Afghanistan: Invaso si, conquistato mai. La storia insegna molto, se si è disposti ad apprendere; tuttavia le recenti vicende dimostrano che non esiste peggior sordo di chi non vuole sentire…E intanto la Cina ne approfitta. Di Roberto Roggero.

Truppe inglesi in Afghanistan.

L’espansione russa in Asia centrale, la cui minaccia per i domini indiani era sovrastimata da Londra, aggiunse motivi di preoccupazione per gli interessi inglesi. I domini zaristi erano arrivati ai confini dell’Afghanistan e, nel 1878, emissari russi si recarono a Kabul per offrire aiuti economici e militari al sovrano afghano. 

La politica britannica verso l’Afghanistan, che dopo l’esito non brillante della guerra di fine anni Trenta si era ripiegata su una posizione di vigile attendismo, definita dagli inglesi “masterly inactivity” (l’apatia dei dominatori), tornò a essere di car attere bellicoso. A Londra si era convinti che occorresse avanzare la linea di difesa dell’India nei confronti di una possibile offensiva russa, e si dovesse quindi occupare parte dell’Afghanistan. Era la linea del governo conservatore di Benjamin Disraeli (1804-1881). 

Nel settembre 1878 la seconda guerra anglo-afghana ebbe un corso simile a quello della prima. Le truppe britanniche raggiunsero Kabul, per poi scontrarsi con una tenace resistenza afghana, che provocò massacri di soldati britannici, finché il nuovo governo inglese guidato dal liberale William Ewart Gladstone (1809-1898) nel 1881 prese la decisione di abbandonare il Paese.

L’Afghanistan non è una terra facile da conquistare, o da “pacificare” (termine in voga attualmente). Il Paese è infatti costituito principalmente da montagne e steppe abitate da tribù da sempre ostili a qualsiasi tentativo di imporre il controllo di un’autorità centrale. Sono gruppi etnici prevalentemente dediti a lotte di potere intestine, fatte di continui cambi di regime all’insegna di tradimenti, assassini e guerre civili, che rivelano una marcata ostilità verso qualsiasi tentativo di imporre un governo stabile, soprattutto se ad opera di una potenza straniera. 

E’ una lezione della storia che solo recentemente l’Occidente sta imparando, pur non assimilandola, dopo oltre 20 anni di guerra e guerriglia mascherata da missione di peacekeeping, anche se prima sono stati i sovietici a giungere alla stessa conclusione, e prima ancora Persia e Inghilterra che, fra ‘800 e ‘900, per ben tre volte tentarono di rendere il Paese un satellite del loro impero.

Per colmo di ironia, tutti questi tentativi sono falliti secondo uno stesso schema: apparente successo iniziale, gravi errori di valutazione del pericolo, prologo a un ritorno di fiamma senza scampo. 

Probabilmente, i più testardi sono stati gli inglesi, che per ben tre volte hanno tentato di conquistare l’Afghanistan, in guerre che sono state, e sono ancor oggi, l’emblema del fallimento del colonialismo britannico e uno dei maggiori disastri della storia militare anglosassone. 

Contesto storico-geopolitico 

Perché l’Afghanistan diventa improvvisamente importante per l’Inghilterra, nella prima metà dell’800? Più precisamente, non era tanto il Paese in sé stesso, ma la posizione geostrategica come punto di passaggio da e per l’India, il grande magazzino e serbatoio del Regno Unito. Qualsiasi tentativo estraneo di penetrazione verso l’India doveva necessariamente utilizzare i valichi dell’Afghanistan, sia da nord, attraverso le steppe dell’Asia centrale, oppure da ovest, dalla Persia. In alternativa, si dovevano affrontare le vallate montane del Pamir e del Karakorum, oppure attraversare l’inaccessibile deserto del Baluchistan. La storia lo aveva ampiamente dimostrato, fin dal XII secolo, quando gli eserciti musulmani tentarono di raggiungere l’India da ovest, poi i Moghul nel XVI secolo, e quindi i Durrani nel XVII secolo. Tutti erano passati attraverso l’Afghanistan. 

L’India era il possedimento più importante per l’Inghilterra, e inoltre costantemente pervasa da movimenti nazionalisti, e quindi profonda preoccupazione per Londra. L’unica possibilità per tutelare gli interessi e l’integrità dell’impero britannico era quindi isolare l’India, prendendo il controllo di tutti gli accessi alla cruciale Valle dell’Indo. 

Realisticamente, la preoccupazione maggiore riguardava le mire dell’impero degli Zar che, dopo avere dimostrato al mondo di essere in grado di respingere niente meno che gli eserciti napoleonici, fino a stabilire nuovi confini occidentali ai danni della Polonia, si stava espandendo verso Oriente, soprattutto in Siberia e nel Centro-Asia dei Khanati, pericolosamente vicino alle linee di difesa esterna dei confini indiani. Né era un segreto che gli obiettivi russi fossero le risorse della valle dell’Indo, e nelle stanze del potere, a San Pietroburgo, vi era la convinzione che la guerra fra Russia e Inghilterra per il possesso dell’India, sarebbe stata alla fine inevitabile. 

Com’è noto, quella guerra fortunatamente non scoppiò, sostituita da una sorta di “gioco delle parti” antesignano della Guerra Fredda, con conflitti paralleli in altre zone, e agenti segreti e spie sparpagliate dalla Persia al Tibet per una mappatura del territorio e per stringere alleanze con i vari capi tribù, in caso si fosse giunti alle armi. 

Nel 1839 la situazione precipita e Londra decide di agire, con lo scopo di ridurre l’Afghanistan a una entità di supporto e difesa della colonia indiana. 

