Storia dei Falàsha, gli ebrei etiopi: piccola comunità venuta dall’ignoto. Di Alberto Rosselli.

Raphael Hadane, the Liqa Kahenat (High priest) of Beta Israel in Israel.

“In quel giorno il Signore si prenderà nuovamente il resto del Suo popolo, rimasto dall’Assiria. e dall’Etiopia. e alzerà un vessillo ai popoli e raccoglierà i dispersi d’Israele. dai quattro angoli della terra”. (Isaia 11: 11-12)

Sulle origini dei Falascià (o Falàsha), la misteriosa comunità ebraica un tempo residente in Etiopia, sono state avanzate molteplici ipotesi. I primi studiosi ad interessarsi all’argomento furono i francesi e gli italiani. E in ordine cronologico, il primo a parlare dei Falascià fu il ferrarese Rabbì Eliahu che, trasferitosi in Palestina nel 1425, raccontò, tramite lettera, ai suoi figli rimasti in Italia quanto egli avesse appreso “da un ebreo ‘nero’ giunto a Gerusalemme dall’Etiopia“. Bisognò comunque attendere gli studi di Filosseno Luzzato per reperire notizie più complete sull’argomento. A partire dal 1843, Luzzatto ripresentò infatti la questione Falascià in termini decisamente più scientifici ed esaustivi. Egli raccolse molte informazioni sugli ebrei dell’Africa Orientale grazie all’etnologo Antoine D’Abbadie che aveva visitato l’Etiopia e le sue più remote regioni. Tra il 1851 e il 1853, le informazioni e le leggende circa la presenza e le tradizioni etnico-religiose e culturali della comunità ebraica ‘nera’ furono poi catalogate e sapientemente analizzate in una serie di pubblicazioni raccolte negli Archives Israelites de France, il primo serio e moderno studio sull’argomento.Attualmente, alcuni ricercatori ritengono questo particolare nucleo etnico-religioso originario dell’Abissinia, mentre altri lo fanno discendere dalla tribù di Dan. Molti sono concordi nel sostenere che il termine Falascià sia stato dato, con accezione negativa, dalle altre comunità etiopi agli ebrei ‘neri’: ragione per cui esso non sarebbe del tutto gradito ad essi che preferirebbe definirsi ‘beth Israél’, cioè ‘Casa di Israele’.

In verde la zona abitata dai Falascià.

Secondo il parere di certi esperti, i Falascià discenderebbero da un popolo appartenente al ceppo yemenita giunto molti secoli fa in Etiopia; mentre altri sostengono una discendenza dall’antica comunità ebraica egiziana di Elefantina che sarebbe poi migrata nel sud del paese, fino a raggiungere la regione nord orientale etiope (il Gondar) e quella del Tigré. I cultori di tale teoria fanno provenire i “beth Israél” da quegli ebrei discendenti dal figlio nato dall’unione tra la leggendaria regina di Saba e re Salomone. Anche se sulla fede di questi ebrei ‘anomali’ non pochi esponenti religiosi israeliti puristi avanzano molti dubbi fino a considerarli semplicemente dei ‘gentili’ che per una qualche ragione non ancora del tutto chiarita hanno nel tempo mutuato alcune usanze e credenze dal credo ebraico. Ipotesi, questa, fermamente respinta dai diretti interessati che si considerano a tutti gli effetti ebrei autentici, come d’altra parte essi sono sempre stati considerati dai popoli con i quali hanno avuto a che fare durante la loro permanenza in Africa Orientale, e cioè gli etiopi cristiani ortodossi e i musulmani. Secondo il parere degli studiosi contemporanei più attendibili (vedi Ester Herzog, autrice di un importante lavoro sull’argomento), le prime notizie documentabili sui Falascià risalirebbero al ‘600/’700 d.C. Le cronache etiopi del tempo testimonierebbero infatti l’esistenza di un nucleo etnico-religioso ‘anomalo’ residente nel cuore dell’Abissinia settentrionale. Sempre secondo tali fonti, per circa tre secoli i Falascià avrebbero condotto un’esistenza pacifica anche se totalmente isolata dal resto del paese, mantenendo intatti i propri costumi, la propria cultura e naturalmente la propria religione. “Anche se spiega Ester Herzog – a partire dall’anno 1000 gli ebrei etiopi avrebbero incominciato ad essere oggetto di molteplici e dure persecuzioni e vessazioni da parte delle popolazioni limitrofe di religione mussulmana e ortodossa, subendo confische o sottrazioni di terre coltivate e di bestiame e altri atti di chiara intolleranza, quali la privazione dei diritti più elementari, la schiavitù e la cancellazione e profanazione dei luoghi e dei templi simbolo del loro credo. Intorno all’anno Mille, i mussulmani, ma anche gli ortodossi, profanarono o bruciarono quasi tutte le sinagoghe della comunità, costringendo i religiosi a nascondere libri sacri e reliquie in luoghi inaccessibili”. Dal XVII secolo in poi, missionari protestanti giunti in Etiopia vennero a contatto con elementi di questa comunità – completamente all’oscuro dell’esistenza di loro correligionari nel mondo – tentando di convertirli: iniziativa che riuscì soltanto in parte e solo molto più tardi, nel XIX secolo, grazie all’opera dei membri della London Society for Promoting Christianity among Jews. Per cercare di allontanare la minaccia missionaria, alcuni esponenti della comunità ebraica europea, tra cui il triestino Filosseno Luzzatto, iniziarono ad interessarsi della sorte di questi loro sconosciuti ‘fratelli neri’, lanciando diverse campagne per sensibilizzare gli israeliti del continente: impegno che vide l’accorata partecipazione, morale e materiale, di eminenti rabbini spagnoli, boemi, tedeschi, inglesi, prussiani, galiziani e turchi.

