Giambattista Vico. Il filosofo della Storia. Di Martina Vullo.

Busto di Giambattista Vico.

La grande novità proposta dal filosofo napoletano è quella di riconoscere nella storicità un tratto essenziale  della vita dell’uomo. Superando la concezione impostasi lungo tutto il Seicento secondo la quale l’unico vero sapere  è costituito dalla nuova scienza di impianto fisico-matematico, con Vico la filosofia moderna affronta per la prima volta, in maniera originale, il problema del mondo storico nelle sue strutture e nei suoi significati.

Per Giambattista Vico (1668-1744), la storia, così come la filosofia, è una disciplina costruttiva dell’evoluzione umana. In opposizione alla tradizione hegeliana, che attribuisce alla storia un ruolo subordinato rispetto al valore supremo della filosofia, e dichiara la scissione tra le due, il filosofo della Scienza Nuova, invece, le considera due discipline agenti sinergicamente. Approdato al pensiero filosofico dalla scienza del diritto, Vico riesce ad instaurare un accordo tra il realismo tacitiano, la filosofia platonica, il giusnaturalismo groziano, la scienza filologica, il sapere pratico baconiano, la religione e la scoperta del mondo civile. Nel pensiero vichiano confluiscono la tradizione classica, rinascimentale e barocca. Il filosofo nutre particolare interesse per l’epos omerico e virgiliano, la psicologia delle passioni cinquecentesca e la storiografia plutarchea.Egli, esaltando la cultura retorica e letteraria, e contrapponendola, per il suo valore formativo, a quella matematico-scientifica, propone un nuovo modo di fare filosofia, riconoscendo valore e dignità a tutte le certezze filologiche che si palesano nel mondo umano delle lingue, dei costumi, delle leggi e delle istituzioni. Con ciò egli critica lo scientismo cartesiano, la scienza moderna in generale, giunta al massimo del suo sviluppo, ad opera di Keplero, Galilei e Newton, soprattutto grazie alla matematizzazione della natura. Vico polverizza l’impianto meccanicistico, distinguendo nettamente tra quel che per l’uomo è inconoscibile e quel che invece può comprendere perché lo fa lui in prima persona. Le proposizioni della matematica sono fatte dall’uomo, cioè riguardano oggetti (numeri e figure) costruiti dalla mente umana attraverso definizioni (cioè convenzioni), mentre la fisica non può raggiungere lo stesso rigore dimostrativo, perché il suo oggetto, cioè la natura, non è opera dell’uomo.

In questo modo il filosofo getta il corpo dell’uomo nella storia, facendone il prodotto di un’imponente antropogonia. Egli concepisce una forma di conoscenza gestita dal corpo. Livello mentale e livello fisico vengono chiamati alla cooperazione. La considerazione del pensatore su questo tema nasce dalla lettura di Cartesio e dalla sua definizione di un soggetto epistemico slegato dal corpo e dalle sue facoltà. Il nostro patrimonio di sensazioni può essere una valida forma di conoscenza? Il fascino ermeneutico di Vico risiede nell’aver proposto l’elaborazione di un concetto di certezza di sé del soggetto che non ripudia mai la dimensione emozionale.

L’uomo non si libera a sensibus, ma li integra nel processo conoscitivo. Vico valorizza l’idea della complessità dell’uomo e della ricchezza dell’universo culturale, riuscendo a rafforzare, contro la semplice deduzione matematica cartesiana, l’ars inveniendi, l’arte di scoprire nuove realtà a partire dall’esperienza. Egli giunge in tal modo a fondare una «scienza nuova», che si pone in alternativa alla moderna scienza fisica e che assume il nome di «filosofia della storia», espressione con la quale si intende una riflessione complessiva sul cammino della storia, sviluppata a partire da dati concreti, rinvenuti mediante un’indagine attenta e puntuale. Tale posizione è radicalmente nuova. La storia è considerata una «metafisica della mente umana», in quanto prodotto ed espressione delle disposizioni naturali dell’uomo, che ne è l’autore. Il principio del verum ipsum factum che è sotteso a questa affermazione, stabilisce l’idea che la conoscenza completa dell’uomo sia possibile solo attraverso i suoi prodotti, ossia attraverso ciò che egli concretamente produce nell’arco temporale della sua vita.

