la Turchia di Erdogan appoggia gli estremisti islamici per perseguire i suoi piani di espansione in Siria, Libia e Somalia. Di Alberto Rosselli (testata: Al Maghrebiya Italia).

Il dittatore turco Erdogan.

La Repubblica di Turchia, così come è stata fondata da Mustafa Kemal Atatürk (1881–1938) negli anni Venti del secolo scorso, ha, almeno sulla carta, un impianto istituzionale fondato su un rigoroso laicismo. Con l’avvento alla presidenza del leader Recep Tayyip Erdogan  – che, in precedenza, dal 2003 al 2014, aveva ricoperto la carica di primo ministro e quella di sindaco di Istanbul dal 1994 al 1998 – quest’ultimo sembrò voler continuare la politica kemalista, mettendo a punto una serie di riforme con lo scopo di occidentalizzare ulteriormente il Paese. In tale ottica, egli continuò a porre sotto il controllo statale le istituzioni religiose, eliminato i caratteri arabi dall’alfabeto sostituendoli con quelli latini ed imponendo usi e costumi ‘modernisti’. Nella vita politica turca – soprattutto da parte dell’ambiente militare e nazionalista, erede diretto dell’ideologia kemalista – in Turchia l’islam era tradizionalmente visto come una potenziale fonte di minaccia alla stabilità interna e, per questo motivo, le istituzioni statali avevano sempre tentato di estrometterlo dal panorama politico, nonostante la società turca si identificasse ancora negli antichi valori del credo musulmano. Ciononostante, e a dispetto della politica riformatrice e liberale inaugurata a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta dall’ex primo ministro Turgut Özal (1927–1993), i movimenti legati all’islam politico[1] iniziarono a rafforzarsi per porre un argine all’ondata modernista: mossa che alla lunga risvegliò il mai sopito orgoglio islamista-nazionalista e panturchista e che consentì alle formazioni politiche religiose di fare il loro ingresso nella vita pubblica della Turchia.

In particolare, il partito ispirato ai valori dell’islam (Refah Partisi, RP o Partito del Benessere) di Necmettin Erbakan (1926–2011) dopo essere riuscito, attraverso diversi successi elettorali, ad entrare in parlamento, nel 1996 ottenne la maggioranza alle elezioni politiche e divenne il primo movimento di ispirazione dichiaratamente islamica a guidare un governo turco. Nonostante il fatto che il RP, per quanto fosse un partito conservatore, non avesse mai manifestato inclinazioni palesi verso il radicalismo islamico, i vertici dell’esercito turco, per costituzione garanti dell’impianto secolare del Paese, si sentirono comunque autorizzati a fare pressioni affinché l’esecutivo si dimettesse. Nel 1997, a seguito di quello che sarebbe stato definito un ‘colpo di stato post-moderno’, dunque, Erbakan fu costretto sotto la minaccia di un intervento militare a lasciare il potere e il RP venne sciolto.

Nel 2001, alcuni politici precedentemente vicini ad Erbakan, tra i quali l’ex presidente della Repubblica Abdullah Gül e l’ex primo ministro Erdogan, diedero vita ad una nuova compagine politica, l’AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi o Partito della Giustizia e dello Sviluppo): soggetto di matrice conservatrice e di derivazione islamica, che si pose come duplice obiettivo quello di raccogliere l’eredità di Erbakan, ma anche di rinnovarla, senza rinunciare, soprattutto in materia economico-finanziaria, alla ‘tentazione’ occidentale. L’AKP seppe coniugare tali ideali nell’ambito del nuovo contesto internazionale, assumendo tuttavia una posizione sostanzialmente ambigua, se non schizofrenica: filo-modernista sotto il profilo economico, ma decisamente incline, sotto quello politico, alla nascita di una Turchia nazionalista, fedele ai principi dell’islam e ostile, nella sostanza, ai principi costituzionali europei o occidentali. Mossa che, di fatto, mise all’angolo i principi della Costituzione di Ataturk.

Erdogan riuscì in questo modo a favorire una libera economia di mercato, ma contrapponendo tuttavia al regime secolare, tipico del kemalismo, un nazionalismo espansivo sempre più aperto ai tradizionali valori musulmani. Una politica che, con il passare del tempo, lo ha portato a sostenere, prima in maniera sotterranea, poi del tutto palese, movimenti terroristici fondamentalisti, adoperandoli soprattutto per minare l’integrità di Paesi nemici, come la Siria del presidente Bashar al-Assad, che il 10 luglio 2000 successe al padre Hafiz al-Assad (1930–2000), andando anche a ricoprire l’incarico di segretario regionale del Partito Baath (il partito socialista arabo in Siria)[2].

Religione e Stato in Turchia

In Turchia, la libertà di culto è oggi più che mai soggetta a pesanti restrizioni. Religiosi ed ecclesiastici musulmani e no non hanno infatti capacità giuridica completa. Le comunità religiose non hanno diritti di proprietà; è vietato alle donne musulmane portare il velo in uffici pubblici, scuole e università. Anche a dispetto della Costituzione che definisce il Paese uno stato di diritto, democratico e laico, Ankara nel contempo stabilisce che “nessuno può essere costretto a pregare o a partecipare a riti o a cerimonie religiose, o a divulgare le proprie credenze o convinzioni religiose”. E qui saltano fuori le contraddizioni. Nonostante lo Stato si definisca secolare, nelle scuole primarie e secondarie l’istruzione religiosa islamica è però obbligatoria per i musulmani, anche se i programmi sono stabiliti dal governo.

Ankara sovrintende di fatto alla vita e alle attività religiose islamiche attraverso il Dipartimento degli Affari Religiosi. E i 76.000 imam e i 9.700 muezzinsono di fatto funzionari statali. Sempre secondo la legge vigente, è vietato aprire scuole religiose, sia musulmane che di altre fedi, ed anche seminari e centri vocazionali e le funzioni religiose possono svolgersi solo in luoghi di culto autorizzati. Detto questo, esiste uno speciale Ufficio delle Fondazioni che controlla strettamente le attività delle altre minoranze religiose (armene ortodosse, cristiane, ebraiche e alevite) e le loro proprietà. In particolare, la chiesa cattolica – che non ha mai accettato di essere sottoposta a questa specie di dicastero – non è stata riconosciuta come istituzione religiosa ed è stata ghettizzata e privata di tutti i diritti. Le proprietà ecclesiastiche sono intestate a singoli individui e la Chiesa non può acquisire immobili, e per quanto concerne i luoghi di culto che, a causa di una prolungata assenza di sacerdoti (in Turchia l’attività sacerdotale viene fortemente ostacolata), non risultino più utilizzati con continuità, essi vengono automaticamente chiusi, sconsacrati ed incamerati dallo Stato. Oltre a ciò, va ricordato che per potere restaurare immobili o luoghi di culto antichi o fatiscenti, la Chiesa deve ottenere (cosa non facile) l’autorizzazione dall’Ufficio regionale per la Protezione dei Beni culturali e nazionali; inutile dire che quest’ultima sia assai poco incline a concedere i necessari permessi.

Per questi motivi, chi ha sempre sperato in un’ipotetica, ma ormai improbabile, ammissione della Turchia in Europa è stata proprio la minoranza cristiana di questo Paese che si è sempre sentita, più di ogni altra, severamente discriminata, soprattutto con l’avvento del presidente (‘il Sultano’) Erdogan che, di fatto, sostiene apertamente la rinascita di una Turchia fortemente etno-nazionalista, islamica e imperialista. A questo proposito (ma ne parleremo più avanti) il sostegno dato da Ankara alle forze jihadiste (come è noto, Il jihadismo è quel movimento fondamentalista islamico il cui principale obiettivo è quello di sostenere la “guerra santa” contro gli infedeli, senza escludere il ricorso ad attentati e azioni terroristiche) operanti in Siria e, più recentemente, in Libia (che fu possedimento ottomano) e in altre aree africane ne è un esempio. In questi ultimi anni, l’atteggiamento sempre più aggressivo nei confronti della minoranza curda, sia in Anatolia che nella Siria governata da Assad e il progressivo espandersi dell’area di influenza panturchista, sia in Europa che in Centro Asia, dimostrano quanto la Turchia sia attirata dall’idea di restaurare una sorta di califfato e a porsi quale guida della vasta e variegata umma (o comunità) musulmana.