La Herzog racconta che “nel 1867, l’orientalista e studioso della Bibbia, Joseph Halévy, per conto dell’Alliance Israélite Universelle, iniziò ad approfondire gli studi sulla comunità dei Falascià onde verificarne le esatte origini e la purezza del credo religioso,

cercando nel contempo di mettersi in contatto con i “Beta Israel” in modo da renderli edotti circa l’esistenza di una ben più vasta anche se frammentata comunità israelitica alla quale potere fare riferimento. Nonostante le resistenze di alcuni “puristi” inclini a respingere talune usanze dei Falascià, Halévy giunse alla stabilire circa l’inequivocabile ebraicità dei “Beta Israel”. Fu comunque necessario attendere il 1905 perché l’entrata dei Falascià nella coscienza collettiva del mondo ebraico si consolidasse fino a diventare una fatto accettato, anche se con riserve. In quell’anno, infatti, lo studioso di lingue semitiche Jacques Faitlovitch, costituì i primi comitati pro Falascià, trasferendosi poi in Etiopia da dove rientrò in Europa con 40 giovani ebrei neri. Successivamente, Faitlovitch fece frequentare ai ragazzi alcune importanti scuole ebraiche, introducendoli a pratiche religiose e simboli fino a quel momento ad essi sconosciuti (come la liturgia dell’accensione delle candele dello Shabbat, il rito della festa di Simhat Torà, ecc.) ed insegnando loro la lingua ebraica ad essi completamente ignota. Questi contatti, consolidatisi in seguito ala nascita dello Stato di Israele, fecero sì che la comunità Falascià, ormai ridotta ad appena 30.000 unità, potesse sopravvivere al crescente antisemitismo islamico e ortodosso, e alla miseria. A questo punto occorre però ricordare un fatto poco noto. 

1936: Truppe italiane occupano l’Etiopia. Mussolini diede ordine di tutelare e proteggere i Falascià dalle angherie islamiche e copte.

Durante l’occupazione italiana dell’Etiopia (1936-1941) dietro disposizione di quel Benito Mussolini che nel 1938 varò le famose leggi razziali contro gli ebrei, il governo fascista decise di tutelare, attraverso apposite norme, la piccola comunità ebraica etiope, difendendola dagli abusi e dalle violenze di cui era stata oggetto da parte delle popolazioni, soprattutto mussulmane. Per molti anni, tuttavia, i molteplici e mai sopiti dubbi espressi da non pochi politici e religiosi israeliani circa la vera identità religiosa dei falascià e i timori per i possibili contraccolpi socio-culturali derivanti da un loro eventuale rientro in patria (cioè Israele), ostacolarono i piani di quei comitati di tutela che avevano come scopo il trasferimento dell’intera comunità ebraica etiope nella terra di David. Bisognò di fatto attendere il 1977 affinché il parlamento di Gerusalemme decidesse, dopo numerosi accesi dibattiti, di avviare un’operazione di questo tipo, foriera tra l’altro di notevoli rischi. A molti parve infatti verosimile che il nuovo governo marxista etiope del sanguinario colonnello Haile-Mariam Menghistu, che proprio in quell’anno aveva preso il potere in seguito ad un colpo di stato, non avrebbe infatti mai accettato alcuna manovra di questo tipo. Occorreva quindi agire con la massima prudenza, ma l’avventatezza dell’allora ministro degli Esteri Moshe Dayan complicò le cose. Incredibilmente, l’abile ex-comandante in campo dell’esercito israeliano, fece trapelare le finalità del progetto mettendo in allarme l’esecutivo filosovietico etiope impegnato in una politica di “assorbimento” e talvolta di annientamento di tutte le comunità e le minoranze etnico-regiose residenti nell’ex Africa Orientale Italiana, compresa naturalmente quella ebraica.

