentativo fatto con il Documento Ufficiale OSCE pubblicato a Madrid nel 2007, e la successiva ratifica di San Pietroburgo del 2009, causano una variazione delle posizioni di Azerbaijan, Armenia e Artskah.

Il presidente russo Dmitrj Medvedev riunisce i presidenti armeno e azero a Maiendorf nel novembre 2008, e firmano una dichiarazione congiunta che sembra un reale tentativo di stabilire un accordo duraturo, ma ancora una volta i negoziati non proseguono, nemmeno sotto la spinta del G8 dell’Aquila (luglio 2009) e la successiva Dichiarazione di Astrakhan.

Le difficoltà politiche si riflettono sul campo, e i vari accordi per lo scambio di prigionieri, come quello concluso nel 2010 con la mediazione dell’allora presidente russo Medvedev, non portarono a tangibili segni di pace. Nel febbraio 2017, il Nagorno Karabakh si autoproclama Repubblica dell’Artsakh, con il riconoscimento della maggior parte dei Paesi del mondo

La nuova guerra: Turchia, Russia, Israele, Iran, e poi?

La situazione degenera ancora nel 2012, soprattutto a causa di un caso, divenuto immediatamente terreno di scontro politico, cioè l’estradizione del cittadino azero Ramil Safarov, colpevole dell’efferato omicidio dell’ufficiale armeno Gurgen Margaryan, oltre all’abbattimento di un elicottero armeno sulla linea di demarcazione Artsakh-Azerbaijan. Gravi incidenti anche negli anni seguenti, e nel 2016 si arriva a un’operazione militare azera di cinque giorni, con accaniti scontri e numerosi morti, passata alle cronache come “seconda guerra del Nagorno Karabakh”, fermata dall’intervento diplomatico di Mosca e Washington e dagli incontri di Vienna e San Pietroburgo, per affrontare la questione umanitaria dei rifugiati.

Da allora a oggi, la situazione non è cambiata: violazioni, denunce di uccisioni e violenze, e la spirale comincia ancora una volta a girare. Lo scorso 27 settembre 2020, l’Azerbaijan ha attaccato la Repubblica dell’Artsakh, con il sostegno della Turchia. E’ poi degli ultimi giorni la notizia che una notevole quantità di armamenti siano stati forniti alle forze azere da Israele, soprattutto droni da combattimento, nonché della presenza di numerosi gruppi di estremisti islamici reclutati da Ankara. E’ ben nota l’avversione turca per tutto ciò che è armeno. A rischio di coinvolgimento anche l’Iran, le cui frontiere non sono lontane dalla zona di guerra, oltre al fatto che un velivolo azero è già stato abbattuto in territorio iraniano.

In circa due settimane, si sono svolte operazioni militari azere contro il Nagorno Karabakh, con il sostegno della Turchia, che manda sul campo bande di miliziani fondamentalisti islamici contro i cristiani armeni, gli “infedeli che per primi hanno diffuso il cristianesimo”.

Se Mosca, da sempre importante mediatore in questo conflitto, è vicina all’Armenia nell’ambito di un’alleanza per la sicurezza regionale, la Collective Security Treaty Organization (CSTO che riunisce Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tagikistan) grazie alla quale ha una base a Gumri (con 3.000 soldati e missili antiaerei S-300) oltre a una base area ad Erebuni (con una ventina di 18 Mig29), Ankara è tra i più storici rivali dell’Armenia, e ha offerto il suo deciso appoggio all’Azerbaigian inviando, consiglieri militari e oltre quattromila mercenari siriani da Afrin, parte del gruppo islamista filo-turco “Brigata del Sultano Murad”.

Scontri armati hanno causato, fra soldati e civili, almeno tremila morti, prima che il presidente russo Vladimir Putin si proponesse ancora una volta come mediatore della situazione, ma come il passato, le violazioni degli accordi sono numerose, e la capitale dell’Artsakh, Stepanakert, è comunque sotto le bombe. Le autorità armene parlano anche di armamenti provenienti da Israele. Insomma, la guerra fra il ricco Azerbaijan (che può barattare le proprie massicce riserve di petrolio e gas naturale per comparsi convenienti alleanze). Ed ecco che il conflitto in Artsakh oltrepassa gli interessi locali e diventa, come Siria, Libia, Yemen, Africa, terreno di scontro per procura, regolato da interessi a innumerevoli zeri e accordi di potere.

Il gioco quindi si allarga. Sullo sfondo non poteva mancare la Turchia, che non vuole rassegnarsi a regolare i conti con l’Armenia e a confidare in una restaurazione dei domini ottomani, ma in campo entra anche l’Iran, che ha il confine in comune con i territori in questione.