A Kabul, le principali autorità erano tre: l’emiro Dost Muhammad Khan (1793-1863), al potere dal 1826 dopo la cacciata del predecessore Shah Shuajan Khan, seconda autorità che viveva in esilio a Ludhiana, in attesa di qualcuno che lo aiutasse a riconquistare il trono. 

La terza autorità era Kamran Shah Durrani, signore di Herat (1789-1842). Nessuno dei tre, inoltre, nutriva particolari simpatie né per i russi, né per gli inglesi, ma erano pronti a schierarsi da una parte o dall’altra a seconda della direzione da cui soffiava il vento. 

La situazione precipitò nel 1837 quando il capitano e agente segreto russo Jan Prosper Witkiewicz (1808-1839), partì per raggiungere Kabul e negoziare un’alleanza con Dost Mohammed, nel contesto di un piano più ampio che mirava a estendere la sfera di influenza degli Zar in Afghanistan. Al tempo stesso, l’ambasciatore russo in Persia, İvan Osipoviç Simoniç (19794-1851) doveva convincere lo Scià ad allestire una spedizione militare per conquistare Herat, porta dell’Afghanistan. 

Da parte sua, Dost Muhammad stava già intrattenendo contatti con i britannici, perché potevano offrire sostegno da basi vicine nel progetto di riconquista di Peshawar, controllata dal rivale Maharajà del Punjab, Ranjit Singh (1780-1839), mentre il governatore dell’India, Lord George Eden, conte di Auckland (1790-1871) si era orientato con determinazione verso il Maharajà del Punjab, per garantire la stabilità dei confini coloniali, inviando un vero e proprio ultimatum a Dost Muhammad perché rinunciasse a qualunque velleità di conquistare Peshawar, intimandogli anche di interrompere ogni colloquio con emissari russi. Fu un gravissimo errore di valutazione, considerato che, come ogni principe di quei territori, anche Dost Muhammad era una persona estremamente orgogliosa, non disposto a subire oltraggi del genere. Come prima reazione, il padrone di Kabul accolse l’emissario russo, capitano Witkiewicz, con tutti gli onori. 

I contatti a Kabul non furono tuttavia utili alla causa russa, poiché la spedizione persiana contro Herat si risolse in un clamoroso fallimento, soprattutto per la difesa comandata da Eldred Pottinger (1811-1843) tenente dell’esercito britannico e agente del servizio segreto, in missione speciale sul luogo da alcune settimane, vista l’emergenza. 

Londra cercò la soluzione di prepotenza, applicando la cosiddetta “gunboat diplomacy” (diplomazia della cannoniera) contro la Persia, mentre insisteva con lo Zar Nicola I (1796-1855) perché richiamasse tutti gli agenti segreti sparpagliati per l’Asia, minacciando la rottura delle relazioni diplomatiche. Nicola I Romanov, non pronto per affrontare una guerra contro l’Inghilterra, non può fare altro che fare rientrare gli inviati a Kabul, lasciando Dost Muhammad senza protezione ed esposto alle ritorsioni di Londra che, manifestamente risentita per l’atteggiamento del leader afghano, decise di intervenire militarmente e imporre un cambio di governo a Kabul. 

La diplomazia britannica si trovò quindi a decidere chi portare al potere in Afghanistan, prima di intraprendere qualunque spedizione. La scelta era fra Kamran Shah e Shah Shuajan e alla fine fu selezionato quest’ultimo, considerato più malleabile. 

Il piano originale era che Ranjit Singht mettesse a disposizione il suo esercito per restituire il trono a Shah Shuajan, in cambio dell’abbandono di ogni pretesa afghana sulle sue terre; il Maharaja del Punjab però, conoscendo bene la durezza con cui le tribù afghane erano solite difendere la loro autonomia, accampò scuse per sottarsi all’ingrato compito e alla fine gli inglesi dovettero accettare il fatto che, se volevano realizzare l’impresa, avrebbero dovuto scendere in campo direttamente e non per conto terzi. 

Da considerare che il lavoro principale non fu comunque svolto da Londra, ma dall’amministrazione coloniale indiana. In Inghilterra infatti, molti avevano dubbi sull’utilità di una guerra di questo tipo, mettendo in luce costi e rischi, ma sia il governo Palmerston che l’amministrazione si erano ormai spinti così avanti che l’unico cambiamento al progetto fu una minima riduzione della forza d’invasione. 

Questa comunque rimase di tutto rispetto consistendo di quindicimila uomini tra inglesi e indiani al seguito dei quali c’era un secondo esercito di trentamila ausiliari di vario tipo più una carovana di cammelli e una di bestiame. Shah Shuajan seguiva con un suo piccolo esercito composto però da neanche un afghano, ma da indiani al soldo di Londra. 

La prima guerra anglo-afghana 

Nella primavera 1839 questo esercitò passò il confine presso Passo Bolan, mentre in avanguardia avanzava un reparto con alcune casse contenenti oro e valori per corrompere i capi tribù, che però venne attaccato da alcune bande di combattenti, che da sempre infestavano le aree lontane dai centri abitati. A ciò si aggiunsero gli errori tipici di un’operazione male organizzata: l’esercito rischiò infatti la fame perché non si era tenuto conto che le zone attraversate erano colpite della carestia. Il disastro fu evitato con il provvidenziale acquisto di diecimila pecore. Altro elemento che faceva mal sperare era l’ostilità con cui Shah Shuajan era guardato dagli afghani, tutto il contrario dell’entusiastica accoglienza che il responsabile politico-diplomatico dell’impresa, Sir Wiliam Macnaghten (1793-1841) aveva garantito ai suoi superiori in India. 