Il generale comunista Menghistu inizia a perseguitare i Falascià (1977).

Tra il 1977 e il 1979, i Falascià rischiarono quindi di scomparire dalla faccia della terra, sia a causa delle persecuzioni dell’esercito comunista, sia per gli effetti devastanti della paurosa carestia innescata dalla dissennata politica economica dello stesso governo etiope, impegnato a collettivizzare le terre e soprattutto a dilapidare le casse dello stato per acquistare da Mosca e dall’Avana gli armamenti necessari per combattere la vicina Somalia e per schiacciare i ribelli eritrei mussulmani che da tempo lottavano per l’indipendenza del loro paese. Questi motivi spinsero molti Falascià a tentare la fuga verso il nord, cioè in direzione dei campi profughi allestiti dall’ONU situati in Sudan, nella speranza di essere presto soccorsi dallo stato israeliano. Coloro i quali vi riuscirono dovettero però affrontare oltre confine un’esistenza molto difficile in quanto il governo islamico sudanese si dimostrò assai poco incline ad accettare sul suo territorio elementi non mussulmani. La politica discriminante di Karthoum spinse finalmente il governo di Tel Aviv a varare in tempi brevi di tre distinte operazioni di soccorso. La prima, chiamata in codice “Operazione Mosè”, consistente nella messa a punto di un ponte aereo che nell’arco di un mese e mezzo (e circa 30 voli) avrebbe consentito di trasferire dal Sudan a Israele circa 6.500 ebrei. La seconda, chiamata in codice “Saba” avrebbe invece visto l’impiego di alcuni velivoli da trasporto Usa per trasportare da Karthoum a Tel Aviv altri 650 Falascià. La terza (nome in codice “Salomone”) si sarebbe dovuta svolgere in appena 24 ore con il contributo di uno speciale raggruppamento aereo israeliano che una volta giunto in Etiopia, avrebbe dovuto caricare e portare in salvo 14.600 correligionari.

Attraverso un ponte aereo, Israele salva e porta in patria l’intera comunità dei Falascià.

Grazie agli sforzi diplomatici israeliani e alle pressioni esercitate da Washington sul Sudan, il governo di Karthoum acconsentì – pare dietro un cospicuo compenso in dollari – a permettere l’attuazione di tutti e tre i piani di sgombero che venne portato a compimento senza eccessivi problemi. Attualmente, in Israele, vivono circa 63.000 Falascià che, nonostante i notevoli sforzi profusi da Tel Aviv per facilitarne l’integrazione, sembrano

faticare per raggiungere un completo inserimento e ad instaurare rapporti di totale intesa con la popolazione locale (alla fine degli anni Ottanta, il ministero della Sanità emanò una direttiva per costringere tutti gli immigrati etiopi a sottoporsi a test per l’AIDS: iniziativa che provocò violente proteste). Come spiega la sociologa Ester Herzog “Le spicce modalità adottate nei primi tempi da Tel Aviv per favorire l’accoglienza degli ebrei etiopi altro non fanno che rallentare l’integrazione di questi ultimi, e rischiano di provocare un’assimilazione forzata e traumatica”. Per la Herzog, il governo avrebbe messo in moto una prassi troppo rapida, meccanica e burocratica, senza tenere in minimo conto delle reali difficoltà di ambientazione dei Falascià immigrati. “Il criterio base adottato per l’assegnazione degli alloggi ai Falascià – prosegue la Herzog – è attualmente legato alla salvaguardia del nucleo familiare. Questa visione tutta occidentale della famiglia si scontra con quella della cultura etiope, secondo la quale la parentela non è necessariamente determinata dal vincolo di sangue. Per la cultura falascià, le definizioni di padre o di sorella possono riferirsi anche ad individui estranei ma con i quali si mantengono da tempo intensi legami affettivi“. Di conseguenza, il principio adottato da Tel Aviv per l’assegnazione delle abitazioni ha comportato forzate e dolorose separazioni che hanno causato disagi psicologici agli immigrati”.