Da questa considerazione consegue che il sapere storico individua delle vere e proprie leggi, che «dovettero, debbono e dovranno» valere sempre: la «scienza nuova» si presenta pertanto anche come «storia ideale eterna»: essa rivela le costanti ideali che segnano il divenire concreto dei singoli popoli e che hanno nella mente umana il loro riferimento comune. Il mondo storico, in quanto prodotto umano, può essere oggetto di conoscenza certa da parte degli uomini. Nel mondo della storia l’uomo non è sostanza fisica e metafisica, ma creazione e prodotto della sua propria azione, sicché questo mondo è il mondo umano per eccellenza, quello che certamente è stato e continua ad essere prodotto dall’uomo e di cui si possono quindi conoscere i princìpi. Ma considerata sotto questa luce, la storia non è un succedersi slegato di avvenimenti: essa deve avere in sé un ordine fondamentale, al quale lo svolgersi degli avvenimenti tende come al suo significato finale. Il tentativo che l’uomo ha sempre vanamente compiuto nei riguardi del mondo della natura, quello cioè di rintracciarne l’ordine e le leggi, può essere effettuato con successo soltanto nel mondo della storia giacché solamente questo è opera umana. La Scienza nuova è nuova proprio nel senso che instaura un’investigazione del mondo storico diretta a rintracciare le leggi di questo mondo. Vico afferma che essa deve fondarsi sia sulla filologia che sulla filosofia. Fondamentale è la valorizzazione della cultura umanistica non solo come strumento di esercizi retorici, ma anche come fonte di autentico sapere, e soprattutto l’attenzione rivolta al linguaggio come espressione della vita e del modo di pensare dei popoli. Da questo punto di vista il pensatore è il primo filosofo moderno ad aver sviluppato una teoria filosofica del linguaggio. La scienza filologica, intesa come studio non solo della lingua, ma anche di ogni altra manifestazione tramandata della civiltà umana, è chiamata da Vico «coscienza del certo». La filosofia, intesa come studio delle cause e delle leggi che spiegano i fatti, è detta «coscienza del vero». Prospettate in questo modo, filologia e filosofia devono procedere insieme e completarsi a vicenda, in modo tale che si possa giungere ad inverare il certo e accertare il vero. Questa unione di filologia e filosofia porta Vico ad una creazione del tutto originale, di cui egli cerca di dare un’esposizione il più possibile chiara e rigorosa nel suo capolavoro, la Scienza nuova. Una prima edizione uscì nel 1725 col titolo Principii d’una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni; una seconda nel 1730 e rimase nota come Scienza nuova seconda; la terza, definitiva, nota col nome di Scienza nuova terza, nel 1744, poco dopo la morte dell’autore. L’analisi dei fatti storici porta a ritrovare in essi l’espressione delle disposizioni naturali dell’uomo. Lo sviluppo di questo mondo segue un corso regolare, che, nonostante le diversità spaziali e temporali che intercorrono tra le varie società umane, presenta alcuni punti fermi: il sentimento religioso, l’istituzione del matrimonio e la prassi della sepoltura dei defunti. Si tratta quindi di princìpi eterni e universali, che sono alla base della scienza storica e che devono essere custoditi da tutte le nazioni, perché sono ciò che garantisce il loro cammino di incivilimento. I princìpi della nuova scienza possono essere dati solo da una «metafisica della mente», perché la causa della storia è l’uomo, cioè la mente umana, e quindi le leggi che regolano lo svolgimento della storia sono le stesse che regolano il funzionamento della mente umana. La storia, in quanto espressione della mens hominis, non è solo una catalogazione di tutto ciò che l’uomo concretamente produce: essa non si ferma al momento della «filologia», ma si presenta come una vera e propria «storia ideal eterna», ossia come l’illustrazione di quelle leggi del divenire che presiedono alla vita civile di tutti i popoli, costituendo la norma ideale e costante a partire dalla quale le specifiche vicende umane si modellano. La storia ideale eterna è ricavabile dalla metafisica della mente, cioè è conoscibile per mezzo della ragione. La Scienza nuova, pertanto, non è una «teologia della storia», nel senso in cui lo era stata in precedenza la concezione della storia elaborata da Agostino d’Ippona nella Città di Dio, perché non si basa sulla rivelazione, ma è una «filosofia della storia», basata sulla ragione.

