La città sulla collina: viaggio nella storia dell’’eccezionalissimo’ americano: da John Winthrop a Donald Trump. di Lucio Brignoli.

John Winthrop il Vecchio.

La città sulla collina, la città ideale, che illumina il mondo. È il modello tutto americano della comunità perfetta, della comunità di Dio. Un’idea che ha attraversato per secoli la cultura degli Stati Uniti unendo tra loro le varie origini, religioni e idee politiche. Ecco dove nasce il sogno americano ante litteram:

“…alzando poi lo sguardo, vide il vasto piano dell’altra riva, sparso di paesi, e al di là i colli, e sua uno di quelli una gran macchia biancastra, che gli parve dover essere una città, Bergamo sicuramente.”

Qualcuno dei miei venticinque lettori lo avrà forse riconosciuto, è un breve passo dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni. Descrive la reazione di Renzo Tramaglino, in fuga da Milano perché scambiato per untore della peste, che attraversato il confine dell’Adda con la Repubblica Serenissima vede la sua destinazione, la città di Bergamo appunto. Una città sulla collina e la sua salvezza, almeno per il momento. Cosa lega Manzoni, Trump e i puritani inglesi del XVII secolo, a parte il fatto che Bergamo sia la mia città natale? Poco, anzi forse nulla; se non una lettura attenta della Bibbia. In questo caso del Nuovo Testamento:

“Voi siete la luce del mondo. Una città posta sopra un monte non può rimanere nascosta…”

È il sermone della montagna dal Vangelo secondo Matteo (5:14). Ed è proprio da questo breve passaggio che nasce un pezzo importante della cultura, non solo popolare, americana. A farsene portatore è un padre fondatore, John Winthrop il Vecchio (1588- 1649) nobile inglese e, soprattutto, puritano. L’allora Re inglese Carlo I era impegnato, come il suo predecessore del resto, a ridimensionare il ruolo della chiesa puritana nella corte e nella società del tempo, favorendo il trasferimento di coloni puritani nelle nuove colonie del Nord America. Sarà proprio con la Colonia della baia del Massachusetts, una sorta di società per azioni con l’esclusiva dalla Corona per lo sfruttamento di vasti territori del Nuovo Mondo, che Winthrop, venduti tutti i possedimenti nella madrepatria, partirà alla volta di quelle che poi diventeranno Salem e Boston. I primi nuclei di colonie stabilmente abitati, insieme alla Plymouth, dei coloni della più famosa nave Mayflower.

Winthrop salpò nella primavera del 1630 e, a bordo della nave Arbella, scrisse durante il lungo viaggio un sermone dal titolo Un modello di carità cristiana, in cui cercò di tratteggiare quelli che avrebbero dovuto essere i tratti distintivi della comunità puritana da fondarsi a ovest dell’Oceano Atlantico, in quello che di lì a pochi anni sarebbe diventato il New England. Era una visione comunitaria, teocratica, egualitaria e democratica, che si rifaceva alla concezione calvinista della sovranità di Dio nei cieli e sulla terra. Una sorta di Ginevra del XVI secolo, ma senza il lago Lemano e le Alpi svizzere:

“…for wee must Consider that wee shall be as a Ctity upon a Hill, the eies of all people uppon us…”

Sostanzialmente nella sua predica laica il governatore delle nuove colonie spronò i suoi coloni a diventare un modello per gli altri, siano essi coloni o inglesi rimasti nella madrepatria. Un punto di riferimento per tutti i cristiani e soprattutto per i puritani in Europa. Oggi è difficile per un europeo immaginare quanto spesso nei discorsi dei politici statunitensi vengano citati Dio e le sacre scritture. La religione ha sempre svolto un ruolo importante nella società e quindi nella politica statunitense, ancora oggi. Questo richiamo, politico e cristiano in particolare, è rimasto inciso profondamente nella visione di sé che i nordamericani hanno. Lo possiamo ritrovare nei discorsi dei Presidenti, diversi per religione e orientamento politico, e riconoscere nella fibra della teoria politica dell’eccezionalissimo americano.

Nel 1961, la bellezza di 331 anni dopo Winthrop, un Presidente cattolico, John Fitzgerald Kennedy, assumendo ufficialmente la Presidenza nel proprio discorso disse:

“Today the eyes of all people are truly upon us – and our governments, in every branch, at every level, national, state and local, must be as a city upon a hill…”

E nel caso la citazione non fosse risultata chiara al suo uditorio, poco dopo continuò così:

“For we are setting out upon a voyage in 1961 no less hazardous than that undertaken by the Arabella in 1630. We are committing ourselves to tasks of statecraft no less awesome than that of governing the Massachusetts Bay Colony…”

Alla fine del suo mandato presidenziale invece, il repubblicano Ronald Reagan, nel gennaio del 1989, tornò come spesso aveva fatto durante i suoi 8 anni sull’argomento:

“I have thought a bit of the shining city upon a hill… I have spoken of the shining city all my political life, but I don’t know if I ever quite communicated what I saw when I said it…”

Non parliamo solo di un concetto figurato, astratto, ma, così come doveva essere per i primi coloni, di un riferimento concreto e un manuale di vita e condotta morale, dei singoli e della comunità, per una concreta applicazione nell’azione politica del presente e di ogni giorno. Infatti Reagan nello stesso discorso subito dopo aggiunse:

“And how stands the city on this winter night? More prosperous, more secure, and happier than it was years ago…”

Ma, senza fermarsi, da buon politico, a prendersi solo i meriti della sua amministrazione, Reagan tracciò la declinazione moderna di quello che era già diventato l’eccezionalissimo americano per gli americani stessi, come chiudendo il discorso iniziato da Kennedy 38 anni prima:

Il Presidente Roinald Reagan.