Donne falascià in Israele.
Per un certo periodo il Governo
di Tel Aviv mantenne un
atteggiamento discriminatorio
nei confronti dei ‘Beta Israel’.

Ma non è tutto. La Herzog ha messo sotto accusa anche il metodo della distribuzione del lavoro. “L’apprendimento di mestieri e l’offerta di lavoro sono riservati agli uomini, perlopiù giovani. L’erronea convinzione manifestata dalle autorità è che le donne siano meno capaci dei maschi e tradizionalmente legate all’attività domestica. In realtà, un esame più approfondito dimostra che, fino da tempi molto antichi, nelle comunità etiopi dei Falascià le donne partecipavano alla vita produttiva del villaggio attraverso svariate attività lavorative e produttive, soprattutto nel settore tessile e artigianale. Pretendere di impedire alle immigrate di applicarsi in un qualche tipo di mansione ha di fatto spinto le donne Falascià ad identificarsi esclusivamente nei ruoli di madre e moglie”. Come ha spiegato lo studioso Orith Youdovich “Gli errati meccanismi dell’integrazione hanno finito per condizionare anche la vita religiosa della comunità, legata ad antichi riti molto distanti da quelli nostri. In Etiopia, ad esempio, la prassi della circoncisione coincideva con una particolare festa alla quale partecipavano molti abitanti dei vicini villaggi. Il rito si svolgeva al mattino (mai di sabato) e veniva effettuato, quando il bimbo era al settimo giorno di vita, da un anziano che, dopo avere eseguito la resezione, diventava un essere impuro, al punto da dovere sottoporsi a numerose abluzioni. Ora, le attuali disposizioni rabbiniche fanno sì che il rito della milà venga a volte eseguito persino ad un mese dalla nascita del bambino. Senza considerare che il rabbino incaricato è solito, forse per ragioni di praticità, effettuare la circoncisione a più bambini: sistema che non piace affatto ai Falascià”.

Tutto ciò – secondo la Herzog – rappresenta dunque un grave problema, in quanto impedisce una reale e spontanea integrazione degli immigrati, senza considerare che le pratiche imposte dal governo altro non fanno che favorire la scomparsa delle più antiche tradizioni della comunità Falascià: tradizioni che la società israeliana dovrebbe invece proteggere proprio perché riconducibili al periodo più remoto e leggendario della storia del popolo di Mosé. Tale è infatti l’obiettivo che si pone l’Istituto di Cultura Etiope a Tel Aviv, un ente preposto alla conservazione degli usi e costumi dei Falascià che, attraverso lezioni, seminari ed incontri, vengono illustrati alla popolazione israeliana. Come spiega Youdovich, che dell’organizzazione è anche presidente, “la biblioteca dell’Istituto, contenente circa 5.000 pubblicazioni di vario genere, è a disposizione dei cittadini e soprattutto degli studenti. Il centro funge anche da consultorio e punto di riferimento per i membri della Comunità, nonché da collegamento fra la cultura dei ‘Beta Israel’ e quella occidentale“. Ma sentiamo come la pensa un diretto interessato, nella fattispecie il Direttore del Centro, Shlomo Akalé, un Falascià giunto in Israele nel 1980. “In Etiopia vivevamo come nel Medio Evo. Nonostante nelle grandi città ci fossero scuole e ospedali, gli ebrei, per paura di essere assimilati dagli etiopi, hanno preferito vivere isolati in campagna, in piccoli villaggi. Gli uomini erano per la maggior parte fabbri o tessitori, le donne lavoravano la ceramica e le stoffe. Ognuno aveva dei ruoli ben precisi all’interno della società e della famiglia. Solo se si considera questo, si può capire quale trauma abbiamo subito ritrovandoci catapultati nella moderna società israeliana“. Una società amica, ma forse estranea al tempo stesso.

Bibliografia:

Bibliografia:

History of the Jewish People, di H.H. Ben-Sasson – Harvard University Press Cambridge, Massachusetts, 1976

Storia d’Israele, di G. Ricciotti – Sei, Torino 1960

Sito web www.morasha.it – Marzo 1985. Gli inserti di Alef Dac: Gli ebrei d’Etiopia

Le comunità ebraiche nel mondo, di Pier Giovanni Donini – Storia della diaspora dalle origini a oggi – Editori Riuniti, 1988

Storia delle religioni, di H.C. Puech – Universale Laterza, 1977

Storia degli ebrei, di Paul Johnson – ed. Autori e lettori, Milano, 1992

L’Egitto dei Faraoni, di J.M. Brissaud – Ginevra, 1974

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