Jacob Burckhardt, conservatore o democratico? di Giuseppe Moscatt.

Un testo famoso dell'Autore.

1. Il personaggio. Un uomo tranquillo.

La recente ripubblicazione del saggio storico La civiltà del Rinascimento in Italia dello Jacob Burckhardt, curata da da Franco Cardini per la collana Rinascimento per i tipi del Corriere della sera (2022), riapre le molteplici discussioni sul famoso intellettuale svizzero e docente di storia dell’Arte a Basilea fra il 1853 ed il 1897, dove morì emerito fra un numero di studenti che ne osannarono l’opera per tanti decenni del secolo decimo nono. Prima di entrare nel merito delle sue opere – al cui centro sta appunto il saggio di cui si disse – qualche cenno biografico, visto che mai come in questo scrittore l’unità di vita e di etica sia stato così evidente. Sappiamo che il padre, eminente pastore protestante di Basilea, dopo averlo mandato a studiare a Norimberga con lo storico più famoso dell’epoca – Lepold von Ranke, che gli inocula la teoria della storia universale – lo riammette a casa a Basilea a condizione che studi Teologia. Cosa che ad un giovanotto appena ventenne – era nato nel 1818 – non passa del tutto, tanto che nei due anni di seminario protestante, il giovanotto si dedica alla poesia elegiaca, dove sfoga l’amore  per la Natura e per l’Arte, quasi un novello Leopardi rinchiuso in un ambiente molto riservato per soli uomini. Poi però nel 1838 viene fuori lo studioso, quando pubblica una dozzina di articoli sulle cattedrali svizzere  piene di osservazioni critiche rispetto a quelle gotiche che osserva in Baviera, quasi anticipando i giudizi innovativi che maturerà sul ‘500 italiano. Inoltre, fa una ulteriore visita a Berlino dove rivede Ranke e l’architetto Kugler, nel cui salotto incontrerà il giovane Giovanni Morelli, col quale scambia notevoli esperienze sul tema dell’attribuzione dell’opera d’arte e suoi motivi connessi alle tracce dell’autore sconosciuto, ulteriore passo avanti nella crescita del suo pensiero sul Rinascimento. Storia, Filosofia ed Arte vengono assorbite in una pregevole miscelatura di immagini e giudizi che gli fanno pubblicare a Basilea nel 1844 due saggi sulle opere d’arte del Belgio, sul Duomo di Basilea, ed un Manuale di storia dell’arte tedesca, che ancora oggi può essere utilizzato nelle scuole superiori. E tanto fu il successo culturale raggiunto che Jacob diviene poco dopo ordinario di due corsi a Basilea stessa, storia e storia dell’Arte, insegnamenti che lo vedranno assoluto cultore in Svizzera e di pari livello ai critici della Germania e dell’Europa, arrivando ad oscurare perfino il Maestro Ranke. Sebbene la serena permanenza a Basilea per un altro mezzo secolo sia una caratteristica che lo paragona a Kant, che da Königsberg non si allontanò mai; tuttavia nei pochi viaggi di studio che compì in Italia nei decenni successivi, il modello da lui seguito è quello del romantico viandante, o meglio del pellegrino Lutero che con la bisaccia ed il bastone visita Firenze e Roma e poi dal 1883 il Nord Italia ed il Lago Maggiore, ammirando la gloriosa e fascinosa architettura italiana ed i luoghi  a spasso con il diario di Goethe e le poesie del Platen e di Heine.

E la fortuna dell’arte italiana nacque con tre capolavori: la citata Civiltà del Rinascimento in Italia (1860); la Storia dell’architettura in Italia (1867) ed il notissimo Il Cicerone (1855), una guida delle opere d’arte più importanti d’Italia, dove Jacob formula per la prima volta il suo giudizio storico più famoso e più controverso, vale a dire  che come sboccia uno splendido fiore in mezzo al deserto; così è nato il Rinascimento in Italia all’interno del Medio Evo più buio. Nondimeno, sempre fra il 1844 ed il 1892, Jacob frequenta nella sua città di origine ed a fianco di una dialettica infaticabile nella Università, una miriade di circoli culturali e di associazioni di intellettuali dove ha l’opportunità di passare dall’arte antica alla moderna, da Napoleone I a Manzoni, da Omero a Schiller, da Carlo Magno a Rubens. Una raccolta di relazioni difficilmente eguagliabili che lo rende celebre conferenziere ed invidiato dal nostro De Sanctis e del pari cultore del sapere che fu in Inghilterra il Carlyle. Le memorie su Rubens e la storia della cultura greca uscirono dopo la morte nel 1898, ma il Carlo Martello del 1840 e L’età di Costantino il Grande del 1853, dimostrano ancora l’ampiezza della sua versatilità di pensiero storico ed artistico, quasi di che l’un sapere altro non era che la manifestazione dell’altro. Una capacità di comunicazione che esplose con la Civiltà che è e sarà a lungo considerata la più organica e la più bella delle sue opere. Nelle sue tante giornate di studio, intervallate da lunghe passeggiate solitarie nei giardini di Basilea, folle di studenti e di cittadini lo aspettano alle sue conferenze con il desiderio di educare l’animo alla conoscenza delle grandi opere ed alla divulgazione del genio, come Napoleone che amava parlare ai suoi soldati prima delle grandi battaglie. Ed uno di quegli ascoltatori, Friedrich Nietzsche, resterà estasiato e ne tenterà  la divulgazione al mondo. Ma questo approccio costituirà la croce e la delizia della sua recezione nel ‘900. Jacob, narrano coloro che lo praticarono, restava un uomo tranquillo, un passeggiatore curioso che gode calmo e pacifico sotto il sole dell’Urbe, ma altrettanto attento nel rilevare i conflitti dall’esistere.