L’accordo raggiunto con la mediazione di Putin sembra certo essere la classica “pezza di emergenza”, è da affinare e definire, soprattutto contro il nemico tempo, che sulla linea del fronte si traduce nel rischio che una scaramuccia si trasformi in un combattimento, che si trasformi in una battaglia, e quindi in nuove offensive e risposte, che siano provocate o meno.

La partita che si sta giocando nelle stanze delle decisioni è molto più delicata, di più ampio respiro internazionale, difficile, eppure il Sud Caucaso è storicamente sempre stato sottoposto a influenze contrastanti, dai tempi di Attila e Gengis Khan, e Mosca da sempre è azionista di maggioranza nella regione. Gli equilibri quindi vedono in campo, oltre alle parti direttamente coinvolte Azerbaijan, Artsakh e Armenia, anche Turchia, Israele, Russia, Iran, ONU-OSCE, in un Risiko che dovrà decidere necessariamente nuovi equilibri delle potenze regionali. La situazione lo impone, perché è ben dimostrato che soluzioni temporanee hanno sempre portato a nuove tensioni.

La Turchia costituisce l’elemento di volta. Molti analisti sono convinti che senza la Turchia le ostilità non sarebbero mai riprese, soprattutto con l’utilizzo di armamenti di nuova generazione. Erdogan ha lanciato una nuova sfida a Putin, ma non per provocare un conflitto dal quale avrebbe nulla da guadagnare e soprattutto molto da perdere, ma per affermare una riconquistata zona di influenza, anticamente parte del dominio turco. Di contro, per Mosca, il Sud Caucaso è troppo importante: Ankara si è inserita nelle maglie lasciate sguarnite della regione, in realtà piuttosto frammentata, con l’Armenia che mantiene legami fondamentali con il Cremlino (basato su un accordo di difesa con allestimento di una base militare russa in territorio armeno, acuta mossa di Putin), mentre dall’altra l’Azerbaijan, pur acquistando armi russe e intrattenendo a sua volta rapporti con Mosca, può permettersi un più che discreto margine di manovra grazie al petrolio e al gas del proprio sottosuolo. Di certo, Mosca non può permettere che l’Azerbaijan si porti a potenza dominante nella regione caucasica, che a tutti gli effetti è considerato una sorta di “giardino di casa”.

Bisognerà attendere, e non certo molto tempo, per vedere se e quali saranno le proposte a lungo termine, oltre il cessate-il-fuoco. Il problema del Nagorno Karabakh, così com’è, non ha soluzione. Le ragioni azere si scontrano con la netta maggioranza della popolazione armena, i negoziatori internazionali sono al lavoro in un vero ginepraio sempre più spinoso, ma senza troppe illusioni. Francia e Russia, insieme alla presidenza del “Gruppo di Minsk”, hanno certo ufficialmente comunicato la necessità di porre fine agli scontri armati, stando a diverse opinioni, la Russia di oggi non è l’URSS di una volta, che batteva il martello e non si discuteva oltre. A Putin non conviene avere visioni di restaurazione di imperi anacronistici, come quelle di Erdogan, ma garantire la sicurezza di un territorio essenziale per l’economia russa, e di certo avere alleati piuttosto che rivali. La Turchia non fa parte di questo progetto, e di sicuro la situazione non cambierà fino a quando Ankara continuerà a fomentare guerre impunemente, e di fronte alla porta di casa di Putin.

Per quanto riguarda l’Iran, come la Turchia è un altro elemento di prima importanza. Storicamente anche Teheran ha sempre giocato, più o meno direttamente, un ruolo di primo piano. Né l’Iran di oggi è quello di fine anni Novanta o primi anni Duemila.

La caduta dell’URSS e la nascita degli stati indipendenti ai propri confini, hanno imposto nuove sfide a Teheran, con un radicale cambio di strategia. Sul piano economico, se la presenza di un solo confine aveva concesso all’Iran un ampio margine di sfruttamento delle risorse del Mar Caspio, la nascita di nuovi stati nel bacino ha rivoluzionato il mercato energetico nella regione.

