La scuola italiana? Un cumulo di macerie. di Marco Cimmino.

Il Ministro della Pubblica Istruzione Valeria Fedeli (Governo Gentiloni).

Se ci si trova di fronte ad una domanda del tipo:”Abbiamo tutti pari diritti oppure no?”, il più delle volte, si risponde automaticamente: “Ma certo che sì!”. Si tratta di un portato della democrazia naturale, talmente introiettato da divenire un riflesso automatico.

In verità, non è affatto corretto sostenere che tutti abbiamo gli stessi diritti: se ci si ferma un attimo a riflettere, ci si renderà immediatamente conto del fatto che esistono diritti “naturali”, che ci spettano in quanto esseri umani, e diritti che si acquisiscono in funzione di nostri atti o di nostre condizioni, come il diritto alla cittadinanza, all’esercizio di una professione o il diritto di proprietà.

Sembrano cose ovvie, ma, nel mondo della scuola, è meglio non dare nulla per scontato.

Infatti, in ossequio all’alto principio del diritto naturale e facendo una certa confusione tra i termini “isonomia” e “democrazia”[1], la scuola dei Decreti Delegati e, in seguito, quella del cattocomunismo, fino a quella del comunismo tout court[2], ha bellamente confuso tra il legittimo diritto che accompagna ogni uomo e quelli che definiremo “diritti di competenza”: ricordiamo, per inciso, che a tali diritti si accompagnano precisi doveri e che, come vedremo, questo crea esattamente il discrimine.

In un esercito, come scriveva opportunamente Carlo Emilio  Gadda[3], i marescialli possono pure aver fatto la quinta elementare, ma i generali è bene che abbiano tutte le cartebolle al loro posto: nella scuola dovrebbe essere lo stesso.

Il perentorio, quanto esilarante, invito fatto dall’allora ministro De Mauro agli studenti ad andare a leggersi l’inesistente appendice del Manifesto di Marx ed Engels dimostrò, ad abundantiam, che perfino un fiore all’occhiello della sinistra colta, un sedicente luminare, era, in realtà culturalmente un colabrodo (con l’aggravante dei futili motivi).

Insomma, per far funzionare la scuola non basta l’aria fritta.

In un organismo complesso come una scuola, è già molto se chi amministra lo fa con coscienza e capacità, senza riempirsi le tasche, se chi dirige lo fa con lungimiranza e carisma, se chi insegna lo fa con cognizione di causa e, perché no, se chi deve pulire i pavimenti lo fa con perizia ed accuratezza.

Viceversa, nella scuola dei soviet (perché “consiglio” in russo si dice soviet), tutti si occupano di tutto: i genitori  si dedicano alla valutazione dei libri di testo, il personale ausiliario (i bidelli, per intenderci) è chiamato in causa per decidere le scelte direttive, i sindacalisti stabiliscono come distribuire il fondo d’istituto e gli studenti devono approvare il bilancio.

Sembrerebbe un pasticcio inventato da un ubriaco, invece è la realtà della scuola italiana, e il vero obiettivo di questo pasticcio è quello di rendere del tutto impossibile il funzionamento della macchina educativa.

E’ chiaro che un bidello non capisce nulla di pubblica amministrazione e che fare distribuire il fondo d’istituto alle RSU, spesso, è come affidare il deposito di Paperone alla Banda Bassotti: questo avviene proprio in ossequio a quel principio di cui dicevamo poc’anzi, per cui si confonde una generica ed approssimativa idea di diritti con quella che è l’applicazione sensata delle competenze.

E’ difficile dire come sia nata, in Italia, che è Nazione quanto mai incline alla discussione, ma pochissimo proclive al dibattito organizzativo, questa smania di consigliarsi continuamente.

Con ogni probabilità, si tratta di un vezzo straniero, assunto come nostro proprio in virtù della propria allogenesi[4].

Fatto sta che, all’indomani del 1974, cioè per quarant’anni filati, la scuola italiana è stata un ferale susseguirsi di riunioni e di consigli, in cui tutti i demagoghi della penisola hanno, finalmente, potuto avere una platea, obbligata ad ascoltare le improbabili ragioni dell’applicato di segreteria riguardo all’adozione del manuale di fisica o le scempiaggini di babbo e mamma sugli obiettivi trasversali della classe terza B.

Come diceva un grande, la situazione è tragica, ma non seria[5]!

Uno degli effetti più evidenti di questo stemperare ogni decisione in un’apposita camera di decompressione, che, di fatto, solleva il singolo dalla necessità di una scelta individuale (colpa di tutti, colpa di nessuno), è stato, naturalmente, quello di indebolire, da un lato, l’autorevolezza di presidi ed insegnanti e, dall’altro, quello di infiacchire la già debole capacità di assumersi in prima persona una responsabilità, da parte del personale della scuola[6].