A Kandahar, prima importante città lungo la via d’invasione, l’accoglienza fu fredda e gli afghani venuti a onorare il nuovo Emiro, durante una grandiosa cerimonia organizzata dagli inglesi, furono solo un centinaio. Era un chiaro esempio di un profondo errore inglese: pur di scegliere un re controllabile, si stava per mettere sul trono una persona con nessun supporto popolare, che sarebbe potuto restare al potere solo se protetto dagli inglesi, ed esposto all’opposizione popolare, con tutte le conseguenze del caso. 

Ghazni, l’obiettivo successivo, era una fortezza poderosa, dove gli afghani non si sarebbero arresi facilmente e senza combattere, com’era successo a Kandahar. Anche qui gli inglesi commisero diversi errori, a cominciare dal fatto che i cannoni necessari all’assedio, erano rimasti a Kandahar. Fu necessario organizzare una diversa strategia, una vera e propria missione suicida, ricorrendo a un commando di giovani ufficiali che si dovevano avvicinare fin sotto le mura di Ghazni e sistemare un certo quantitativo di barili di esplosivo e polvere da sparo per abbattere le porte, che non erano state murate come ci si aspettava. 

Contro ogni previsione, la missione ebbe successo, soprattutto per il coraggio del colonnello Dennie e del tenente Durand, e le truppe inglesi riuscirono a conquistare la fortezza, garantendosi un importante punto di appoggio sulla strada per Kabul, che fu conquistata nel luglio 1839 dopo la fuga precipitosa di Dost Muhammad. Anche nella principale città del Paese, però, l’accoglienza popolare fu decisamente poco incoraggiante, soprattutto per il fatto che si diffuse la notizia secondo cui, durante la battaglia di Ghazni, il nuovo sovrano, Shah Shuajan, aveva fatto uccidere per rappresaglia una cinquantina di prigionieri che lo accusavano di essere un servo della corona britannica e traditore della fede musulmana. Di fatto, tuttavia, se inizialmente il piano inglese era quello di lasciare che Shuajan consolidasse il proprio potere, ritirando le truppe, in un secondo tempo ci si rese conto che, dato lo scarso consenso popolare, era necessario instaurare un regime di occupazione. Lo stesso Shuajan insisteva perché le forze britanniche non lasciassero il Paese. 

Dopo un anno di occupazione, nel novembre 1840, Dost Mohammed si arrese agli inglesi i quali, dispiacendo a Shah Shuajan che lo voleva giustiziare, lo mandarono in esilio in India, per mantenersi una porta di servizio sempre aperta. Pareva insomma che la situazione stesse migliorando, ma era un ottimismo ingiustificato poiché, se il denaro inglese aveva corrotto i principali capi e notabili, la popolazione si mostrava sempre più ostile alla presenza straniera. 

La situazione cominciò seriamente a cambiare quando gli occupanti commisero l’imprudenza di non fare nulla per non offendere il sentimento religioso locale, ad esempio prendendosi per amanti le donne locali, attratte dal lussuoso stile di vita occidentale. 

La tragedia ebbe inizio la sera del 1° novembre 1841 quando una folla prese d’assalto la residenza dell’incaricato britannico, e membro del servizio segreto, Alexander Burnes (1805-1841) nel centro di Kabul, ufficiale odiato sia per i suoi modi libertini sia perché ritenuto l’uomo che aveva aperto la strada all’invasione. Nonostante che la residenza di Burnes fosse vicina agli acquartieramenti e alla Bala Hisar (il palazzo fortificato degli Emiri) nessuno fu inviato in suo soccorso, e la folla poté dare alle fiamme la residenza e massacrare tutti gli occupanti.  

La rivolta di allargò a macchia d’olio, cogliendo di sorpresa il poco capace comandante, generale William George Keith Elphinstone (1782-1842) persona troppo debole e incerta per controllare una situazione del genere. Gli inglesi si trovarono ben presto assediati all’interno dei loro acquartieramenti che, a prova ulteriore della superficialità con cui era condotta l’intera vicenda, erano situati su un terreno paludoso circondato da colline e protetti da un muro d’argilla alto circa un metro. 

Tutti gli storici concordano sul fatto che, se gli inglesi si fossero attivati per reprimere immediatamente la rivolta, questa sarebbe stata soffocata con facilità, ma per non offuscare il programma politico, le autorità di occupazione tentarono ancora la carta della corruzione. I capi tribù accettarono l’oro britannico, salvo poi mettersi completamente agli ordini di Mohammed Akbar Khan, figlio di Dost Muhammad, che aveva assunto il comando della resistenza. 

Con l’arrivo dell’inverno negli acquartieramenti inglesi iniziò a mancare cibo e medicinali, mentre verso la fine di novembre, gli afghani iniziarono a bombardare gli inglesi con due cannoni catturati. Le truppe inglesi riuscirono a cacciare gli insorti dalle colline, poi i soldati di Sua Maestà si trovarono sotto il devastante tiro dei moschetti a canna lunga (jezail), quindi aggirati e messi in fuga a loro volta. Gli inglesi persero 300 uomini e, cosa ben più grave, la fuga fu talmente disordinata che se gli afghani avessero inseguito con convinzione avrebbero potuto fare irruzione nell’accampamento massacrando tutti. 

La situazione peggiorò ulteriormente quando a Kabul giunse la notizia che la spedizione di soccorso da Kandahar aveva dovuto invertire la marcia a causa dell’inverno, ma incredibilmente, quando sembrava che tutto fosse perduto, Mohammed Akbar Khan offrì una tregua. Il giovane principe era consapevole che il padre era ancora in mano inglese in India, per cui ritenne più opportuno a negoziare il ritorno di Dost Mohammed e l’eventuale ritiro inglese. 