Ma ritorniamo all’intolleranza religiosa che, a conti fatti, in Turchia si riverbera ormai sulle sole religioni non islamiche. Ai cristiani sono ancora precluse la carriera militare e le alte cariche pubbliche: questo perché sono ritenuti un gruppo sociale ‘sospetto’ e potenzialmente pericoloso per la sicurezza del Paese. I cristiani non possono frequentare istituti o scuole per la formazione vocazionale. Ragione per cui, gli aspiranti sacerdoti sono costretti a migrare all’estero. A causa di tali norme, varie minoranze religiose – come le già citate greco-ortodossa, ebraica e armena – vivono, assieme ai loro credenti, in uno stato di sostanziale inferiorità giuridica. Sono ormai trascorsi 13 anni da quando un comitato di rappresentanti delle chiese greco-ortodossa, siriaca-cristiana, armena e cattolica presentò al primo ministro turco, al ministero degli Interni e a quello degli Esteri una serie di richieste atte a normalizzare, almeno in parte, la situazione. Tuttavia, da Ankara non è mai giunta alcuna risposta. Anzi, in questi ultimi anni, il presidente Erdogan ha inasprito la sua guerra nei confronti delle ‘diversità etnico-religiose’ presenti in Anatolia, contravvenendo a tutti i più elementari principi di una moderna democrazia, varando nel contempo un ambizioso piano di tipo imperialista. “Il problema di fondo – come ha osservato il giornalista esperto di problemi mediorientali Gian Micalessin – è che da anni ci rifiutiamo di vedere il vero volto della Turchia: un paese fondamentale musulmano, composto da una parte della popolazione (quella che ha votato, cioè più della metà) che si riconosce perfettamente nella visione islamista-nazionalista di Erdogan. Il presidente ha vinto perché ha offerto ai turchi il sogno di far rinascere l’impero ottomano, quel neo-ottomanesimo a cui ha spesso fatto riferimento parlando dei “nemici crociati” e di un’Europa da sconfiggere a colpi di natalità”. La realtà, secondo Micalessin, è che “la costituzione di Ataturk era solo un tentativo di rivedere la natura della Turchia, dandole una veste laica e democratica. Ma di fatto quella era solo una maschera, indossata da Erdogan per tredici anni, prima nel tentativo di entrare in Europa, e ora per realizzare il suo disegno strategico e politico”.

L’ottomanismo, il panturchismo, il panturanismo e il panislamismo quali motori ideologici e religiosi alla base dell’attuale espansionismo turco

Nella prima metà del XIX secolo, in seno all’Impero Ottomano, comparvero o vennero riesumate ideologie come l’ottomanismo, il panislamismo, il panturchismo e il panturanismo. In questo periodo, diversi intellettuali e patrioti turchi come Yusuf Akçura (1876 1935), Munis Tekinalp (1883-1961), Ziya Gökalp (1875-1924) e Namik Kemal (1840-1888), compresero la necessità di risollevare radicalmente l’ormai decadente impero, motivandone l’esistenza attraverso l’attribuzione ad esso di antiche, talvolta mitiche, ma importanti valenze e peculiarità culturali, religiose ed etno-linguistiche. Nella fattispecie, il panturanismo, sostenuto da Akçura, faceva riferimento alla mitica terra di Turan[3], mentre Tekinalp tendeva ad includere nella famiglia ottomana soltanto il popolo turco.

Gökalp – che fu probabilmente il più influente panturchista, e più tardi uno dei più ferventi nazionalisti turchi – distingueva invece il panturanismo dalla politica reale, per via del carattere eminentemente utopistico del primo. Occorre, infine, ricordare che il panturchismo (come pure il panturanismo) emerse come reazione ad un’altra ideologia irredentista, cioè il panslavismo, emanazione della Russia zarista. Con alcuni distinguo interni, il panslavismo era un movimento volto a risvegliare la coscienza nazionale dei popoli slavi e ad attuarne la loro unificazione politica, economica e culturale. Esso risentì non poco dell’influenza degli ideali libertari post rivoluzionari francesi diffusi in Europa da Napoleone Bonaparte, nonché delle suggestioni romantiche e risorgimentali ottocentesche. Sorto all’inizio del XIX secolo, in un primo tempo esso trovò molti sostenitori tra gli intellettuali slavi dell’impero austroungarico. Il primo congresso panslavista (quello di Praga del 1848) fu presieduto dallo storico ceco Frantisek Palacky, che ipotizzò la formazione di una federazione di popoli slavi facente capo all’Austria (austroslavismo). In Russia, i suoi seguaci si avvicinarono molto alla slavofilia, affermando che sarebbe spettato alla Russia il compito di riunire tutti i fratelli slavi in un grande stato dopo averli liberati dalla dominazione straniera: progetto che, in realtà, non galvanizzò mai il governo di San Pietroburgo, ma che lo indusse, comunque, ad utilizzare lo stendardo panslavista per giustificare la sua politica espansionistica e colonialista in Europa orientale e in Asia Centrale.

Dopo la Rivoluzione d’Ottobre del 1917, di primo acchito Lenin rigettò con sprezzo il panslavismo, considerandolo un’ideologia imperialista e quindi reazionaria, ma successivamente ebbe forse a ripensarci. Ciò che è certo è che, a partire dalla fine degli anni Venti, il panslavismo venne decisamente riportato in auge da Stalin che ne rivalutò diversi elementi funzionali ai suoi aggressivi progetti imperiali, soprattutto in Asia e nel Caucaso. Facendo propri alcuni principi della cultura occidentale, l’ottomanismo (inteso come movimento politico) sosteneva invece una politica di uguali diritti per tutte le comunità religiose ed etniche dell’impero ottomano, con lo scopo di integrarle al suo interno. Un programma che non piacque agli intellettuali panturchisti, in quanto essi temevano pericolose commistioni etniche, lesive delle tradizioni e della cultura turche.

Differentemente, il panislamismo mostrò un carattere prettamente religioso e antimperialista, in quanto movimento sostanzialmente avverso a qualsiasi intromissione da parte delle grandi potenze non islamiche nell’universo musulmano. Il panislamismo concentrò i suoi sforzi per utilizzare la fede come strumento utile per aggregare ed uniformare tutti i sudditi dell’impero. Esso auspicava, infatti, l’unione politica di tutti i popoli islamici in un’unica istituzione, la Dar al-Islam. Il panislamismo conobbe il suo periodo di maggiore splendore sotto l’ultimo sultanato ottomano, quello di Abdul Hamid II, che cercò in tutti i modi di impedire la secessione delle province arabe, tentando nel contempo di porre un freno all’espandersi del colonialismo inglese, francese e russo. La deposizione del sultano, avvenuta nel 1909, e la Rivolta Araba della tarda primavera del 1916, sostenuta e abbondantemente finanziata dai britannici, segnarono il declino del panislamismo. Sayyid Jamal al-Din al-Afghani (1839-1897) – chiamato anche Sayyid Muhammad Ibn Safdar al-Husayn – fu il fondatore e il diffusore in Persia, Egitto e Impero Ottomano del movimento.