2. Burckhardt e Nietzsche: amici o nemici?

Nel 1893, ad ormai 74 anni, un colpo al cuore gli preclude l’insegnamento. Chiuso in casa a riposo, nondimeno pone mano a ricerche fondamentali, come nelle Considerazioni sulla storia universale, frutto delle idee del Ranke nel suo aspetto generale; nonché la citata Storia della civiltà greca che traduce in linguaggio storico le idee neoclassiche di Winckelmann e Goethe. In verità queste ultime opere – raccolte da due fedelissimi biografi, Hans Trog e Werner Kaegi – intendevano rispondere alle accuse della scuola storica hegeliana e poi positivista di stampo sociologico, da Weber a Sombart, secondo la quale le sue opere sul Rinascimento italiano altro non erano che un’interpretazione letteraria, magari estetizzante, ma non tecnicamente storica. E che era troppo soggettiva la separazione fra Medioevo ed il Rinascimento. Ma soprattutto, Jacob – uomo schivo, tutto casa e chiesa, di alto sentimento morale e che addirittura considerava delinquenti prodigiosi i Signori italiani – rileva che i Nobili umanisti avevano avallato fin dal ‘400 la pratica di mantenere gli artisti nelle loro Corti sfruttando le frequenti crisi economiche della nascente borghesia produttiva. Quei Signorotti – per esempio i Papi di Roma – avevano sovvenzionato artisti dal calibro di Michelangelo e Raffaello nell’edificare opere e palazzi magnifici a Firenze in ed in Italia nei secoli d’oro, come dirà oggi Montanelli. Ora però entra l’ingombrante presenza di Nietzsche. Divenuto anch’egli docente di filologia a Basilea nel 1863, esce estasiato dalle lezioni di Burckhardt, di cui approva in generale le cautele di un interprete della storia al modo di Hegel, contro coloro che credono di fare la storia con riga e compasso, senza penetrare il groviglio di interessi e valori che circondano la società di ogni tempo. Friedrich viene a Basilea dopo la rottura con Wagner, modello culturale amato più di tutti, come disse alla sorella a Weimar poco prima di finire in manicomio. Ma quando quell’esempio paterno si adatterà al mondo borghese della rinuncia e della rassegnazione, alla decadenza dell’arte che si fa Biedermaier, cioè conformismo di massa e secolarizzazione, dove non c’è più amore ed arte innovativa; allora il pessimismo cosmico di Nietzsche sembra trovare pace e speranza alternativa in questo professore che non vuole figli, che critica la disumanità europea capitalista, rilevandone la rottura verso un’epoca buia illuminata a sprazzi dalle Arti. Benché la riservatezza di Jacob persistesse, ci fu un momento in cui i due sembravano veramente amici: nel 1871, durante la Comune di Parigi, una voce – poi dimostratosi falsa – sconvolse il professore di Weimar. I Comunardi hanno distrutto il Louvre!  Una falsa notizia che convinse Jacob a dare ascolto al lamento di Friedrich. I due a Basilea – dopo anni di fuggevoli incontri – si abbracciarono in pubblico. Dopo l’iniziale fervore però le differenze emersero negli anni a venire. Certamente, il terreno comune era la reciproca fuga dal mondo di massa e da quella rumorosa cagnara che era la democrazia parlamentare che la Repubblica francese  esprimeva dopo i fatti della Comune. Ma il simbolico cammino comune ed il silenzio del Maestro di fronte alle velleità del discepolo di vita eterna alla giornata, non riuscivano a farli convivere. Il modello di conservatorismo del Burckhardt cozzava col volontarismo esasperato del Nietzsche. I nemici di Friedrich, Wagner, Bismarck, il Cristianesimo, la Filologia scientista; non erano nemiche di Burckhardt. Infatti Wagner era amato dallo Jacob perché aveva rianimato dal passato il sentimento umano primordiale ed autentico dell’uomo con forme musicali di rottura del classico senza precipitare nel demoniaco preferito dal filosofo di Weimar. Poi Bismarck aveva riportato l’ordine nell’Europa frantumata dalla Grande Rivoluzione. La filologia era comunque necessaria, se non sufficiente, dando atto che non c’è meta senza particolarità. Ed infine la morte di Dio non poteva essere accettabile da chi credeva nella speranza di Resurrezione dell’uomo, nel solco di Paolo e di Agostino. Benché fosse critico alle idee di progresso della Storia ed avvertisse, sull’onda di Vico, come questa soffrisse di paure e di regressioni culturali e sociali, non gli veniva meno la necessità di ritrovare la memoria del passato e la ricostruibilità di dati e di nozioni che gli consentissero la rilettura del presente e la predizione del futuro. Nietzsche però reagiva con formule estreme: per esempio le famosissime nozioni di superuomo e di eterno ritorno, ma anche di dionisismo alternativo all’apollineo, come nel caso della Nascita della tragedia. Come poteva Jacob accettare una morale così rivoluzionaria? Egli era figlio dell’illuminismo, un professore, non un profeta. Se poi da Torino gli giungeva una missiva firmata Dioniso il crocifisso, il buon senso del padre di famiglia gli fa ormai pensare che Fritz era ormai un pazzo, sia pure geniale, che gli chiedeva un aiuto impossibile. Meglio eratornare con i piedi per terra, che conservare non è male, riconoscendo che l’Uomo nel suo complesso va sempre riportato alla luce. Ecco perché Jacob si mette a tavolino e riscopre Rubens, un uomo come lui per tutte le stagioni. La profezia di Nietzsche può attendere.

