Italiani di mezzo, tra Austria-Ungheria e Italia, sulla cerniera dei Balcani. Di Lucio Brignoli.

L'Impero Austro Ungarico nel 1914.

La fine degli Imperi e le identità di confine. Le esperienze trentine e triestine come chiave di lettura delle vicende balcaniche.

Sui Balcani ricordo ancora una mia tesina per la quinta elementare dedicata al fiume che attraversava il cuore dell’Europa: il Danubio. Era il 1990 e improvvisamente si era allargata l’Europa, da una parte e dall’altra della Cortina di Ferro, secondo la felice definizione di Winston Churchill (1874-1965). All’estremità meridionale, secondo l’immagine appena evocata, del filo spinato che divideva l’Europa della seconda metà del XX secolo era posta la città di Trieste, il confine con l’Oriente ed appunto i Balcani.

La ricordo bene quella tesina perché mi affascinò moltissimo, come un viaggio immaginario in terre sconosciute e dai nomi evocativi di un grande passato che non conoscevo. Recupero questo ricordo perché, allora inconsciamente, ero stato indirizzato dalla mia maestra a cogliere l’importanza dell’orografia nel continente europeo, almeno fino a quando non si supera verso Est il Dnestr, Leopoli e la Galizia, per entrare nella mitologica pianura russa. Ma non corriamo avanti. Il nostro fiume, il Danubio, nasce dalla Foresta Nera in un breve spazio alpino che divide i bacini dei grandi fiumi della storia europea, Reno, Po e Danubio, si ingrossa attraversando la Baviera, zone di grandi e piccoli elettori del Sacro Romano Impero, bagna Vienna, la capitale imperialregia della Duplice Monarchia di questa nostra Storia, attraversa l’Ungheria, dividendo Buda da Pest unite nella capitale del Regno magiaro, segna l’attuale e insanguinato confine tra Croazia e Serbia per poi attraversare Belgrado, terza capitale nei fatti storici che approfondiremo, e, dopo aver attraversato spericolate gole tra i Carpazi, segna l’odierno confine tra Romania e Bulgaria prima di gettarsi con un delta immenso nel Mar Nero.

Questa geografia, a noi Occidentali del blocco Ovest, resta ancora poco conosciuta, ma era invece famigliare ad un trentino o un triestino di inizio Novecento. Allora si poteva in treno attraversare l’intero continente, da Londra a Istanbul sul celebre Orient Express, ma anche da Trieste a Leopoli e di lì fino a Mosca, come oggi si prende l’aereo per andare a Sharm-El-Sheik. Questi luoghi, quelli della Mitteleuropa, non sono l’unica cosa dimenticata dopo ben due guerre mondiali sul Vecchio Continente. Tante cose sono state rimosse dalle parti del Carso e di Trieste, da ultima la tragedia degli esuli istriani nel secondo dopoguerra, ma solo su una tra le tante vorrei ci concentrassimo dopo questo breve excursus. Divagazione di cui mi scuso con i lettori ma che è servita brevemente a inquadrare nello spazio, nel tempo e nella nostra mentalità l’oggetto di questo articolo: i soldati italiani, trentini e triestini, che hanno combattuto la Grande Guerra con gli austriaci, che sono morti per l’imperatore o che sono caduti prigionieri, principalmente dei russi.

I primi mesi di guerra per l’Austria-Ungheria furono terribili e decimarono gli effettivi dell’esercito imperialregio. Fino al famoso maggio 1915 gli unici fronti aperti per Francesco Giuseppe erano con la Serbia, rea di aver indirettamente scatenato il conflitto con l’assassinio dell’erede al trono della corona imperiale austriaca, e con la Russia dello Zar, mobilitato contro gli Imperi Centrali in difesa proprio del neonato Regno di Serbia. I soldati di lingua italiana non erano ritenuti elementi politicamente affidabili dallo Stato Maggiore austroungarico e quindi non potevano essere impiegati contro la Serbia, nazionalità emersa dal graduale disfacimento dell’Impero Ottomano, in lotta con tutti i vicini per la propria indipendenza ed egemonia sui Balcani. Quindi vennero destinati, attraverso lunghi viaggi su tradotte, al fronte galiziano.