Per cui, per esempio, si sono adottate formule palliative, come la grottesca ipotiposi della “non promozione”[7] (oggi “non ammissione”) dell’allievo, che non è da addebitarsi ad alcun insegnante in particolare, giacché “la decisione viene presa collegialmente (parola magica!) dal consiglio di classe.”[8]

Dunque, se Franti fa schifo in inglese, in matematica e in storia, egli non potrà lamentarsi con nessuno della propria bocciatura (pardon: non promozione) e, men che meno, con i tre docenti in questione, che gli risponderebbero a un dipresso: “Franti caro, noi ti avremmo pure promosso, ma il consiglio di classe ha deciso altrimenti!”.

E il buon Franti, non essendo il consiglio di classe una persona fisica, non saprebbe davvero a chi tagliare i pneumatici per vendetta.

Tralasciamo, per carità di patria, la descrizione di ciò che avviene all’interno dei consigli di classe: pare che ogni psicopatologia conosciuta si slatentizzi[9] in occasione di siffatte riunioni. A parte lo sproloquiare tipico di chi non ha modo migliore di tirare sera, la visione dell’accapigliarsi su questioni del tutto irrilevanti da parte di persone maggiorenni, vaccinate (si spera) e laureate (anche questo si spera)[10], in un’ecolalia di ore ed ore, turberebbe i sonni del più santo e paziente monaco tibetano.

I genitori degli alunni, che, tutto sommato, sono più sani di mente della media degli insegnanti dei loro figlioli, hanno capito da tempo l’assoluta inutilità dei consigli di classe e, infatti, li disertano massicciamente.

Se, i primi tempi dopo l’entrata in vigore dei DD.DD., l’affluenza di babbi e mamme, vuoi per la novità, vuoi per la speranza che non fosse la solita manfrina all’italiana, fu abbastanza rilevante, oggi rimangono a presenziare ai consigli di classe due o tre genitori sparuti, e attoniti di fronte alla constatazione del fatto che la loro presenza era, in realtà del tutto superflua[11].

Non a caso, quando si verificano le elezioni d’istituto, bisogna faticare per mettere insieme un presidente e due scrutatori per rendere valide le operazioni di voto e, spesso, è necessario accorpare diverse classi.

Non parliamo, poi, dei candidati a rappresentanti dei genitori: fatti salvi i soliti che, pur di essere eletti da qualche parte, foss’anche il comitato per l’assaggio dei rifiuti solidi urbani, venderebbero la madre e il padre, il resto dei papabili si eclissa all’inglese o, più sovente, non si presenta proprio.

In definitiva, basterebbe questo dato (se lo si rendesse pubblico, ma questo, ovviamente, non avviene) per suggerire una bella abrogazione della scuola dei consigli, e per cercare di trovare qualche sistema, meno suggestivo, ma, più efficace, per mandare avanti la baracca.

Stabilito che la scuola sovietica non funziona o, almeno, non funziona più, cosa proporre di alternativo?

Tanto per cominciare, si dovrebbe restituire a ciascuno il proprio ruolo: i presidi, ad esempio, dovrebbero tornare a dirigere la scuola, i segretari ad amministrarla ed i bidelli a tenerla pulita.

Amen.

Poi, si potrebbe pensare all’elezione, per ogni plesso scolastico, ossia per ogni organismo che raggruppi più scuole in un’unica gestione, di un comitato composto da due genitori, due alunni e due insegnanti, che si occupi dei rapporti fra le varie componenti, con una funzione consultiva e di controllo.

E basta: agli aspetti tecnici della gestione scolastica sono i tecnici che devono sovrintendere; così come, quando si costruisce un ponte, è l’ingegnere che fa i calcoli per il cemento armato, e non consulta prima il manovale o il marangone.

Questo discorso, naturalmente, sottintende una concezione professionale dell’insegnamento: e anche di questo si dovrà parlare, prima o poi.

Invece, oggi, gli insegnanti sono considerati “ risorse”, non professionisti: e come risorse vengono utilizzati.

Se la domanda che il lettore si pone è: “Vabbé, ma chi controllerebbe l’operato del personale scolastico?”, la risposta è addirittura elementare: gli ispettori ministeriali!

L’ispettore è una figura virtuale: gente che, oggi come oggi,  non serve quasi a nulla, che appare e scompare nelle scuole facendo discorsi fumosi e vani, che, ogni tanto, tirata per i capelli e con aria scocciatissima, viene a vedere se è vero che la professoressa Tale ha schiaffeggiato un alunno o se il professor Tizio ha palpato il sedere ad una studentessa in gita.