3. Attualità di Burckhardt.

Ma ritorniamo al cuore delle idee di Burckhardt, già evidenziata col Cicerone, cioè la realizzazione di una storia critica e popolare delle opere d’arte italiane. Fedele al suo principio originale, che l’arte di una Nazione passa per la sua cultura e che dunque la storia è figlia dell’architettura, della pittura e della plastica; la Civiltà è un pregevole tentativo (Versuch) di riassumere le coordinate di una realtà organica riassunta con colori vivi di un’età irripetibile, il sedicesimo secolo, scelta estetica simile alla collaudata analisi del Viaggio in Italia del Goethe. E tuttavia, come si disse, il c.d. Rinascimento appare a Jacob ed al lettore della sua Civiltà – un incidente di rotta che portò il mondo ad un salto di qualità, non necessariamente però a quel Progresso che la storiografia storicista riteneva di essere accaduta proprio in quel secolo. Anzi il ‘500 gli appare il momento in cui accade un fenomeno raro, cioè il momento in cui la Storia si è fatta Arte; dove la libertà artistica diviene libertà politica. Fu un fatto positivo o negativo? Jacob giudica l’età di Raffaello, Michelangelo e Leonardo un fatto nuovo, una vittoria dello Spirito umano. E del pari, nel 1871, con la proclamazione dell’Impero Tedesco, si è per lui verificata invece la vittoria della politica materialista, quando la Massa si è fatta storia a danno dello Spirito, anche se il ritorno all’ordine, dopo le tante rivoluzioni ha visto in Bismarck un governante migliore rispetto a quelli dell’odiata Francia liberaldemocratica. Qui la sua freddezza contro la storiografia del Mommsen di stampo hegeliano sembra cedere. Infatti, proprio nella famosa lezione del 7 novembre del 1871 – ascoltata ed interpretata positivamente dal Nietzsche – Burckhardt qualifica il Rinascimento italiano il punto di mediazione fra la nostalgica società collettivista medievale a trazione della Chiesa cristiana e la deprecata società di massa democratica borghese, divenuta a lui insopportabile per il profondo materialismo che la regola. Invece, il secolo d’oro sarebbe stato quel ‘500 dove comparve una classe politica di tiranni assoluti, mecenati ed artisti della politica, astuti e delinquenti – come li definiva l’amato Machiavelli – che riuscirono a conquistare lo Spirito umano pur mantenendo il monopolio del delitto: si pensi ai Borgia, al Papa Alessandro VI ed al Valentino, ma anche Ezzellino III da Romano, che egli qualifica come delinquente impunito d’alto bordo, ma che aveva il pregio di reprimere la delinquenza diffusa, procurando però la sicurezza all’artista ed al popolo. Salvare lo Spirito di bellezza, senza preoccuparsi della vita sociale e della esistenza quotidiana. Già in passato era ciò  avvenuto, come nel caso dell’Atene di Pericle e della Roma di Costantino, anche se la Firenze del Magnifico e la Weimar di Goethe non erano mai precipitate nell’oscena gazzarra del mondo che lo attorniava, tutto meccanizzato al servizio del denaro. Ora  queste considerazioni morali, se in prima battuta influenzarono il giovane Nietzsche, permettono di intravvedere una differenza di vita adottato dal secondo come si vide. Vale dire la perfidia del Tiranno che perpetua il potere col bastone e con la carota, dando al popolo panem et circenses, fuori da ogni velleità apparente di violenza coercitiva. Tale era la riforma della politica bismarckiana: la domanda di un ritorno all’età aristocratica ben diversa era la ricetta per la massa, da governare senza alcuna mediazione che privilegiasse l’Arte, ormai avviata ad una logica perversa oppositiva, esposta alla morte dell’artista, come sarà diagnosticato da Thomas Mann nel secolo successivo della decadenza, nel senso di un sostanziale antiumanesimo finale che giustificherà le tentazioni