L’Europa nel 1914.

Giustamente qualcuno si domanderà dove si trovi questa benedetta Galizia sulla carta geografica. In effetti non si trova, oggi. Immaginate che la Polonia sia solo Varsavia, come il ripieno di un panino: la parte costiera a Nord era Prussia, la parte a Sud era Austria Ungheria. Immaginate pure che l’Ucraina non esista e che il confine tra gli imperi di Vienna e Mosca si trovi da qualche parte tra Kiev e Leopoli. Ecco, abbiamo delineato molto spannometricamente i principali confini della Galizia, praticamente la zona di faglia dove finiscono i monti Carpazi e inizia la sterminata pianura che conduce fino agli Urali.

In questa landa, che ai soldati che arrivano dalle Alpi appare veramente desolata, hanno luogo i primi terribili rovesci dell’esercito dell’imperatore Francesco Giuseppe (1830-1916). L’esercito russo, che secondo i calcoli degli Stati Maggiori degli Imperi Centrali avrebbe impiegato settimane a mobilitarsi, era già in parte lì, scompaginando i piani preparati per anni. La rotta è totale e dura per settimane, gli austriaci perdono interi reggimenti e divisioni, almeno fino a quando i tedeschi non sottraggono preziose divisioni del Deutsches Heer al fronte occidentale per sbaragliare i russi nella foresta di Tannenberg.

Del rovescio austroungarico a farne le spese sono la maggior parte dei soldati della leva di Trento e Trieste: morti, sbandati, feriti o fatti prigionieri in massa dall’esercito russo. Nei loro diari si possono leggere storie quasi fiabesche, di un mondo che oggi non esiste più e che sembra inconcepibile. I conflitti sarebbero diventati industriali e totali proprio con la Grande Guerra, ma nelle sue prime settimane in pochi lo avevano capito.

Oggi resta poco di quella esperienza: ci sono i cimiteri realizzati dall’Impero di Vienna, costruiti, come se l’Impero sarebbe durato ancora per secoli, nei dintorni delle battaglie ancora prima del crollo conseguente alla sconfitta militare del 1918. In questi luoghi, con un ordine ed una cura incredibili, sono sepolti austriaci, russi, italiani, cechi, tedeschi, ungheresi, ebrei, polacchi e tutte le svariate nazionalità di quei grandi imperi multietnici in dissoluzione. Inoltre ci sono i diari e le memorie dei reduci che finalmente cominciano ad essere raccolte. Non ci sono invece statue, cippi, elenchi nei paesi del Carso e del Trentino che ricordino questi figli di nessuno: soldati di lingua italiana, di cui gli austriaci si fidavano poco e che gli italiani dopo aver vinto avrebbero preferito non fossero mai esistiti. Meglio tacere, rovinavano la propaganda!

Così a migliaia, anzi decine di migliaia furono catturati dall’esercito zarista e sparsi in tutto il vastissimo impero. Ci sono tante storie, anche diverse tra loro. Ci sono lunghi viaggi in treno, stipati come animali. Ci sono campi di prigionia dove si viveva, e moriva, in condizioni precarie. Cose cui oggi siamo abituati a pensare, dopo averne viste oltremisura nelle guerre del XX secolo. Ci sono però anche prigionieri mandati a vivere e lavorare nei villaggi insieme ai russi, sparsi in tutto l’Impero fino alla Siberia, che si mantenevano lavorando i campi o tagliando la legna nelle foreste, esattamente come i contadini dello Zar. Alla stregua di servi della gleba appunto, come i russi da non moltissimo affrancati. Prigionieri, partiti da piccoli campanili nelle valli alpine e dopo diversi anni rimpatriati per mare attraverso la Cina, che erano arrivati fino all’estremità dell’impero zarista, Vladivostok, attraversando distanze immense, una rivoluzione e anche una guerra civile.