Erdogan e il suo progetto di totale islamizzazione della Repubblica di Ataturk attraverso la cancellazione di ogni retaggio cristiano: Santa Sofia, San Salvatore in Chora e la Torre di Galata

Il piano egemonico del presidente Erdogan non si ferma all’applicazione dei teoremi panturanisti destinati a giustificare l’espansionismo anatolico all’estero (Siria, Libia, Somalia e Centro Asia turcofono) ma, in politica interna, va di pari passo con una politica di totale ‘turchizzazione islamista’, attraverso operazioni di epurazione di politici a lui non graditi, ma anche attraverso la trasformazione del patrimonio architettonico risalente al periodo cristiano precedente la caduta di Costantinopoli del 1453.

Come è noto, lo scorso 24 luglio, il presidente turco ha trasformato la grande chiesa di Santa Sofia da museo patrimonio dell’Unesco in moschea, affidandone l’amministrazione all’ente che gestisce le tutti i luoghi sacri islamici presenti in Anatolia. Ma a questo punto ci si domanda come abbia potuto un Consiglio di Stato abrogare nel 2020 un decreto presidenziale del 1934 (cioè risalente al periodo repubblicano di Ataturk): sarebbe stato molto più corretto quanto proposto da alcuni parlamentari, cioè attenersi alla legge del 1934: richiesta respinta dalla Corte, totalmente controllata da Erdogan. L’argomento a sostegno dell’usurpazione di Santa Sofia, ha argomentato Erdogan, è semplice. Il decreto del 1934 che fece di Santa Sofia un museo è valido, ma può sempre essere sostituito da un decreto presidenziale di segno opposto. Per farla breve, grazie ad un cavillo giuridico, dopo quasi novant’anni, a Santa Sofia si tornerà a recitare le preghiere islamiche. Con buona pace di chi aveva pensato che quel luogo potesse continuare ad essere un baluardo della bontà del dialogo interreligioso.

Lo scorso 21 agosto scorso, subito dopo la conversione d’uso di Santa Sofia, il leader anatolico ha emesso un nuovo decreto presidenziale che ha trasformato l’ex chiesa bizantina di San Salvatore in Chora (edificio che alla fine del secondo dopoguerra venne trasformato nel Museo Kariye) nell’ennesima moschea. L’edifico sorge nel distretto occidentale di Istanbul, detto Edirnekapi. Il cambio di status era già stato approvato nel dicembre 2019, ma la decisione del Consiglio di Stato turco non era ancora stata ratificata, almeno fino al colpo di mano dello scorso agosto di un Erdogan mai sazio di nuove conquiste in nome di Allah. Edificata nel IV secolo, San Salvatore venne ricostruita tra 1077 e il 1081, e successivamente nel XII secolo in seguito ad un crollo parziale causato da un terremoto. La chiesa vanta pregevoli mosaici di epoca bizantina ed è anch’essa un sito sotto protezione dell’Unesco.

Dopo avere islamizzato le due chiese-museo, Erdogan ha compiuto un nuovo passo che ha come obiettivo la distruzione di un pregevole manufatto laico edificato nel 1348 dalla Repubblica di Genova, cioè la famosa Torre di Galata che fino a ieri è stato uno dei monumenti simbolo della metropoli sul Bosforo, costituendo una delle principali attrazioni per i turisti provenienti da tutto il mondo. Questa volta, però, la decisione di Erdogan ha scatenato le ire della municipalità di Istanbul che ha annunciato azioni legali contro i responsabili di un tale iniziativa, considerando che la gestione della torre è passata solo pochi mesi fa al ministero della Cultura, intenzionato ad aprire un museo all’interno dello storico monumento. Il viceministro della Cultura Ahmet Misbah Demircan, fedelissimo di Erdogan (dal 2004 al 2019 sindaco della circoscrizione di Beyoglu, considerata il centro di Istanbul, in cui si trova la stessa torre di Galata) ha cercato di ammansire il sindaco, dichiarando che gli evidenti lavori di demolizione in atto fanno parte di un non ben chiarito piano di restauro “per l’apertura di un museo dove prima c’era una caffetteria”, per cui la rimozione di alcuni muri è stata “necessaria”. Dichiarazione che non ha convinto il Comune e gli esperti di arte e architettura. A Demircan ha immediatamente risposto il portavoce del comune di Istanbul (da 14 mesi in mano al partito di opposizione Chp, Partito Popolare Repubblicano) Murat Ongun, che ha annunciato querele nei confronti dei responsabili di un tale scempio.

Sulla questione ha nicchiato il ministro della Cultura e Turismo, Nuri Ersoy, che si è limitato ad annunciare che “la Torre di Galata riaprirà il 15 settembre”. Il presidente del Direttorato per il patrimonio artistico di Istanbul, Mahir Onal, raggiunto al telefono da AGI, ha definito quanto accaduto “uno sfregio”, e ha chiesto che i lavori di restauro tornino, almeno, sotto la giurisdizione del Comune. “Quanto abbiamo visto capitare a uno dei principali monumenti di Istanbul è qualcosa di inconcepibile, uno sfregio al patrimonio artistico della città. Chiediamo che la giurisdizione torni al comune e che i nostri tecnici possano immediatamente intervenire e che i lavori in corso, che stanno apportando danni in maniera dolosa, vengano fermati subito”. La Torre di Galata fu fatta costruire dal primo governatore della colonia genovese di Costantinopoli, Rosso Doria, nel 1348, per essere utilizzata per dare l’allarme in caso imbarcazioni ostili puntassero verso la città, già all’epoca di importanza strategica sia per la posizione a cavallo di due continenti, sia per il fatto che lo stretto del Bosforo collega il Mar Nero con il Mediterraneo attraverso Marmara. Alta circa 67 metri e avente un diametro di nove, per secoli la torre genovese è stata l’edificio più alto della città. Nel 1453, i genovesi ne consegnarono le chiavi al Sultano Mehmet, conquistatore di Costantinopoli, con cui gli stessi liguri avevano già raggiunto un accordo per poter proseguire i propri commerci da prima che il Sultano facesse breccia nelle mura della capitale. A partire dal 1700, con l’impero ottomano al massimo della sua espansione, la torre divenne un punto di osservazione per individuare gli incendi che spesso devastavano la città. La Torre come appare oggi è il frutto di un’opera di restauro terminata nel 1967, dopo che, nel 1875, una tempesta ne spazzò via il tetto.

La Turchia di Erdogan appoggia il movimento jihadista in Siria

I rapporti tra la Turchia di Erdogan, o meglio l’avvio da parte di Ankara della politica di sostegno esplicito ai movimenti islamici che si rifanno al credo jihadista ebbe inizio nel 2014, quando l’esercito turco incominciò a fiancheggiare – sia in maniera indiretta che diretta – i nuclei dell’Isis impegnati in Siria per scalzare il governo di Assad e per mettere in difficoltà la componente curda e cristiana in lotta con le sanguinarie bande jihadiste. In quella circostanza, l’obiettivo della Turchia si rivelò in realtà duplice: colpire Assad e nel contempo eliminare le forze curde presenti al confine tra Turchia e Siria. Ne scaturì il noto ‘assedio di Kobane’ (cittadina situata nella zona neutrale del Rojava – Siria settentrionale – presidiata da forze curde e cristiane) da parte delle milizie dell’Isis. Pur non penetrando di forza in territorio siriano, Erdogan schierò le sue forze corazzate proprio a ridosso della cittadina, con la scusa di evitare infiltrazioni dei curdo-siriani: mossa che, in realtà, permise, a partire dai primi del 2014, ai miliziani dello Stato Islamico salafita di attaccare violentemente i propri avversari, cioè l’esercito di Damasco, i curdi e le forze cristiane. L’offensiva dell’Isis portò alla strage di migliaia di civili, alla fuga di 300.000 civili curdi in direzione della provincia turca di Sanliurfa. Tutto ciò costrinse gli Stati Uniti e gli alleati occidentali ad effettuare massicci attacchi aerei che nell’arco di poche settimane fiaccarono l’offensiva fondamentalista, anche grazie all’intervento delle neonate Forze Democratiche Siriane (SDF), formate da elementi curdi e arabi.