Fare l’ispettore è una sorta di sinecura: si viene messi lì da qualche raccomandazione abbastanza potente da farti superare il solito concorso (col sospetto che sia truccato), ci si accomoda il cuscino sotto il taffanario e ci si gode la rendita vitalizia statale.

Quando, poi, qualche ministro dalle idee un po’ meno balzane degli altri decide di lanciare, chessò, l’uso del computer nelle scuole, si va un po’in giro a raccontare quattro barzellette (di solito, muffosa aneddotica personale[12]) alla solita accozzaglia di docenti sbadiglianti e si torna a casa con qualche mille euro di trasferta.

Una bella vita, tutto sommato, quella degli ispettori ministeriali!

Nessuno sa da dove vengano o che curriculum abbiano: appaiono come muffa, nell’arco di una notte.

Sarebbe tempo di cominciare a far guadagnare loro lo stipendio: il sistema sarebbe quello di obbligarli a controlli periodici nelle scuole e non una tantum e solo su richiesta.

Oppure, fare come in Trentino, dove, chissà perché, non esistono proprio.

Il libro ‘denuncia’ di Marco Cimmino.

[1] il primo, che significa “uguale legge per tutti” corrisponde, suppergiù, al nostro concetto moderno di democrazia naturale, il secondo lo potremmo tradurre con “divisione del potere” (lett. Governo delle circoscrizioni elettorali, dei quartieri)

[2] i due esponenti (ex) comunisti che ricoprirono la carica di Ministro della Pubblica istruzione, Berlinguer e De Mauro, accentuarono, se possibile, la gestione confusionaria e pressappochista della scuola attraverso organi consultivi tra i più disparati e fantasiosi. Entrambi incarnano perfettamente la figura dell’individuo politicamente corretto che ha trovato ponti d’oro nella carriera accademica soprattutto in virtù della propria correttezza politica (nel caso del primo, ho qualche sospetto anche di tipo, come dire, familiare).

[3] Carlo Emilio Gadda, Il castello di Udine, Garzanti, 1991

[4] per la verità, più che al sovietismo russo, temo ci si sia rifatti a certo assemblearismo statunitense, vero specchietto per le allodole: molte delle peggiori nefandezze educative italiane dell’ultimo quarantennio provengono dal bidone dei rifiuti della scuola americana.

[5] Leo Longanesi

[6] per la verità, l’esitare alquanto ad assumersi una responsabilità, quale che sia, fa un po’ parte dello spirito nazionale, almeno dall’8 settembre 1943 in poi: se dovessi trovare un personaggio icona dell’Italia della nostra epoca, indicherei proprio Pietro Badoglio, che, poco dopo la firma di Castellano a Cassibile, già trescava per negare l’armistizio, che pure era opera sua, onde stornare dal suo capo la prevedibile rabbia germanica.

[7] dicesi “litote di cortesia” ed ha lo scopo di attenuare ed ingentilire un giudizio.

[8] nella realtà, prevale, di solito, l’opinione di chi ne possieda una, o possieda sicumera con cui difenderla, o possieda il grado o l’anzianità per imporre la propria superiorità (il giovinotto che si vuol mettere in mostra, la vecchia decana della scuola, il preside eccetera).

[9] talune forme di nevrosi e di psicosi appaiono come latenti nell’individuo che ne è affetto, finchè un elemento specifico ed esterno non le desti in tutta la loro virulenza: ciò si dice appunto “slatentizzarsi”.

[10] in talune ristrette zone del territorio nazionale, sia l’inefficienza del sistema sanitario che quella del sistema scolastico possono indurre nell’uomo della strada il dubbio su ineffettuate vaccinazioni o titoli di studio di origine e vidimazione alquanto incerte: la cronaca ne diede pubblica contezza, talvolta.

[11] la madre dello scrivente, donna di costumi elvetici, si recò, disciplinatamente, al primo consiglio di classe, quando egli, proprio nel 1974, frequentava la quarta ginnasio: le bastò quello, giacchè, in seguito e per tutta la durata dei miei studi, non presenziò ad alcuna altra riunione, giustificandosi col dire: “Sono tutte stupidaggini!”

[12] probabilmente, in qualche corso di formazione per ispettori, si è postulato un approccio “simpatico” con i docenti destinatari del pistolotto: il consiglio di socializzare con sorrisi alla Jerry Lewis e storielle buffe ha riscosso, evidentemente, grande successo presso la categoria ispettiva; acuendo, se possibile, il tedio.

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