Sarà ancora un lavoro lungo quello necessario a recuperare queste memorie per ridare loro la giusta importanza storica, ma quanto ne sappiamo oggi è sufficiente per riaprire il tema e introdurre il rapporto dell’Italia e degli italiani con i Balcani. Un vicino oggi lontano, vittima dell’ennesima rimozione: si è dimenticata la presenza veneziana lungo tutta la costa dell’Istria, della Dalmazia, della Grecia e dell’Albania; si è dimenticata la pretesa italiana da cui nacque la questione della “vittoria mutilata” sull’Istria e la Dalmazia reclamate al tavolo dei vincitori; si è dimenticato il ruolo italiano nella guerra civile Jugoslava durante la Seconda Guerra Mondiale; si sono dimenticate per troppo tempo le foibe e gli orrori dei partigiani titini ai danni della popolazione di lingua italiana.

A questa rimozione hanno contribuito sicuramente la lingua e cultura slava, così lontane da quella latina e italiana da permettere di considerare facilmente l’area Balcanica qualcosa di lontano dalla nostra esperienza. Una sorta di buco nero nella cartina europea che non si riesce a incasellare nella ricostruzione storica (a posteriori) dell’identità nazionale italiana. Bisognerebbe infatti ammettere che ci furono pretese espansionistiche anche dell’Italietta, che l’altra sponda dell’Adriatico era fino a un paio di secoli fa parte dell’Impero Ottomano, che esistevano Imperi multietnici che sapevano far convivere tra loro diverse nazionalità meglio di quanto abbiano saputo fare gli Stati nazionali nati sulle loro ceneri e, soprattutto, che c’erano italiani, per lingua e cultura, che si sentivano fedeli sudditi della Duplice Monarchia al punto da combattere e talvolta morire per essa.

Nei diari, di cui spero di aver stimolato la lettura, si trova il travaglio di chi, ad esempio, ormai prigioniero in Russia non si decide se accettare la proposta di arruolarsi nell’esercito italiano, tradendo l’imperatore cui aveva giurato fedeltà, in cambio della promessa di venire subito riportato in Italia. Alcuni sceglieranno questa strada, trovandosi così a concludere la guerra con l’uniforme della parte opposta a quella con cui l’avevano iniziata.

Ma sempre nei diari si può leggere, in filigrana perché gli autori la considerano quasi una circostanza scontata, un senso di fratellanza tra il miscuglio di popoli, indifferentemente dal lato della trincea, che si riconoscevano tra loro almeno in due condizioni fondamentali: essere contadini ed essere europei, o forse, più ingenuamente, cristiani. Altro elemento uscito ormai dell’orizzonte laico dell’identità europea.

Siamo da troppo tempo ormai abituati a letture manichee della realtà e della Storia. Se vogliamo accostarci ai Balcani, di oggi e di ieri, per capirne la natura, dobbiamo lasciare questa sciocca e assurda pretesa per guardare liberi da pregiudizi le cose per quello che sono: maledettamente complesse. Solo così potremmo avvicinarci all’essenza del genius loci, posto che ce ne sia uno solo, e riportare la storia di questa luoghi, e le loro genti, nella storia ufficiale dell’Europa per cui tante pagine dei giornali vengono imbrattate ogni giorno.

Bibliografia

Memorie della guerra Austro-Russa 1914. Battista Chiocchetti, Istitut Cultural Ladin CUEM, 1995;


I prigionieri trentini in Russia durante la Prima guerra mondiale: linee e prospettive di ricerca. Simone Bellezza, «Qualestoria» 12/2014;

Diario di guerra di un adolescente. Carlo Pokrajac, Consorzio Culturale Monfalconese, 2006;


I fanti del litorale austriaco al fronte orientale 1914-1918. Roberto Todero, Gaspari, 2014;
Come cavalli che dormono in piedi. Paolo Rumiz, Feltrinelli 2014;

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