Appoggiate dalle continue e pesanti sortite dell’aviazione statunitense le Unità di Protezione Popolare (YPG) si allearono all’Esercito Siriano Libero (FSA), a gruppi peshmerga iracheni[4], mandati dal Governo Regionale del Kurdistan, e turchi del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). E il 14 ottobre 2014, questa coalizione scatenò una riuscita offensiva contro Stato Islamico, costringendolo a ritirarsi e ad abbandonare, verso la fine di Aprile del 2015, quasi tutte le aree precedentemente conquistate fino all’aprile 2015, mantenendo soltanto il controllo su alcune dozzine di villaggi del governatorato di Ar-Raqqah. Ciononostante, alla fine di Giugno del 2015, l’Isis – con l’appoggio della Turchia, dove nel frattempo aveva trovato rifugio e sostegno militare – tentò una nuova offensiva contro la Siria che tuttavia venne respinta al prezzo della morte di centinaia di civili trucidati dai fondamentalisti. In tutto questo contesto, è da notare l’atteggiamento ambiguo di una Turchia che, a parole, si era sempre dichiarata – in accordo con gli Stati Uniti – avversa ai movimenti fondamentalisti, ma che in realtà li stava favorendo, dando loro rifugio, armi ed equipaggiamenti in cambio del petrolio sottratto nella Siria settentrionale e nell’area nordoccidentale dell’Iraq.

Ma a questo proposito è interessante ricordare quanto disse alla fine del novembre del 2018 il libanese Ghaleb Kandil, direttore dell’agenzia di stampa New Orient News e grande esperto di geopolitica mediorientale: “Già a partire dalla fine del 2014, la strategia dello Stato Islamico era quella di vendere petrolio al mercato nero ad altri paesi mediorientali (Turchia inclusa), per proseguire la propria guerriglia jihadista tesa alla formazione di uno Stato Islamico mediorientale e transnazionale: obiettivo per il quale era necessario un consistente appoggio militare e finanziario, quello fornito dalla già citata Turchia, ma anche dal Qatar, dalla Giordania e dall’Arabia Saudita, di fatto apparentemente vicini agli USA. Per anni – prosegue Kandil – il principale punto di riferimento politico ed economico dell’Isis è stato (soprattutto per quanto riguarda lo scacchiere siriano e iracheno del nord) il governo di Ankara. Per ottenere appoggio logistico e finanziamenti, lo Stato Islamico, nel corso delle sue offensive, ha sempre depredato il petrolio siriano e iracheno, trasferendolo tramite camion in Anatolia, dove è sempre stato venduto al mercato nero in cambio di denaro fornito da società anatoliche, alcune delle quali riconducibili perfino a parenti di Erdogan. Il gruppo che è al potere in Turchia ha sempre usufruito di una sua tangente, mentre il resto di quei soldi è finito nelle casse dell’Isis”. Alla luce di queste dichiarazioni sorge spontanea una domanda: come ha fatto l’Occidente a non accorgersi di questi traffici? E per quale ragione non ha mai esercitato pressioni sui veri finanziatori dell’Isis? “Questa operazione è in corso da anni e in realtà è sotto gli occhi degli Stati Uniti e dell’Onu – spiega Kandil. “E’ del tutto evidente che dietro questa sorta di cecità collettiva, si nascondano altri interessi: mantenere buoni rapporti con tutti, e magari tenere fuori la Russia dal Medioriente”.

Ricapitolando e andando per deduzione, appare evidente che il flusso di finanziamenti illegali forniti da Turchia, Qatar e Arabia Saudita giunga poi ad altre entità ideologicamente parallele all’Isis, come Al Nusra (“Fronte del soccorso al popolo di Siria”)[5] e i Fratelli Musulmani[6], che “dopo la riconciliazione fra Arabia Saudita e Turchia, promossa dagli Usa, hanno riunito nel 2015 tutti i gruppi terroristici sotto la bandiera nera di Jaish al Fath (soggetto collegato ad al-Qaeda, entità tutt’altro che estinta, anzi molto attiva e comandata dal successore di Osama bin Laden, Ayman al-Zawahiri)per una nuova escalation di attacchi contro la Siria di Assad.

A questo punto non rimane che domandarsi in che modo si possa porre fine alla crisi siriana che, a parte qualche periodo di pace totalmente instabile, potrebbe riesplodere improvvisamente e con maggiore virulenza. Sempre secondo Ghaleb Kandil occorrerebbe bloccare ogni attività terroristica, ogni fornitura di denaro ed armi ai terroristi jihadisti. “Se ciò accadesse l’esercito siriano ci metterebbe pochi mesi per rimettere a posto la situazione interna e sventare qualsiasi tentativo rivoluzionario e aggressivo da parte dei gruppi fondamentalisti”. Sappiamo che già in passato un’ apposita risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu circa la stabilità in Medio Oriente si è trovata di fronte ad un irrigidimento degli Stati Uniti. “Esattamente, Washington ha sempre preferito puntare su una strategia articolata su una guerra di logoramento, per fiaccare i movimenti fondamentalisti. Ma al riguardo sono alquanto scettico in quanto tutte le soluzioni nasceranno dai pesi e dagli equilibri locali e dentro l’area. E non credo che neppure la ventilata (ed improbabile) firma dell’accordo nucleare, potrebbe consentire all’Iran di costringere Washington a rinunciare a questo progetto. Ci vorrebbe uno sforzo più ampio. Non basta l’Iran, insieme alla Russia o alla Cina: occorrerebbe che si aggiungessero altre voci europee”.

Apparendo abbastanza disgregata in tema di geopolitica e cultura mediorientale, l’Europa brancola nel buio, cercando in ogni modo di tenere buono Erdogan con abbondantissime elargizioni di denaro per frenare l’avanzata di un esercito di ben tre milioni e mezzo di disperati fuggiti dalla Siria e trasferitisi momentaneamente in Turchia con l’intento di ‘invadere’ i Balcani, e perdonandogli il suo ormai tradizionale atteggiamento da sultano. Quella della UE è una debolezza sulla quale lo stesso Erdogan gioca ormai con grande destrezza, minacciando di aprire i cancelli al minimo cenno critico rivolto dall’Europa ad una Turchia sempre più islamizzata e filofondamentalista, ma che al momento opportuno ogni tanto arresta qualche decina di jihadisti per mostrare il suo impegno contro il fondamentalismo, mentre dall’altro lo finanzia a mani basse. E se è vero che – sempre a proposito della questione siriana – tutti si stracciano le vesti per gli scempi commessi dall’Isis, riconoscendo (con molto ritardo) auspicabile la permanenza di Assad al potere (la lezione di Gheddafi, eliminato improvvidamente in nome della libertà, è forse servita a qualcosa), è altrettanto vero che sia la UE che l’Occidente in generale sono soliti chiudere gli occhi riguardo l’appoggio di Erdogan ai terroristi dell’Isis, e di Qatar e Arabia Saudita ad Al Nusra, oltre alle organizzazioni jihadiste sostenute e finanziate legate ai Fratelli Musulmani. Come ha spiegato Souad Sbai “Nei confronti della Turchia di Erdogan, l’Unione Europea fa da un lato la voce grossa, indignata per la repressione degli oppositori e della libertà di stampa o per l’invasione anti-curda in Siria; dall’altro, continua invece a cedere su tutti i fronti, avallandone persino le strategie di assalto culturale, oggi principalmente incentrate sull’utilizzo manipolatorio della cosiddetta ‘islamofobia’. Prodotto dei pensatori fondamentalisti contemporanei appartenenti ai Fratelli Musulmani, il concetto di islamofobia viene utilizzato come clava per colpire chiunque in Europa, e in generale nel mondo occidentale, osi esprimersi in maniera critica nei confronti della componente di religione e cultura islamica”.