Sulla scorta di quanto evidenziato, il filosofo napoletano può affermare che nella  «scienza nuova» la mente riesce veramente a guardare se stessa, in quanto coglie le costanti che, presenti in tutti gli individui, si rivelano lungo la storia e fanno sì che essa non sia un caotico succedersi di eventi, ma una realtà ordinata. Il punto di partenza della meditazione storica di Vico è la situazione originaria dell’uomo: la sua caduta e il desiderio di essere salvato da un’entità superiore. Il filosofo assume così il suo punto di partenza dal pensiero religioso. L’uomo tende perciò ad uscire dal suo stato di caduta per muovere verso un ordine divino. In considerazione del termine finale, la scienza della storia appare al pensatore una «teologia civile ragionata della provvidenza divina», cioè la dimostrazione razionale di un ordine provvidenziale che si va attuando nella società umana. La storia si muove nel tempo, ma tende ad un ordine che è universale ed eterno. Questo ordine che rende intelligibile la storia effettiva è proprio la «storia ideal eterna». Essa è la struttura che sorregge il corso temporale delle nazioni e che perciò trasforma la semplice successione cronologica dei momenti storici in un ordine ideale progressivo. Come tale, essa rappresenta il paradigma della storia reale e quindi il criterio per giudicarla. La provvidenza è considerata il compimento di tutti i princìpi della Scienza nuova. Essa viene introdotta come la legge da cui la storia riceve la sua direzione. Per Vico non può esservi alcun mondo storico fondato sull’ateismo. Tutte le civiltà, le leggi e le istituzioni, si fondano su qualche forma di religione, sia essa cristiana o pagana. In principio egli interpreta la religione come un fenomeno «civile», profano e storico. Ogni popolo pagano ha i suoi riti della coltivazione, i suoi culti del matrimonio e della sepoltura. Ma poiché è la provvidenza divina che opera con questi mezzi, quali gli usi e le tradizioni, gli sembra così assicurata la continuità dalla tradizione precristiana a quella cristiana. L’unico anello che connette la storia biblica ai primi inizi dell’umanità profana dopo il diluvio è l’idea che questi ferini primordi siano la punizione per il peccato originale e rappresentino un regresso rispetto alla precedente storia sacra del popolo eletto. Per il resto Vico esclude la Bibbia come fonte storica, malgrado i suoi sforzi di provarne la verità mediante fonti profane. Egli riconosce l’origine eccezionale del popolo eletto, ma proprio per questa ragione la Scienza nuova non si occupa dei princìpi della sua storia.

La questione di fondo del vichianesimo rimane il rapporto tra l’iniziativa umana e il disegno divino. Il primo principio incontrastato è che gli uomini soltanto hanno creato il mondo delle nazioni. Dall’altro lato, questo mondo non si può intendere se non in rapporto all’ordine provvidenziale. L’esaltazione della provvidenza si accompagna nella speculazione vichiana a una polemica contro la fede nel fato e nel caso degli stoici e degli epicurei. La dottrina del fato cieco ignora la dialettica tra necessità provvidenziale e libertà del volere, mentre quella epicurea del caso riduce la libertà a mero capriccio. Il fato esclude la libertà, il caso l’ordine. Benché il mondo civile sia fatto dall’uomo, nelle sue vicende si riscontra che le azioni umane hanno esiti diversi dalle intenzioni di coloro che le hanno compiute: l’«eterogenesi dei fini», il fenomeno per cui, dal desiderio di realizzare certi fini, si generano invece fini diversi. Tutto questo dimostra che la storia è fatta, sì, dagli uomini, ma anche da un’intelligenza superiore, la quale persegue fini più alti imprimendo alla storia un andamento di tipo progressivo, volto al meglio. La presenza di tale ordine provvidenziale non implica la messa in forse della libertà umana: la storia ideale eterna, pur servendo ad illuminare la coscienza umana, non la determina necessariamente. Tant’è vero che le storie temporali delle singole nazioni possono anche non seguire il corso normale della storia ideale eterna. Quando la scienza e la tecnica producono comodità eccessive, accade che i costumi degli uomini si corrompano e la civiltà si avvii verso la decadenza.