Il responsabile della corona, Sir William Hay MacNaghten, accettò la proposta con la speranza di salvare il salvabile, tentando contatti segreti e contando sul fatto che gli afghani avrebbero comunque preferito Shah Shujan piuttosto che il crudele Dost Muhammad, ma fece male i conti. 

Mohammed Akbar fiutò il pericolo e prima che la situazione potesse sfuggirgli di mano decise di ripagare il rivale con la stessa moneta: invitò MacNaghten a un incontro nel quale si sarebbero dovuti concordare nuovi termini, sulla base di una permanenza di Shah Shujan sul trono e con Akbar come Gran Visir, poi ordinò di fare prigionieri gli ospiti, che furono uccisi e i corpi orribilmente mutilati esposti come monito. Ripreso il pieno controllo della rivolta, Mohammed Akbar si preparò a farla finita con gli inglesi visto che neanche l’uccisione di MacNaghten era riuscita a convincere gli occupanti. 

Dopo ulteriori scontri, il 1° gennaio 1842 gli inglesi, ormai allo stremo, firmarono la resa incondizionata e, una settimana dopo, lasciarono Kabul per Jalalabad, a 130 km oltre delle montagne innevate, ma il peggio doveva ancora arrivare. 

La marcia era resa difficile dal fatto che la lunga colonna aveva al seguito un migliaio di civili e le premesse furono da subito evidenti, perché della scorta che Mohammed Akbar aveva promesso per garantire la neutralità delle tribù non vi fu traccia. 

Appena gli inglesi furono usciti dalla città gli afghani iniziarono a sparare e, da quel momento in poi, non passò momento che la colonna non venisse costantemente attaccata. A peggiorare ulteriormente la situazione fu poi il freddo intenso perché gli inglesi erano mal vestiti e con poco combustibile. 

Il secondo giorno dopo l’evacuazione della capitale, Akbar offrì un nuovo accordo: avrebbe aiutato la colonna in marcia placando le tribù ostili dei passi montani e, in cambio, gli inglesi gli avrebbero consegnato tre ostaggi. Incredibile a dirsi, il generale Elphinstone accettò, ma Akbar, fece il contrario di quanto stabilito, mettendo in allarme le tribù delle montagne. Ci furono diverse imboscate, e alla fine i britannici ebbero oltre 3.000 morti, e se alcuni civili poterono sopravvivere fu solo perché Akbar tornò una terza volta chiedendoli come ostaggi in cambio di altre vane promesse. 

Alla metà di gennaio, il generale Elphinstone era rimasto con poco più di 200 soldati e un migliaio di civili al seguito, e decise di recarsi personalmente da Akbar accettando qualunque condizione per garantire la salvezza dei sopravvissuti. Giunto dove credeva si trovasse Akbar, si rese invece conto che il principe afghano non aveva alcun controllo sulle tribù montane, le quali erano attirate dal bottino e accecate dall’odio per l’occupante, per cui non avrebbero mai concesso alla colonna di raggiungere Jalalabad. 

Elphinstone fu fatto prigioniero da Akbar mentre ciò che restava dell’esercito inglese, ovvero i resti del 44° Reggimento, tentò il tutto per tutto riuscendo, a prezzo di pesantissime perdite, a farsi strada per uscire dalle gole, ma solo per trovarsi circondati in campo aperto. A questo punto ebbe inizio la carneficina, alla quale sopravvissero solo in quattro, fatti prigionieri. 

La notizia giunse a Jalalabad portata da William Brydon, medico militare che, con pochi altri (tutti morti durante la marcia), era riuscito a fuggire a cavallo la sera in cui Elphinstone era stato fatto prigioniero. In sostanza, dei 16.000 uomini partiti da Kabul, solo il dottor Brydon sopravvisse. 

La notizia oltrepassò in breve i confini afghani e fu un durissimo colpo per il prestigio coloniale britannico in Asia. Da Londra si cercò di correre ai ripari, imputando ogni responsabilità alla attività sovversiva degli agenti russi sul territorio, ma si cercò anche di organizzare una adatta reazione che mostrasse al mondo come non si potesse ledere il prestigio britannico senza subirne le conseguenze. 

Venne preparata una forza di soccorso alla guida di due generali che, questa volta, sapevano il fatto loro: Sir George Pollock (1786-1872) e Sir William Nott (1782-1845), che entrarono in Afghanistan per proteggere le guarnigioni di Jalalabad e Kandahar e poi, dopo qualche tentennamento di Londra e Calcutta, marciare su Kabul per vendicare l’onore della corona. 

Nel frattempo, nella capitale afghana la situazione era precipitata, Shah Shujan era stato assassinato, e lo stesso Akbar che pure era stato il protagonista della resistenza all’invasore, non aveva saputo reagire alle lotte intestine per la conquista del potere.  

Il 15 settembre gli inglesi rioccuparono Kabul e si vendicarono: il bazar fu raso al suolo, furono recuperati gli ostaggi nelle mani di Akbar (tranne il generale Elphinstone morto di stenti e una donna fuggita con uno dei carcerieri afghani), ma nella successiva metà di ottobre, la bandiera britannica venne ammainata dalla torre del palazzo dell’Emiro e gli inglesi abbandonarono l’Afghanistan. 