Come si è detto, a fianco delle milizie jihadiste che da tempo – nonostante fragili tregue imbastite con Damasco – hanno messo a ferro e fuoco la Siria di Assad, operano anche reparti regolari dell’esercito turco, con la scusa di dare la caccia alla minoranza curda che vive nel nord di questo disgraziato Paese. Come ha riferito AsiaNews, nel novembre dello scorso anno le violazioni di confine da parte delle truppe blindate e motorizzare di Erdogan si sono moltiplicate, fino a diventare sistematiche, e senza che nessuno in Occidente protestasse presso il governo di Ankara. “Lo scorso autunno, l’esercito turco e le milizie filo-jihadiste che hanno sostenuto l’offensiva lanciata da Ankara contro i curdi nel Nord-Est siriano – riferisce l’Agenzia AsiaNews – hanno attuato un’autentica ‘pulizia etnica’ ai danni di tutte le minoranze religiose presenti in Siria; a partire da quella cristiana, nonostante le rassicurazioni fornite dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan al vice-presidente Usa Mike Pence. Intimidazioni e violenti attacchi contro armeni e cristiani si sono infatti moltiplicati, come d’altra parte aveva denunciato anche Amnesty International, i cui attivisti hanno più volte rilanciato le testimonianze di soccorritori, sfollati e giornalisti”, secondo i quali tra novembre e dicembre del 2019 si sarebbero registrate gravi violazioni e crimini di guerra, fra i quali esecuzioni sommarie e attacchi che hanno ucciso o ferito civili.

Fra quanti denunciano gli abusi delle truppe turche e arabo jihadiste vi è anche un politico cristiano siriano, Bassam Ishak, responsabile del Syriac National Council. Interpellato lo scorso novembre 2019, dal Catholic News Service, Ishak ha parlato “di intimidazioni e attacchi mirati contro armeni e cristiani siriaci, a cui è ormai impedito da tempo di accedere alle loro terre e ai loro immobili situati nel Nord-Est della Sira. A che se i miliziani filo-turchi avrebbero ricevuto l’ordine di “non toccare fisicamente i cristiani” ma, in compenso, di poterli depredare di tutto”. Ma le forze jihadiste protette dalla Turchia non sono nuove a tali scempi. Ricordiamo che nel 2018, ad Afrin, nel nord-ovest siriano, forze regolari turche supportate da guerriglieri fondamentalisti, sottrassero ai contadini curdi che vivevano nella zona tutto il grano e le derrate alimentari, con lo scopo di farli morire di fame. Successivamente, tale politica di ‘annientamento per inedia’ è stata applicata alle minoranze cristiane di Ras al-Ayn proprietarie di almeno un terzo dei terreni agricoli dell’area. Ma non è tutto. Sempre secondo AsiaNews, a partire dallo scorso mese di ottobre 2019 le forze jihadiste presenti in Siria avrebbero imposto (soprattutto nel circondario della cittadina di frontiera di Ras al Ain, che Ankara vorrebbe inglobare) alla minoranza cristiana una sorta di ‘tassa per la sopravvivenza’ in quanto considerata ‘inferiore’: notizia confermata dai media di Damasco. Organi di informazione siriani riferiscono di violenti scontri avvenuti a Ras al Ain, dove Ankara punta a creare una ‘zona sicura’. Il centro abitato è sotto il controllo delle forze guidate dai curdi siriani, sostenuti dai soldati di Assad che da anni ingaggiano combattimenti con le truppe di Ankara, gli jihadisti e quella porzione di guerriglieri affiliati all’Isis che, come ha riferito l’agenzia stampa Hawar, sono passati sotto la bandiera del Syrian National Army, l’esercito sorto in opposizione al regime di Assad, anch’esso sostenuto da Ankara.

Come ha osservato il giornalista ed esperto di jihadismo, Giovanni Giacalone “intanto Recep Tayyip Erdogan continua con la sua tattica a tre sponde con Russia, Nato e jihadisti. Da una parte stringe accordi con Mosca sulla cosiddetta “escalation zone”, dall’altra fornisce supporto diretto ai jihadisti e quando i militari di Ankara vengono colpiti mentre si trovano a combattere assieme ai “barbuti”, gioca la carta dell’appartenenza alla Nato e chiede sostegno. Nel frattempo minaccia l’Europa con l’apertura del “rubinetto migratorio”. Un gioco estremamente pericoloso quello di Erdogan, che ha un disperato bisogno di portare avanti la guerra a Idlib[7], perché abbandonarla significherebbe aver fallito la lunga e costosissima campagna contro Bashar al Assad. D’altro canto però, le perdite subite in Siria dai reparti turchi sono diventate quasi insostenibili, come l’intero costo delle operazioni di fiancheggiamento alle forze jihadiste: fatto che ha creato un sensibile malcontento tra la popolazione anatolica che inizia a domandarsi fino a che punto e a quale costo Erdogan vorrà arrivare per estendere la sua area di influenza non soltanto in Siria, ma anche in Libia, nel Mali e nel Corno d’Africa. A livello economico e di immagine internazionale, il sostegno turco ai jihadisti sparsi per il mondo e il chiaro intento di creare, come si è detto, una sorta di nuovo Impero Ottomano che faccia da guida a parte della umma islamica, non piace affatto né agli Stati Uniti, né alla Russia (non parliamo poi della UE la cui politica estera, in questa circostanza, si è mostrata praticamente nulla, in quanto totalmente scoordinata e spesso contraddittoria). D’altra parte, come è noto, Vladimir Putin ha investito moltissimo, sia militarmente che economicamente, per sostenere Assad che, dato più volte per sconfitto, rimane comunque saldamente al comando, avendo respinto con energia e successo ogni offensiva turco-jihadista su Idlib, città chiave per il controllo dell’area nord-occidentale siriana. Se Erdogan pensava che un’occupazione della Siria settentrionale ed una contestuale eliminazione delle minoranze curde-siriache fosse un gioco da ragazzi, si è clamorosamente sbagliato, mettendo, con il passare del tempo in dubbio la sua credibilità non soltanto agli occhi del mondo, ma anche a livello interno nazionale.

Gli interessi turchi in Libia

I rapporti tra Turchia e Libia sono di vecchia data. Durante il periodo ottomano, i turchi colonizzarono e dominarono la vita politica della regione nordafricana, e la composizione etnica della Libia cambiò sostanzialmente con la migrazione di coloni anatolici dalla Turchia al Maghreb, fino alla Tunisia e a all’Algeria, con lo scopo di creare una nuova entità etnica locale, i Kouloughlis: una popolazione con sangue misto turco e maghrebino. Oltre a ciò, le autorità della Sacra Porta posero il divieto ai loro sudditi migrati in Africa settentrionale di adottare la lingua araba: questo permise alla lingua turca di mantenere il suo prestigio nella regione fino al XIX secolo. Da quel tempo, l’incidenza turcofona in Libia è cresciuta esponenzialmente, almeno fino alla conquista italiana della Libia (1912). Nel 2011, anno della caduta di Gheddafi, i cittadini turchi residenti in Libia erano circa 25.000.

Fredde in precedenza, le relazioni tra Ankara e Libia si rafforzarono quando, a seguito dell’embargo militare decretato dagli Usa alla Turchia per l’intervento a Cipro nel 1974, fu la Libia a garantire all’aviazione turca i pezzi di ricambio per i caccia di fabbricazione statunitense in dotazione. In tempi più recenti, cioè nel settembre 2011, l’allora primo ministro Erdogan, fece visita a Tripoli e ricevette un’accoglienza calorosa da parte dei libici. Oggi, la Libia è il terzo partner commerciale della Turchia in Africa. Sono innumerevoli i trattati bilaterali tra i due Paesi, tra i quali vanno ricordati l’accordo per il rafforzamento della cooperazione economica e tecnica (1975) e l’accordo bilaterale per gli investimenti e la protezione (2009). I due paesi hanno inoltre deciso di dar vita, nel 2021, ad un accordo di libero scambio. Non basta. La Turchia è tra i maggiori investitori in Libia. Sono stati firmati accordi per realizzare progetti d’intervento in Libia, in particolare nel settore delle infrastrutture, che superano i venti miliardi di dollari. In termini di quantità di lavoratori impiegati nella realizzazione di opere all’estero da parte della Turchia, la Libia è il secondo mercato dopo la Russia.