Qual è l’autentico soggetto della storia: l’uomo o la provvidenza divina? A chi appartiene, in ultima analisi, l’iniziativa del sorgere e della decadenza delle nazioni e quindi la responsabilità dello sviluppo storico? A questo proposito, Vico da un lato combatte ogni fatalismo; dall’altro lato, difende la presenza della provvidenza nella storia, senza la quale quest’ultima non costituirebbe un ordine.

Ma qual è lo specifico modo in cui è presente, nella storia, la provvidenza vichiana?

L’azione della provvidenza non è un intervento esterno, diretto a correggere miracolosamente le aberrazioni e gli smarrimenti dell’uomo. La dottrina vichiana esclude che la storia ideale eterna con il suo ordine provvidenziale sia trascendente rispetto alla storia temporale; esclude anche che essa sia immanente nella storia temporale umana. Tale provvidenza non può dunque essere intesa come una necessità razionale intrinseca agli avvenimenti storici, come una ragione impersonale che agisce negli uomini singoli promuovendo le loro azioni. In realtà, se Vico nega la trascendenza come miracoloso intervento della provvidenza nelle vicende storiche, tuttavia afferma e difende la trascendenza nel senso che il significato ultimo della storia è al di là degli eventi particolari, di cui gli uomini sono gli autori. La provvidenza è trascendente come sostanzialità di valore che sorregge gli eventi nel loro corso ordinato. Essa è un disegno che è, al tempo stesso, un’onnipresente sollecitazione che spinge l’uomo ad agire in vista di valori ideali eterni. L’uomo trae da essa la capacità di sollevarsi dalla sua caduta, di fondare il mondo della storia e di conservarlo.

Ma qual è la religione di Vico? La Scienza nuova non autorizza a parlare di cristianesimo, ma soltanto di una religione naturale-razionale che si trova in tutte le genti dagli inizi della storia del mondo. Si potrebbe dire che Vico sia il rappresentante di una forma di deismo storicistico che fa, insieme, da contrappeso e da integrazione al deismo naturalistico. Ciò che lo distingue da quest’ultimo è l’intento esplicito di aver voluto fondare questa teologia sul cosmo umano e storico, anziché su quello naturale, ma ne conserva lo spirito perché rifugge da complementi dogmatici sostanziali e intende poggiare soltanto su basi razionali. Nessun accenno si trova infatti nel filosofo ai fondamentali dogmi del cristianesimo (la Trinità e l’Incarnazione) che gli appaiono al di là di quanto la ragione umana può giustificare.

Vico rimane un pensatore centrale della filosofia settecentesca per l’originalità con cui rielabora teorie e tradizioni del passato innovandole profondamente con gli strumenti dell’epistemologia moderna. Il suo ruolo, erede della cultura classica e insieme portatore di nuove prospettive, rappresenta il fulcro in bilico tra antichi e moderni. Rimane dunque intatta l’altissima considerazione per un filosofo che, quando la decadenza della cultura italiana viene rinfacciata dagli stranieri, è assunto a vanto di una grandezza che le generazioni vissute prima del Risorgimento ancora non si rassegnano di perdere. Si deve anche al suo contributo se la letteratura europea inaugurata da Omero prosegue senza soluzioni di continuità il suo ciclo organico fino a Goethe. E proprio il pensatore tedesco lo considerò un «antico scrittore» della cui «sapienza senza fondo» vanno «lieti e superbi» i moderni.

Bibliografia:

E. Berti – F. Volpi,  Storia della filosofia, vol. I, Laterza, Roma-Bari, 2009.

Andrea Battistini, Vico tra gli antichi e i moderni, il Mulino, Bologna, 2004.

Karl Löwith, Significato e fine della storia, il Saggiatore, Milano, 2015.

Manuela Sanna, Vico, Carocci, Roma, 2016.

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