Dopo tre mesi di accaniti scontri, Dost Mohammed tornò al governo con la benedizione inglese, in quanto considerato l’unico in grado di ristabilire la pacificazione, mentre a Londra si cercava di riportare in auge il prestigio della corona, che da lì a poco si sarebbe trovava nuovamente nel pantano più insidioso, a seguito del disastro di Isandlwana contro gli Zulù (1879), anche se in realtà i due eventi sono diversi per i risultati ottenuti, poiché la disfatta afghana fu molto maggiore, soprattutto in termini di vite. Inoltre l’incapacità di Elphinstone mise per la prima volta in luce le deficienze del sistema di avanzamento di grado su base aristocratica e della compravendita di titoli e gradi in uso nell’esercito inglese, un sistema che avrebbe a breve mostrato il peggio prima in Crimea e poi durante la grande rivolta indiana del 1857, due conflitti nei quali gli inglesi andarono incontro a pesanti perdite anche a causa dell’incompetenza degli ufficiali in comando. 

La seconda guerra anglo-afghana 

Dopo un simile disastro, militare e politico, ci si sarebbe aspettato che a Londra nessuno volesse più sentire parlare di Afghanistan, invece non fu così. Alla fine del novembre 1878 un nuovo contingente inglese, diviso in tre colonne, entrò nuovamente in Afghanistan. 

Aveva così inizio la seconda guerra anglo-afghana, risolta anch’essa in un clamoroso fallimento, del quale questa volta i russi furono astuti ad approfittare, e che fu il frutto di un clamoroso errore diplomatico. 

In quel periodo, il potere era detenuto da Muhammad Sher Ali, figlio di Dost Muhammad, che aveva preventivamente chiesto al governatorato britannico di Calcutta una alleanza a scopo difensivo. I britannici non solo rifiutarono con sdegno, ma redarguirono pubblicamente Sher Ali per il modo in cui governava il Paese. Il rimprovero ufficiale fu considerato una profonda offesa e una bruciante ferita per l’orgoglio dell’Emiro. 

Il premier inglese Benjamin Disraeli si accorse troppo tardi dello sbaglio e tentò di recuperare, offrendo la disponibilità della corona inglese a firmare il trattato di alleanza, a patto che Sher Ali accettasse una missione inglese che aveva lo scopo di sorvegliare le intenzioni dei russi che, al comando del vigoroso generale Konstantin Petroviç von Kaufman (1818-1882), stata conquistando porzioni sempre maggiori dello sterminato territorio del Turkestan (poi interamente annesso alla Russia e del quale lo stesso Kaufman fu primo governatore). 

Sher Alì, temendo di essere considerato dal proprio popolo un fantoccio britannico, dichiarò di non voler accettare alcuna presenza britannica nel Paese quindi prese tempo. Kaufman, forte della reputazione che si era creato in Asia per il modo con cui aveva realizzato le sue conquiste, decise di inserire l’Afghanistan nella sfera d’influenza russa e inviò una missione a Kabul. Sher Alì tentò di evitarla, ma venne esplicitamente minacciato che sarebbe stato ritenuto responsabile della sua sicurezza. Sotto nuove minacce l’Emiro firmò un trattato di amicizia con i russi, che gli ingiunsero di non accettare missioni inglesi, promettendo anzi di inviargli trentamila uomini in caso di bisogno. 

Gli inglesi non erano intenzionati ad accettare la possibilità che i russi si prendessero l’Afghanistan e così organizzarono una missione, che però fu respinta al confine. Il Viceré dell’India inviò un ultimatum in cui si esigevano le scuse dell’Emiro e l’immediato ricevimento della missione inglese. Quando, com’era prevedibile, le proposte furono respinte, il 21 novembre 1878, circa 35.000 soldati anglo-indiani oltrepassarono i confini afghani, occupando in breve tempo gli strategici passi di Khyber, Jalalabad e Kandahar. 

Sher Alì chiese aiuto ai russi che però voltarono la testa dall’altra parte. Abbandonato dai suoi alleati, Sher Alì abbandonò ogni speranza, morendo in solitudine nel febbraio 1879, lasciando il trono al figlio Yaqub Khan, a lungo avversario del padre, ma anche privo dei forti e necessari appoggi fra i capi tribali. Il nuovo sovrano si affrettò a cercare la protezione inglese e questi, dato che l’invasione si stava impantanando, furono ben lieti di accordargliela, pretendendo però che l’Afghanistan consegnasse a Londra la gestione della sua politica estera, che una missione britannica si insediasse stabilmente a Kabul, e che alcuni territori di frontiera passassero all’amministrazione delle autorità coloniali indiane. Il trattato non fu ben accolto dagli afghani. Alcuni dei più lungimiranti ufficiali inglesi, memori di ciò che era successo in precedenza, espressero dubbi sulla opportunità di imporre una missione permanente a Kabul, ma non furono ascoltati. 

Per comandare la missione a Kabul fu scelto Pierre Luois Cavagnari (1841-1879) ufficiale e diplomatico discendente da uno dei generali di Napoleone Bonaparte, che giunse a Kabul insignito dei poteri di Vicerè il 24 luglio 1879 e si insediò a Kabul in un edificio appositamente preparato all’interno della Bala Hisar, ma dopo appena due mesi le cose iniziarono a precipitare perché numerosi combattenti afghani stavano convergendo in città per pretendere il pagamento di tre mesi di salario rimasti insoluti. 

L’Emiro riuscì a pagare un solo mese, quindi i combattenti si presentarono alla residenza di Cavagnari che, era noto a tutti, disponeva di una ricca cassa. Al rifiuto dell’ufficiale inglese di pagare, gli afghani reagirono con lanci di sassi, la guardia inglese rispose aprendo il fuoco, e a questo punto accadde l’irreparabile. Il palazzo fu attaccato in forze, gli insorti persero circa 600 uomini, ma alla fine tutti gli occupanti massacrati. 