Non riuscendo a venire a capo della situazione in Siria, dove tuttora le forze di Assad continuano ad opporre tenace resistenza, all’inizio del 2020 Erdogan ha spostato la sua attenzione sulla Libia, utilizzando anche qui elementi jihadisti per sovvertire una situazione politica di per sé già molto intricata.

Come è noto, il governo di unità nazionale della Libia guidato da Fayez Al Sarraj era stato più volte dato per sconfitto in seguito all’inizio dell’offensiva dell’aprile 2019 da parte delle milizie del LNA (Esercito Nazionale Libico) di Khalifa Belqasim Haftar.

Russia e Turchia decisero di intervenire in Libia nell’autunno del 2019, anche perché gli Usa non sembrano ancora inclini ad un’intromissione diretta nella polveriera libica, pur rafforzando la loro presenza in Tunisia. In effetti, Vladimir Putin e Erdogan (quest’ultimo appoggiato dal Qatar) appaiono ormai come gli unici veri registi in grado di cambiare le sorti della guerra. Il presidente turco con Al Sarraj è riuscito a trasformare Tripoli nel più grande avamposto turco in Africa settentrionale e nel cuore del Mediterraneo centrale. Il presidente russo, invece, sostiene apertamente Haftar, anche se inizia a osservare con sempre maggiore interesse la possibilità di una pacificazione che sia collegata a una spartizione del territorio libico.

In questo contesto, la Turchia ha da subito iniziato ad inviare in questo Paese cospicui nuclei jihadisti già utilizzati precedentemente in Siria, per impiegarli a fianco delle forze libiche governative. Secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa curda Hawars News, la Turchia avrebbe trasferito a Tripoli centinaia di pericolosi terroristi islamici di Jabat al-Nusra, affiliati ad Al Qaeda, e dell’Isis. Alcuni dei capi, ricercati in tutto il mondo per crimini terroristici, sono stati identificati dal Comando dell’Esercito Nazionale Libico del generale Haftar che nel frattempo, in seguito ad alcune sconfitte ha perso il controllo della Tripolitania, ritirandosi da dove era partito nell’aprile 2019, cioè in Cirenaica. Anche l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani conferma la presenza di jihadisti mercenari armati e finanziati dal presidente Erdogan, dei quali almeno 4.700 sarebbero arrivati a Tripoli ad inizio d’anno, mentre alcune decine di jihadisti sarebbero invece fuggite in Italia.

Sempre secondo Hawar News, un gruppo di esperti del Comitato delle Sanzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU avrebbe avviato indagini in merito alle accuse fatte alla Turchia di trasferire mercenari stranieri dalla Siria alla Libia. “Le fonti hanno spiegato che ci sono informazioni che indicano che un aereo militare turco ha trasportato mercenari siriani da Gaziantep (al confine tra Siria e Turchia) a Istanbul e poi in Libia”. Già il 19 gennaio scorso il presidente francese Emmanuel Macron – nel corso del vertice sulla Libia svoltosi a Berlino – chiese una “sospensione” all’invio di mercenari siriani filo-turchi in Libia a sostegno del governo di Tripoli. Sulla stessa linea di condanna esplicita si sono pronunciati Russia, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita.

Ancor più recentemente, il 5 giugno 2020, Haftar ha perso la roccaforte di Tarhouna, in Tripolitania, base che viene conquistata dalle forze dell’Esercito Nazionale Governativo (GNA) di Al Sarraj. A questo punto non gli rimane che la Sirte. Sentendosi perduto, il 6 giugno, sollecitato dall’Onu, Haftar va dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi per intavolare colloqui di pace. I negoziati tuttavia non vanno per il verso giusto

A fare andare tutto a carte quarantotto è stato Al Sarraj che ha respinto con estrema determinazione il tentativo di mediazione dell’Egitto, accettato invece dal generale Haftar. Tale accordo prevedeva il cessate il fuoco a partire da lunedì 8 giugno. Secco è stato il commento del portavoce di Al Sarraj: “Non abbiamo tempo per guardare le assurdità proferite in TV da Haftar”, hanno fatto sapere dal comando militare governativo di Tripoli.

Nell’agosto 2020, Erdogan ha conseguito in Libia un risultato di grande importanza strategica. Il 17 dello stesso mese, nel corso di un incontro trilaterale, svoltosi a Tripoli, tra GNA, Turchia e Qatar (erano presenti i ministri della Difesa turco e qatariota, Hulusi Akar e Khaled al Attiyah) la Libia ha formalmente concesso alla Turchia la concessione d’uso, per la durata di 99 anni, del porto di Misurata come base per le sue unità presenti nel Mediterraneo Orientale, e quello dell’aeroporto militare di al-Watya, in Tripolitania Occidentale. Secondo informazioni riferite su canali social pro-Turchia e riprese dall’Agenzia di stampa Nova, il porto di Misurata (nella foto sotto) sarebbe stato dato in concessione alla Turchia per un periodo di 99 anni. Nell’ambito dell’accordo, il Qatar (presente al meeting con una delegazione mista civile e militare) si fece carico dei costi inerenti la ricostruzione, a Tripoli, di basi, caserme e accademie distrutte o danneggiate durante la guerra. Come spiegò il viceministro alla Difesa tripolino, Salah al-Namrouch: “abbiamo raggiunto un’intesa con il ministro alla Difesa turco Hulusi Akar e con il ministro del Qatar Khaled bin Mohammad Al-Attiyah volto ad una cooperazione tripartita per istituire una base per l’addestramento dei cadetti libici, e proprio per questa ragione Turchia e Qatar invieranno consiglieri militari”

Proprio il giorno dell’intesa venne notata la presenza del ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas che parlando con i giornalisti affermò che le potenze straniere “erano impegnate nel fornire armamenti alla Libia. La presenza a Tripoli il giorno della firma dell’accordo di Heiko Maas venne interpretata da alcuni osservatori come la volontà, da parte di Berlino, di contribuire all’azione militare di Ankara e del Quatar in Tripolitania: eventualità che venne vista molto negativamente dalla Francia, saldamente contraria  ad un espansionismo turco.

Da parte sua, il governo italiano non commentò in alcun modo l’accaduto, anche se in un recente passato aveva avviato programmi bilaterali di cooperazione militare con Tripoli per l’addestramento e la formazione delle forze libiche, recentemente riconfermati.

Pochi giorni dopo la firma dell’intesa, con molta disinvoltura e rapidità la Turchia ha rafforzato la sua presenza nella regione occidentale, in particolare Tripoli e Misurata, ed ha trasferito due sistemi di difesa aerea presso la base aerea di Al Watiyah, inviando da 50 a 60 veicoli militari nelle vicinanze della base e trasportando, tramite cargos turchi mercenari ed estremisti siriani jiadisti da Gaziantep a Misurata.

Ieri Haftar ha ricevuto il capo dei servizi segreti militari egiziani, generale Khaled Megawer, in una rara visita presso l’ufficio di Haftar nella base di Rajma, vicino Bengasi.

Prospettive per l’Italia?