“After 200 years, two centuries, she still stands strong and true on the granite ridge, and her glow has held steady no matter what storm. And she’s still a beacon, still a magnet for all who must have freedom, for all pilgrims from all the lost places who are hunting through the darkness, toward home…”

La nuova missione degli Stati Uniti d’America così non era più tanto quella di costruire la città di Dio per pochi coloni in fuga dall’Europa, ma di realizzare un faro di libertà cui tutti gli uomini di buona volontà in ogni angolo del globo potessero riferirsi, per conoscere la strada verso la felicità sulla terra, grande invenzione costituzionale della rivoluzione americana. L’America di Kennedy aveva vinto di malavoglia due guerre mondiali senza, a dirla tutta, sapere bene cosa farsene della vittoria, era impegnata in un confronto aspro con l’Unione Sovietica e non immaginava che di lì a poco avrebbe patito uno scivolone nelle paludi del Vietnam. L’America di Reagan trionfò, sopravvivendo al suo ultimo nemico del XX secolo. Nel volgere di un secolo aveva infatti battuto gli Imperi Centrali nella Grande Guerra, aveva piegato il fascismo e il nazismo nella Seconda Guerra Mondiale ed ora aveva assistito al crollo del comunismo ed alla fine della Guerra Fredda con l’URSS.

Cuba e la Cina erano prossime a implodere come Mosca, si pensava, oppure ad adeguarsi al nuovo spirito del tempo. La fine della storia per qualcuno. Sicuramente non c’era più un sole dell’avvenire all’orizzonte ma solo una città sulla collina a segnare la via. Almeno per qualche anno.

Prima George Bush jr e poi Barack Hussein Obama, infatti, hanno cercato di declinare ciascuno a proprio modo la rotta tracciata da Reagan, così come l’abbiamo appena letta. I risultati più eclatanti sono stati, cercando di sintetizzare al massimo un lasso di tempo decisamente complesso e ricco di eventi importanti, la Seconda Guerra in Iraq del primo e le Primavere Arabe per il secondo. Entrambi con esiti disastrosi. Tanto da portare il presidente in carica, Donald Trump, nel suo discorso inaugurale a dire:

Il Presidente Donald Trump.

“We do not seek to impose our way of life on anyone, but rather to let it shine as an example. We will shine for everyone to follow…”

La fine dell’eccezionalissimo americano? Per rispondere a questa domanda forse ci sarebbe da domandarsi se gli Stati Uniti possano esistere senza quella concezione messianica del proprio mandato nella comunità internazionale. Ma è un compito troppo ampio per questo articolo. Limitiamoci a inquadrare questo concetto partendo dalle sue origini.

“La posizione degli americani è perciò davvero eccezionale e si può ritenere che nessun popolo democratico verrà mai a trovarsi in una situazione simile. La loro origine strettamente puritana, i loro costumi esclusivamente commerciali, persino il Paese che abitano, che sembra sviare le loro menti dalla ricerca della scienza, della letteratura e dell’arte, la prossimità con l’Europa, che permette loro di trascurare queste ricerche senza scadere nelle barbarie. Un migliaio di motivazioni speciali…”

Questo è Alexis de Tocqueville nel suo capolavoro La democrazia in America del 1831. Da allora molte cose sono cambiate negli Stati Uniti rispetto a questa descrizione, soprattutto un paese principalmente agricolo e commerciale era diventato già al volgere del secolo una delle maggiori potenze industriali insieme all’Impero britannico e alla Germania guglielmina. Ma la crescita economica, la Guerra Civile e la fine dell’isolazionismo comunque non ne avrebbero cambiato l’anima più profonda, tanto che qualche tempo dopo lo storico statunitense Harry Williams, premio Pulitzer e tante altre onorificenze in patria, ebbe a dire che:

“Negli Stati Uniti l’uomo creerà una società che sarà la migliore e la più felice del mondo. Gli Stati Uniti sono stati la suprema dimostrazione di democrazia. Ma l’Unione non esiste per rendere l’uomo libero in America. Essa ha avuto una missione più grande: rendere gli uomini liberi ovunque…”

Il mondo non è basta, se fosse una battuta di un film su James Bond, l’agente 007. Ma non lo è. Potremmo chiudere la carrellata di citazioni che definiscono l’eccezionalismo americano con alcuni dei passaggi che l’ex vice-presidente di Bush jr, Dick Cheney, ha scritto in un libro pubblicato proprio sull’argomento. Ma non me la sento, per rispetto dei miei, nel frattempo, dieci lettori. Preferisco riportare il pensiero recentemente espresso dal filosofo americano Avram Noam Chomsky sul tema, lapidario epitaffio che può aiutare ad attribuire la giusta misura a questa lunga digressione:

“Gli stati potenti si sono frequentemente considerati eccezionalmente eccezionali e gli Stati Uniti non fanno eccezione a questo.”

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