Per la seconda volta, in pochi anni, un gruppo di ufficiali inglesi veniva trucidato a Kabul ma, in questa occasione, al comando della guarnigione inglese non vi era un debole e anziano generale Elphinstone, ma l’energico conte Frederick Roberts (1832-1914) considerato il miglior soldato britannico dopo il Duca di Wellington, che senza perdere tempo riunì un esercito, rioccupò Jalalabad e Kandahar e si preparò a marciare su Kabul, da dove Yaqub Khan tentò di trattare, ma Roberts non volle sentire ragioni e, ai primi di ottobre, entrò nella capitale afghana, fermamente deciso a vendicare Cavagnari. Le rappresaglie non si fecero attendere: nei primi due giorni, non meno di cento afghani furono impiccati, fra cui il sindaco di Kabul. 

La spietatezza del generale Roberts fu aspramente criticata sia in Europa che negli ambienti dell’amministrazione coloniale a Calcutta, e vista come elemento che avrebbe fatto precipitare ancor più la situazione. Previsione azzeccata: ai primi del dicembre successivo, migliaia di afghani di diverse tribù cominciarono a convergere su Kabul, ma Roberts invece di attendere passivamente, portò i suoi 6.500 uomini in un accampamento ben difendibile fuori dalla città, preparandosi a reagire. Gli afghani avevano il vantaggio del numero, ma non della tecnologia: i nuovi fucili a retrocarica e le mitragliatrici Gatling imposero la superiorità inglese e, dopo quattro ore di scontri, stando alle stime di Roberts, non meno di 60.000 afghani erano stati uccisi, mentre gli inglesi avevano perso poco più di una quindicina di soldati. 

La vittoria comunque non risolse il problema perché era evidente che la popolazione non avrebbe mai accettato un padrone straniero. Gli inglesi, da parte loro, non potevano permettersi una nuova ritirata. Muhammad Yaqub Khan (1849-1923) aveva abdicato rifugiandosi in India e il Paese era di fatto governato da Roberts, ma un’annessione all’impero britannico era fuori discussione. Fu a questo punto che, da Samarcanda, rientrò in Afghanistan alla testa di un manipolo di seguaci Abdur Rahman Khan (1844-1901, nipote di Dost Muhammad), che si proclamò legittimo Emiro.  L’azione era stata favorita dai russi che speravano di mettere in difficoltà gli inglesi, ma questi, dimostrando per una volta lungimiranza, intuirono che Abdur Rahman non era né a favore dei russi, né della corona britannica, ma pronto ad appoggiarsi a chiunque lo avesse aiutato ad ottenere e mantenere il trono. Si decise quindi di trattare e Abdur accettò che, in cambio del trono e del ritiro inglese, avrebbe accettato una missione diretta da un agente musulmano come rappresentante britannico e non avrebbe intrattenuto relazioni diplomatiche con nessun altro che non fosse il Regno Unito. 

Il nuovo Emiro fu abile a dissimulare presso il popolo l’accordo come un grande successo personale, grazie al quale gli inglesi avevano lasciato l’Afghanistan. Fu anche astuto, intuendo che mostrarsi esplicitamente amico della Gran Bretagna sarebbe stata una condanna a morte, quindi inscenò un’abile pantomima per nascondere la vera natura del rapporto. 

In effetti, gli inglesi avevano necessità di lasciare Kabul, sia perché a Londra il nuovo governo Gladstone aveva deciso l’abbandono della politica aggressiva anti-russa in Asia, sia perché a Kandahar si erano manifestati importanti problemi. La guarnigione inglese era infatti assediata da Muhammad Ayyub Khan (1857-1914) governatore di Herat e cugino del nuovo Emiro, di cui sperava di poter prendere il posto. Una forza di 2.500 soldati, fra inglesi e indiani, era stata inviata a intercettarlo, ma mal diretta e priva d’informazioni sulla consistenza del nemico dovette ritirarsi per non essere annientata, dopo aver comunque inflitto grosse perdite. 

Nel frattempo, Roberts, che si stava preparando a rientrare in India, appena saputo ciò che stava succedendo si mosse a marce forzate coprendo 500 km di territorio ostile in appena venti giorni. Temendo la vendetta inglese, Ayub Khan si ritirò e provò a negoziare, ma il generale inglese non era intenzionato a lasciare impunita l’offesa e, il giorno dopo il suo arrivo a Kandahar, decise di dare battaglia. 

Non fu uno scontro facile perché gli afghani avevano una buona artiglieria ma, dopo una giornata di combattimenti, gli inglesi ottennero la vittoria al prezzo di soli 30 morti, a fronte di oltre 600 nemici uccisi.  Per un po’ gli inglesi pensarono di tenere una guarnigione di presidio a Kandahar, poi decisero di offrire la città a Abdur Rahman per facilitare il consolidamento del suo potere. Sebbene iniziata con le peggiori premesse la seconda guerra anglo-afghana si concluse con un risultato sostanzialmente positivo per Londra: la minaccia russa in Afghanistan era stata allontanata, e il Paese era governato da un Emiro energico, che aveva accettato di gravitare nell’orbita inglese pur con precisi limiti. Inoltre la Gran Bretagna lasciava l’Afghanistan senza avere subito rovesci, soprattutto sul piano del prestigio internazionale. Tuttavia, nonostante i successi, gli inglesi avevano dovuto accettare una sistemazione non esattamente in linea con le loro aspettative iniziali. Il Paese si era infatti dimostrato ancora una volta ostile a qualsiasi tentativo di stabilire una presenza inglese di qualsiasi tipo al suo interno, e Londra aveva dovuto riconoscere piena autonomia ad Abdur Rahman nella gestione degli affari interni afghani. 