In seguito a questi fatti e grazie al dilettantismo diplomatico palesato dal nostro governo in Libia, Roma appare ormai fuori dai giochi. Allo stato delle cose, recuperare un ruolo diplomatico in questo Paese appare una chimera, soprattutto in Tripolitania dove Erdogan, in virtù degli aiuti forniti ad Al Sarraj, sta di fatto consolidando la sua presenza per garantirsi lo sfruttamento dei bacini petroliferi locali, cioè in quelle aree dove l’Italia ha i suoi principali interessi, sia energetici che (non meno importanti) quelli legati all’immigrazione. Infatti, è proprio da qui che sono sempre partiti la maggior parte dei barconi carichi di migranti diretti verso le coste del nostro Paese.

Questa sorta di impotenza, derivante in gran parte da una politica (la nostra) assolutamente distratta – anche dalle gravi vicende sanitarie interne dovute alla pandemia Covid-19 nel frattempo sopraggiunte – e da una sostanziale disunione all’interno della UE, fa intravvedere uno scenario assai poco incoraggiante, oltre che preoccupante. Una situazione destinata a generare due tipologie di rischi: da un lato a lungo termine, dall’altro anche su un intervallo temporale assai più breve. Sul primo fronte si è già in parte accennato: Roma in Tripolitania ha molti suoi interessi che rischia di compromettere seriamente, con contraccolpi economici dannosissimi per la nostra già disastrata economia. Senza rapporti privilegiati con un governo stanziato a Tripoli, il nostro peso in materia di energia e di immigrazione potrebbe essere di gran lunga ridimensionato, con tutte le conseguenze del caso. Tuttavia, a breve termine, i rischi per l’Italia sono legati alla presenza di nostri uomini (militari e civili impegnati presso gli impianti di estrazione del greggio) in Libia. Il riferimento va soprattutto al contingente di 300 soldati stanziato a Misurata dai tempi dell’operazione Ippocrate, varata nel 2016. Qui i nostri militari hanno assistito (soprattutto grazie ad un ospedale da campo ancora oggi in funzione) i miliziani impegnati nelle operazioni contro l’Isis. Ancora oggi il contingente è presente a Misurata, ma sotto il profilo politico è come se non ci fosse ed è una carta che l’Italia non riesce a spendere in alcun modo, grazie all’insipienza del nostro attuale dicastero degli Esteri. Oltre a ciò, gli oltre 300 nostri soldati saranno probabilmente esposti al fuoco visto che, per il prossimo futuro, si prevedono ancora schermaglie tra le molteplici forze locali. Il paradosso è che alcuni nostri uomini rischiano la vita senza però ben capire quale possa essere il loro compito sul campo. A Tripoli, una nostra unità militare (quale?) della nostra Marina militare[8], presente per dare manforte alla locale Guardia Costiera, è stata spesso costretta ad allontanarsi in rada in quanto molto vicina al fuoco delle controparti. Stesso discorso va fatto per la Somalia, dove ormai nulla si muove senza il consenso di Ankara.

Detto questo, una cosa è certa, se Erdogan già ricattava l’Unione Europea con lo spauracchio dell’apertura al passaggio del flusso di immigrati attraverso il cosiddetto ‘corridoio balcanico’ (fortunatamente presidiato da forze di sbarramento greche e bulgare)[9], con un suo controllo anche sulla rotta meridionale nordafricana la situazione non potrà che peggiorare e a quel punto sarà un problema che riguarderà tutta l’Europa, e non soltanto l’Italia. Non bisogna inoltre dimenticare che la Turchia continua a spalleggiare estremisti islamisti e jihadisti in Siria e in Libia ed anche questo potrebbe per il Vecchio Continente diventare un serio problema nel breve e medio termine. La Nato sembra però non rendersene conto, accecata da un’obsoleta “russofobia” (vedi l’atteggiamento degli Stati Uniti di molti Paesi europei): un’eredità – come è stato giustamente osservato da più analisti – della Guerra Fredda che le impedisce di mettere a fuoco i reali pericoli che tuttavia risultano molto facili da comprendere.

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[1] Ricordiamo la celebre frase dell’Imam iraniano sciita Ruhollah Khomeyni: “O l’islam è politico, o non è nulla”.

[2] Nell’ambito della difficile convivenza tra Ankara e Damasco, l’aspetto etnico e politico vanno integrati con quello religioso. Il fatto che a Damasco governino gli Alawiti (setta musulmana sciita), benché la maggioranza della popolazione sia sunnita, è diventato tacitamente un problema in riferimento all’equilibrio interno dei due Paesi. La simpatia di Erdogan per la formazione fondamentalista dei Fratelli Musulmani, avversi al partito Baath, e il sostegno attivo di Ankara all’esercito siriano libero (che combatte contro il governo di Assad) e la crescente trasformazione della Turchia e del Qatar, in una base a sostegno dell’Isis hanno provocato il malcontento di Damasco.