Dal punto di vista politico, la questione è ancora più complicata; i conflitti regionali, e soprattutto quello fra Armenia e Azerbaijan per il Nagorno-Karabakh, ha spinto la Repubblica Islamica a riconsiderare il suo operato nel Sud Caucaso, che è un vero e proprio grattacapo. Nonostante gli stretti legami che legano Iran e l’Azerbaijan (1/4 della popolazione iraniana è di diretta discendenza azera), le relazioni sono soggette a periodi di crisi. Queste tensioni e i loro successivi sviluppi hanno fatto sì che, tutt’oggi, le due parti abbiano intrapreso alleanze che complicano, o rendono pressoché impossibile un ricongiungimento: se Teheran guarda con diffidenza i legami fra Azerbaigian e Israele, Baku non tollera quelli fra l’Iran e Armenia e, ancora meno, fra Iran e Artsakh. Da parte sua, nonostante la pressione delle sanzioni americane, Teheran guarda comunque al Sud Caucaso come una propria zona di influenza, cercando di districarsi nei delicati equilibri per mantenere aperte e convenienti relazioni con tutte e tre le repubbliche del Caucaso meridionale.

Il conflitto fra Armenia e Azerbaijan è un notevole disturbo per l’Iran, che ha tutto l’interesse a mantenere, come la Russia, un giusto e favorevole equilibrio nella regione, soprattutto anche considerando il lungo confine fra Iran e Nagorno-Karabakh. Teheran sa che schierarsi apertamente da una parte vuol dire mettere in crisi i rapporti con un’altra, pur facendo buon viso a cattivo gioco, di fronte all’accordo fra Baku e Israele.

Quindi l’Iran, l’unico Paese direttamente confinante con la zona di conflitto, esprime preoccupazione rispetto alle provocazioni in corso nella regione e vuole evitare che queste diventino un pretesto per far arrivare forze militari di Paesi terzi in prossimità dei confini iraniani. Ma ciò che è davvero senza precedenti è il chiaro e inequivocabile riferimento al diritto di autodeterminazione e, per avere il necessario supporto, cerca alleati in Armenia che condividano la visione geopolitica. Naturalmente, il passo è breve se si vuole andare a trovare in questo un motivo perché l’Iran fornisca a sua volta supporto materiale alle parti in causa, a seconda della propria convenienza. Esisterebbero dichiarazioni che testimoniano l’invio di soldati dall’Afghanistan, riportate da SalamNews e dall’agenzia Arannews, e altre che vedono nell’Armenia il solo partner valido per la politica regionale di Teheran.

In proposito è citata anche una dichiarazione ufficiale di Teheran. La posizione iraniana sul conflitto del Nagorno Karabakh non è cambiata, ha annunciato il ministero degli Esteri: “L’Iran sostiene una risoluzione pacifica del conflitto in conformità con il diritto internazionale”. Di certo è stato registrato un sensibile aumento delle comunicazioni telefoniche fra il primo ministro armeno, Nikol Pashynian, il presidente della Repubblica Islamica, Hassan Rouhani, e il premier azero Ilham Aliyev. Quello turco è da molti interpretato come un tentativo di ottenere concessioni dalla Russia, tanto in Libia quanto Siria, ma è anche un modo per aumentare la propria influenza sulle risorse energetiche dell’Azerbaijan, a cui sta offrendo il suo supporto, a scapito di Mosca, con cui, più o meno direttamente, dovrà ridiscutere i termini del suo contratto con Gazprom, in scadenza nel 2021.

Sul campo, il rischio che il conflitto possa allargarsi fino a diventare un’altra Siria, un altro Yemen, un’altra Libia…

E Israele? Basti ricordare che l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan fornisce a Israele il 40% del suo petrolio. La preoccupazione è tale da aver spinto l’ambasciatore dell’Azerbaijan negli Stati Uniti, Elin Suleymanov, ad avvertire che la fornitura di petrolio di Israele potrebbe essere messa in pericolo dagli scontri. Cosa che impone di pretendere e mostrare cautela, ma dimostra perché, in modo quasi anomalo, in questa fase, Tel Aviv e Ankara sembrano trovarsi dalla stessa parte. Un colpo a questo sistema di oleodotti, oltre a ferire profondamente rivali come Israele e quei Paesi europei così ambigui sull’accordo nucleare, per non parlare di USA e NATO, potrebbe consentire a Teheran di tornare a giocare un ruolo chiave nella partita energetica. Impedire la degenerazione del conflitto è il primo obiettivo iraniano e anche israeliano e, di sicuro, lo è anche il coinvolgimento di altri Paesi nel conflitto e le loro relazioni, che rendono la questione ancora più complicata, specie dopo il fallimento del Gruppo Minsk-OSCE.

La domanda è fino a quando l’Iran potrò rimanere neutrale, a seconda dell’evolversi della situazione? Dipenderà dagli attori coinvolti e da quale sarà la linea rossa.

Con i combattimenti che sembrano non attenuarsi nonostante i ripetuti appelli internazionali, quale sarà davvero l’ultima parola? Il grande Charlie Chaplin diceva: “Il tempo è il regista per eccellenza, trova sempre il finale giusto”…

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