Di fatto, dovendo scegliere fra un accordo imperfetto e un pantano infinito, i britannici avevano scelto la prima soluzione, in quanto sufficiente a garantire un Afghanistan stato cuscinetto fra India e Russia, ciò che stava più a cuore al governo di sua maestà. D’altra parte era comunque preferibile a una insurrezione che non si sarebbe potuta soffocare con facilità perché, a meno di un grande impiego di forze che avrebbe però lasciato completamente sguarnite altre frontiere.

Con il trattato anglo-russo del 1907, la questione afghana giunse a una conclusione, seppure provvisoria, poiché in Europa era sorta la necessità di fronteggiare il comune nemico tedesco, e il ritorno al governo inglese dei liberali, favorevoli al dialogo con lo Zar. Tale questione portò Inghilterra e Russia ad accordarsi per una delimitazione delle rispettive sfere d’influenza in Asia, e l’Afghanistan fu riconosciuto dai russi come territorio satellite del Regno Unito. Tale riconoscimento implicava il fatto che se lo Zar avesse voluto interagire con Kabul, doveva necessariamente passare per Londra. 

Il trattato, comunque, non rese l’Afghanistan un problema più facile per gli inglesi in quanto, durante la Grande Guerra, tanto i tedeschi quanto i turchi inviarono missioni a Kabul con lo scopo di spingere l’Emiro ad attaccare la colonia britannica in India, con l’obiettivo di distrarre forze inglesi dal fronte occidentale e orientale. Berlino accarezzava l’idea di una grande rivolta indiana e islamica anti-britannica. 

Gli afghani non furono completamente sordi alle proposte esterne, ma infine ritennero che né i tedeschi né i turchi sarebbero stati nelle condizioni di portare un concreto aiuto se gli inglesi avessero deciso azioni di rappresaglia. 

La terza guerra anglo-afghana 

La situazione cambiò radicalmente nel febbraio 1919, quando l’Emiro Habibullah Khan (1872-1919) venne assassinato e, dopo una breve lotta di potere, gli successe il terzogenito Amanullah Khan (1892-1960) intelligente, ambizioso e fermamente intenzionato a restaurare l’autonomia del Paese. Senza perdere tempo il nuovo Emiro si presentò al Governatore generale dell’India come capo del libero e indipendente governo dell’Afghanistan, cosa che implicava il non riconoscimento del trattato fra Londra e Kabul firmato dopo la guerra del 1878-1880, né il trattato anglo-russo del 1907. 

Con tale soluzione, Amanullah Khan rivelava nel contempo anche l’intenzione di attaccare la colonia inglese in India, parallelamente a una grande sommossa popolare della popolazione indiana che paralizzasse qualsiasi reazione britannica. 

Gli afghani però si mossero con troppo anticipo e, ai primi del maggio 1919, passarono il valico di Khyber per occupare una serie di villaggi di frontiera, dando inizio alla terza e ultima guerra anglo-afghana. 

I britannici furono comunque colti totalmente impreparati, anche perché fra il 1919 e il 1921, praticamente tutto il mondo arabo si era sollevato contro le decisioni unilaterali di Francia e Inghilterra che, nell’intenzione di spartirsi la torta musulmana dopo il crollo dell’impero ottomano, avevano fatto “i conti senza l’oste”, soprattutto in aperto contrasto con le molte promesse fatte in precedenza. 

La confusione fu padrona della situazione, mentre Londra cercava una figura abbastanza forte da poter imporre al Medio Oriente filo-britannico, puntando su Ismail Enver Bey Pascià (188-1922) che però era sempre più orientato verso la Russia. 

Temendo che l’azione di Amanullah Khan potesse incoraggiare gli indiani alla rivolta, ed essendo sempre più forte la preoccupazione per l’alto numero delle bande di “estremisti musulmani”, gli inglesi decisero per una reazione immediata, ordinando alle truppe di frontiera di contrattare. 

Immediatamente dopo, iniziò una serie di combattimenti e piccole battaglie isolate lungo il confine, che non portarono a nulla se non a una diffusa ostilità dell’opinione pubblica inglese per il continuo spreco di risorse, mentre il Paese era appena uscito dalla prima guerra mondiale in condizioni economiche precarie. 

Verso la fine di maggio gli afghani furono costretti a lasciare l’India, ma nonostante ciò le truppe inglesi non erano sufficienti per una successiva penetrazione in Afghanistan, così si tentò di costringere Amanullah alla pace, sfruttando la superiorità tecnologica, con alcune dimostrazioni della neonata Royal Air Force che operò qualche sortita contro le truppe afghane, il cui unico armamento contraereo erano i fucili a canna lunga. Furono poi effettuati bombardamenti dimostrativi su alcune città, che spinsero l’Emiro ad accettare i negoziati, nella consapevolezza comunque di potersi sedere al tavolo delle trattative in una posizione molto più forte rispetto a quella dei suoi predecessori. 

L’8 agosto 1919 venne firmato il Trattato di Rawalpindi, con il quale veniva riconosciuta la totale indipendenza dell’Afghanistan anche nell’ambito della politica estera, e contro le aspettative dell’amministrazione dell’India che aveva sperato di mantenere almeno in quell’ambito un certo controllo. 