[3] Che cosa è il Turan? Il filologo e orientalista tedesco Friedrich Max Müller (1823–1900), considerato da molti come il “padre della storia delle religioni”, dedicò gran parte dei suoi studi alla classificazione e alla comparazione delle dottrine, con particolare riferimento a quelle ariane e indiane. Al termine di lunghe ricerche, Müller giunse a teorizzare che era stato agli albori della storia dell’uomo che aveva avuto inizio il processo di intima connessione fra linguaggio, religione e nazionalità. Partendo da questo presupposto, lo studioso tedesco creò una “classificazione genetica” delle religioni, criterio secondo il quale era possibile – almeno così egli sosteneva – fornire una solida base scientifica da cui partire per ulteriori e più approfondite analisi in materia. Di qui la classificazione delle tre grandi razze asiatiche ed europee: la turaniana (comprendente i popoli uralo-altaici), la semita e l’ariana, alle quali sarebbero corrisposte altrettante grandi famiglie linguistiche. Secondo Müller, durante il periodo protostorico ciascuna di queste tre razze avrebbe formato un unico popolo che tuttavia, con il passare del tempo, si sarebbe frammentato in molti nuclei aventi altrettanti distinti idiomi. Ciononostante, lo studioso era convinto che, attraverso un’accurata ricerca, sarebbe stato possibile ritrovare l’unità etnico-culturale e religiosa delle origini. La principale caratteristica della metodologia di ricerca adottata da Müller risiedeva nell’analisi comparativa delle lingue, dalle quali egli cercò di estrapolare ed esporre similitudini di tipo religioso: il tutto attraverso l’identificazione di termini, ma anche credenze mitologiche comuni e alle varie etnie prese in esame. A questo proposito, va ricordato che Max Müller riuscì ad ottenere i risultati migliori studiando la razza semita, mentre al contrario egli incontrò grossi ostacoli nel suo approccio con i popoli turanici, per i quali dovette accontentarsi di ipotizzare soltanto una “probabile” origine comune. I limiti del criterio classificatorio e comparativo adottato da Müller furono in seguito individuati in alcuni errori di base, primo fra tutti quello di avere dimenticato di prendere in considerazione l’elemento “storico” quale importante parametro di analisi dello sviluppo della cultura dei popoli. Tutto ciò a dimostrazione di quanto sia sempre stato difficile (e sia complicato ancora oggi) stabilire con esattezza l’origine dei popoli turanici e le eventuali analogie o differenze con altri gruppi. In epoca contemporanea, il termine Turan (da cui deriva turanismo e panturanismo) oltre a designare peculiarità linguistiche ed etniche tipiche di popolazioni centro-asiatiche ha anche assunto un significato “ideologico”. Nei testi sacri zoroastriani iraniani dell’Avesta, l’aggettivo turya fa riferimento agli avversari dello zoroastrismo, anche se apparentemente non esisterebbero marcate differenze etniche tra i turya e gli arya citati nelle suddette scritture. Alcuni linguisti fanno derivare Turan dalla radice indo-iraniana tura (forte, veloce), mentre altri la collegano all’antico termine iraniano tor (scuro, nero). La somiglianza tra le parole turya e türk viene considerata accidentale dalla maggioranza degli studiosi che dubitano circa il fatto che turya stia ad indicare, in epoca pre sassanide, il popolo turco. Nel poema epico medio persiano Shahnameh, il termine turan (“terra dei Turya”, al pari di Eran, cioè Iran,”terra degli Arya”) fa riferimento ai popoli confinanti con la Persia orientale, cioè agli abitanti dell’impero kushano, entità statuale del I–III secolo d.C. i cui confini si estendevano dall’attuale Tagikistan al Mar Caspio, all’Afghanistan e alla valle del Gange. A partire dall’inizio del XX secolo, la parola Turan venne sempre più spesso utilizzata dagli occidentali e dai turchi per indicare genericamente l’area geografica corrispondente all’Asia Centrale. Gli etnologi e i linguisti europei dell’epoca romantica (in particolare quelli tedeschi, ungheresi e slovacchi) erano soliti utilizzare il termine turaniano per designare popolazioni che parlavano linguaggi uralo-altaici. Anche se, attualmente, questa accezione non viene ancora completamente condivisa dalla comunità accademica. Anche se a livello popolare è tuttavia diffusa la teoria secondo la quale sarebbe da attribuire un’origine comune agli idiomi utilizzati dalle popolazioni turche, mongoliche e ugri. Le scoperte effettuate in questi ultimi anni grazie agli studi sul DNA hanno fornito una nuova teoria circa il significato etnico di Turan. Secondo i lavori pubblicati nell’aprile del 2004 dall’American Journal of Human Genetics, almeno il 70% di finnici, il 49% di sami, il 53% di udmurt, il 35% di lettoni, il 41% di lituani, il 20% degli evenchi della Siberia orientale, l’80% di yakut, il 47% dei buryat, il 40% di chukchi e circa il 60% di inuit occidentali porterebbero nel loro corredo cromosomico il così chiamato aploide N3, peculiarità che dimostrerebbe l’appartenenza ad un unico ceppo risalente a circa mille generazioni fa. Per quanto concerne le interpretazioni date dagli studiosi europei, le parole turan e turaniano designerebbero, infine, anche una particolare “mentalità” (indice evidentemente caratteriale e ‘culturale’), cioè quella nomade, tipica delle popolazioni centro-asiatiche. Un’interpretazione in sintonia con quella zoroastriana di turja che non è principalmente una designazione linguistica o etnica, ma piuttosto un appellativo con il quale – come già accennato – venivano chiamati gli infedeli, cioè i popoli nemici di Zoroastro. Secondo quanto riportato nel 1868 da J. W. Jackson in The Iran and Turan sulla Anthropological Review, dietro la “mentalità” turaniana si celerebbe addirittura un ancestrale e congenito ‘istinto’ di tipo razzista. “Il turaniano – sostiene infatti Jackson – è la personificazione del potere materiale; esso rappresenta l’individuo muscolare. Tutta la società turaniana è d’altra parte fondata sul mito della forza. Pur non essendo un selvaggio in senso lato, il turaniano è comunque un ‘barbaro’. E pur non vivendo alla giornata come una bestia, esso non possiede né le doti morali né quelle intellettuali che caratterizzano altri gruppi etnici [affermazione secondo il nostro parere piuttosto forte oltre che arbitraria, soprattutto se pronunciata da uno studioso dichiaratamente antirazzista come Jackson. N.d.A.]”. “Il turaniano – prosegue lo studioso –  sarebbe in grado di applicarsi con profitto sul lavoro e di accumulare risorse, ma risulterebbe tuttvia incapace di elaborare  concetti superiori [non ben chiariti, N.d.A.], come è d’uso invece per l’uomo caucasico. Esso risulta  carente a livello sentimentale ed etico ed è più incline all’acquisizione della conoscenza pratica che non all’elaborazione di idee». Detto questo, in questi ultimi anni, anche in Europa (Ungheria, in Finlandia ed Estonia), il panturanismo è stato riscoperto e abbracciato come dottrina positiva, soprattutto da alcuni partiti nazionalisti. Non di rado, infatti, il termine turaniano viene usato per indicare una forma di più vasto e omnicomprensivo nazionalismo pan-altaico, un movimento transnazionale che includerebbe popoli apparentemente dissimili, ma che discendono da un comune ceppo, come appunto i baltici, gli ungheresi, i turchi, i manciuriani, i giapponesi, i coreani e, ovviamente, i popoli dell’Asia Centrale.

[4] Ricordiamo che i peshmerga sono le forze armate della regione autonoma del Kurdistan iracheno. Il termine “peshmerga” indica letteralmente un combattente-guerrigliero che intende battersi fino alla morte.

[5] Il 26 gennaio 2017, il gruppo si è fuso con quattro formazioni minori, assumendo il nome Hayat Tahrir al-Sham (“Organizzazione per la liberazione del Levante”).

[6] I Fratelli Musulmani costituiscono una delle più importanti organizzazioni islamiste internazionali con un approccio di tipo politico all’islam. Furono fondati nel 1928 da Hasan al-Banna in Egitto, poco più d’un decennio dopo il collasso dell’Impero Ottomano. Sono diffusi soprattutto in Egitto.

[7] Nel settembre 2018, Russia e Turchia si accordarono per demilitarizzare la cittadina di Idlib, ma dopo l’escalation dei combattimenti che portarono all’espulsione degli integralisti – durante i quali, il 27 ottobre 2019, proprio in questa zona venne ucciso il califfo Abu Bakr al-Baghdadi – il governo siriano non riconobbe più tali accordi.

[8] Miasit è il nome della missione italiana bilaterale di assistenza e supporto in Libia. Il suo compito è quello di fornire assistenza e supporto al governo di accordo nazionale libico ed è frutto della riconfigurazione, in un unico dispositivo, delle attività di supporto sanitario e umanitario previste dall’operazione Ippocrate (terminata il 31 dicembre 2017) e di alcuni compiti di supporto tecnico-manutentivo, tra i quali quelli di ripristino dei mezzi aerei e degli aeroporti libici e interventi a favore della guardia costiera libica, rientranti nell’operazione Mare Sicuro. Miasit ha l’obiettivo di rendere l’azione di assistenza e supporto in Libia maggiormente incisiva ed efficace, sostenendo le autorità libiche ufficialmente riconosciute nell’azione di pacificazione e stabilizzazione del Paese e nel rafforzamento delle attività di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale, dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza, in armonia con le linee di intervento decise dalle Nazioni Unite. La missione ha avuto inizio a gennaio del 2018 e non ha un termine di scadenza predeterminato. Il contingente del personale comprende: personale sanitario, unità per assistenza e supporto sanitario, unità con compiti di formazione, addestramento, consulenza, assistenza, supporto e mentoring, mobile training team, unità per il supporto logistico generale, unità per i lavori infrastrutturali, unità di tecnici/specialisti, squadra rilevazione contro minacce chimiche/biologiche/radiologiche/nucleari (Cbrn), team per ricognizione e per comando e controllo, personale di collegamento presso dicasteri/stati maggiori libici; unità con compiti di force protection del personale delle aree in cui esso opera. La missione Miasit impiega 130 mezzi terrestri e i mezzi navali del dispositivo aeronavale dell’operazione Mare Sicuro a cui si aggiungono un massimo di 400 uomini. Il fabbisogno finanziario, così come riportato dal Dpp (Documento Programmatico Pluriennale) Difesa 2019-2021, ammonta a 49.012.962 euro di cui 14 milioni per obbligazioni esigibili nell’anno 2020. Il comando di Miasit è stato affidato a un generale di brigata, attualmente nella persona del generale Alessio Cavicchioli.

[9] Le frontiere turco-bulgare e turco-greche sono state sostanzialmente chiuse nel 2016 (anno della firma degli accordi con l’UE) e progressivamente rafforzate grazie ai 6 miliardi di euro che i Paesi europei hanno versato al governo di Ankara negli ultimi tre anni.

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