conservative esposte nelle Considerazioni dell’impolitico dal 1918. Ma venendo infine ad oggi, cosa c’è di attuale nello storico svizzero? Al netto del suo controverso rapporto col maestro del sospetto di Weimar – come ebbe a definirlo Paul Ricoeur, accoppiando Nietzsche a Marx ed a Freud – negli ultimi anni c’è da rilevare una renaisssance di Burckhardt. Benché il primo ‘900 avesse riaperto la sua scuola al di là delle critiche storiciste tedesche – per esempio quelle opposte di von Harnack e di Croce, solidali nella critica perché Burckhardt aveva osato negare una qualche filosofia della Storia, riducendo lo storico a mero osservatore del caso concreto – sarà una scuola sempre più numerosa di Medievisti – con in testa lo Huizinga – a verificare come il Rinascimento non fosse solo un periodo di rottura col Medioevo e che invece il ‘500 altro non era che un Autunno del lungo periodo successivo alla caduta dell’impero Romano. E lo Chabod delimiterà alla Riforma la vera mediazione fra il Medio Evo ed il Rinascimento rinvierà all’età razionalista di Cartesio, Vico e Leibnitz la vera rottura del Medio Evo, limitandolo ai dieci secoli dalla fine di Roma, cioè dal quarto secolo dopo Cristo al quindicesimo, dove si osserva la formazione degli Stati Nazionali rispetto ai secoli bui della magia e delle barbarie, come li definì Voltaire. Tuttavia, oggi è altrettanto parere comune la continuità fra quei secoli, sebbene abbia subito tali e tante cesure da giustificare anche la tesi della pluralità di società alternativa alla comune lettura  unitaria di stampo illuminista. Non ha per Noi torto lo Chabod quando afferma, a commento della bellezza del fiore rinascimentale nel deserto medievale, che il gotico ed il bizantino furono il giardino all’interno del deserto, ovvero che quei stili architettonici rappresentano la luce fra il buio del Medio Evo e lo splendore del Rinascimento. Nasceva così la distinzione fra alto e basso medioevo, a significare l’unità della coscienza cristiana da Costantino a Lorenzo, resa vivente dallo spirito del Monachesimo e del Francescanesimo. E dunque perché criticare la suggestiva sintesi che diede Buckhardt – la maggior parte degli stati italiani era strutturata al suo interno come un’opera d’arte, come creazione consapevole, dipendente dalla riflessione, fondata su opere individuate in questo libro – individuando il vero momento di frattura nella Rivoluzione francese del 1789, mentre esalta le Chiese descritte dall’Alberti e prende ad esempio il Principe del Machiavelli. Certamente, Jacob non fu un democratico, ma neppure trascese a letture passatiste od avveniriste. Amò piuttosto il messaggio di Nicolò Cusano, di Erasmo, di Moro e di Vasari. La Concordantia oppositorum, il pensare per contrari, l’utopia ed il disincanto, il ritrovare l’Universale nel Microcosmo. Ecco le coordinate, le lenti da adottare oggi di fronte alla riflessione di chi tende a dimenticare lo spirito totalizzante dello storico svizzero spesso riletto in chiave esclusivamente soggettivista. E dunque, uscendo dagli opposti poli della democraticità e del conservatorismo, di fronte al Genio che lo incarna facendone un originale interprete della natura vista dall’Arte, perché non vedere in lui un capo scuola ancora insuperato?

Bibliografia:

Oltre ai testi citati, per approfondire la rinascita odierna di Buckhardt, vd. MANFRED POSANI LÖWENSTEIN, Burckhardt e Nietzsche Cinque studi, Edizioni della Normale, 2018 e MAURIZIO GHELARDI, Il Rinascimento italiano, Civiltà ed Arte, Einaudi, 2023.          

Per le scuole contemporanee che considerano il Rinascimento un periodo originale nella continuità, vd. EUGENIO GARIN, Medioevo e Rinascimento, Laterza, Bari, 1961.

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