Le preoccupazioni britanniche su una pericolosa apertura di Kabul verso l’URSS fu poi confermata dalla decisione di Amanullah Khan, nel 1921, di concedere ai sovietici l’apertura di una sede diplomatica ufficiale. Londra tentò di riaprire un dialogo con l’Emiro per convincerlo a rivedere la politica estera, ma Amanullah non fece concessioni. 

Un’analisi a posteriori 

Ciò che più sorprende, nel ripercorrere le vicende delle tre guerre anglo-afghane, è come il loro svolgimento ricordi, negli elementi fondamentali, le successive esperienze sovietiche e occidentali in Afghanistan, fino agli ultimi recenti sconvolgimenti. Tanto i sovietici quanto la Coalizione occidentale sono entrati in Afghanistan fondamentalmente convinti che, dopo la vittoria militare, sarebbe stato solo lavoro di pacificazione e stabilizzazione; invece dopo qualche anno di stallo, improvvisamente ci si accorgeva che la maggioranza del Paese era contro gli occupanti e iniziava così una guerriglia spietata, sufficiente a trasformare il Paese in una inestricabile palude per ogni occupante straniero. 

Come gli inglesi, i sovietici, e quindi americani e alleati, oggi oi siamo costretti a chiederci se sia possibile ottenere una vittoria in Afghanistan, intesa come un completo raggiungimento degli obiettivi prefissati, o se invece non si debba scegliere tra un negoziato al ribasso e la palude. 

A monte di ogni ragionamento e considerazione, e anche degli stessi Talebani, o della cosiddetta “esportazione della democrazia” (espressione giustificativa come fu la salvezza della cristianità in occasione delle Crociate), lotta al terrorismo e via dicendo, esiste una verità incontrovertibile, imposta dalla storia: gli afghani sono un popolo diviso, spesso legato più alle confederazioni tribali che a una nazione in senso occidentale, ma unito e coeso di fronte a invasioni esterne, e sono pronti a trovare una provvisoria unità d’intenti pur di combatterlo. 

La storia insegna ben poco se non si è disposti ad apprendere, e per questo stupisce che, fin dai primi giorni di “Enduring Freedom”, non ci si sia chiesto perché due delle più grandi potenze, Impero britannico e Unione Sovietica, non siano riuscite ad avere la meglio su “una disordinata massa di montanari e pastori” spesso in guerra fra loro… 

Il ‘nuovo’ Afghanistan ‘talebano’ accoglie le truppe di Pechino.

Gli USA fuggono da Kabul e la Cina ne approfitta.


Come ha spiegato Umberto De Giovannangeli (https://www.globalist.it/intelligence/2021/10/03/) dopo la ‘fuga’ degli Usa da Kabul, il Gigante cinese inizia ad occuparsi occuparsi dell’Afghanistan. Tre giorni fa, forze militari cinesi sono atterrate a Bagram e ne hanno occupato la base aeronautica, fino a due mesi fa in mano agli americani. Non si conoscono ulteriori dettagli sulle dimensioni dell’operazione. L’intervento cinese rientrerebbe nel quadro degli accordi tra Pechino e i talebani per la ricostruzione dell’Afghanistan. Una presenza militare nella base simbolo delle attività americane nel Paese assume un valore strategico per la Repubblica Popolare cinese che così rafforza il suo potere di controllo sul governo talebano. L’arrivo dell’aereonautica cineseche ha illuminato la notte nella base di Bagram,è stato salutata con grande entusiasmo da tutti i massimi esponenti talebaniche si aspettano un pronto aiuto economico miliardario in un paese stremato dalla fame e dalla disoccupazione.  Una settimana fa, gli inviati speciali di Cina, Russia e Pakistan sull’Afghanistan hanno visitato Kabul ieri e oggi “incontrando funzionari governativi ad interim afghani”. Lo ha riferito nel briefing quotidiano il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino Zhao Lijian, aggiungendo che “hanno avuto discussioni approfondite e costruttive sugli sviluppi in Afghanistan, in particolare su inclusività, diritti umani, questioni economiche e umanitarie, relazioni amichevoli tra l’Afghanistan e i Paesi stranieri, in particolare i Paesi vicini”. Gli inviati speciali di Russia, Cina e Pakistan concordano di mantenere contatti costruttivi con i Talebani dopo l’incontro di Kabul. Lo fa sapere il ministero degli Esteri russo, citato dalla Tass.  Zhao, in seguito, ha fornito maggiori dettagli dicendo che gli inviati hanno incontrato il premier ad interim, il mullah Muhammad Hassan Akhund, e hanno discusso con i funzionari afghani del recente sviluppo della situazione nel Paese, dell’inclusione, dei diritti umani, dell’economia e delle relazioni con i Paesi vicini. Durante la loro visita, gli inviati hanno visto l’ex presidente afghano Hamid Karzai e il capo del Consiglio nazionale per la riconciliazione Abdullah Abdullah, parlando “della promozione della pace e della stabilità in Afghanistan”. Yue Xiaoyong, l’inviato cinese per l’Afghanistan, ha ribadito la politica di Pechino di “non interferenza negli affari interni dell’Afghanistan” e il suo ruolo costruttivo svolto “nella soluzione politica delle questioni afghane”, ha concluso Zhao.

Bibliografia 

“Il Grande Gioco – I servizi segreti in Asia centrale” – Peter Hopkirk,  

“Pace senza pace – Caduta dell’Impero ottomano e nascita del Medio Oriente moderno” – David Fromkin;  

“History of the First Afghan War” – Sir John Kaye; 

“Retreat from Kabul: The Catastrophic British Defeat in Afghanistan” – Patrick Macrory; 

“Arrogant Armies: Great Military Disasters and the Generals Behind Them” – James Perry. 

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