Nagorno Karabakh: su una guerra infinita l’ombra di un nuovo genocidio (Prima parte). Di Emanuele Aliprandi.

Il teatro di guerra.

Dopo l’accordo tripartito che il 9 novembre 2020 aveva posto fine all’ultima guerra fra armeni e azeri,[1] molti osservatori politici erano ottimisti riguardo a una evoluzione positiva del secolare contenzioso per il controllo della regione del Nagorno Karabakh (Artsakh). Il presidente azero Aliyev aveva dato una spallata ai negoziati diplomatici che si erano sviluppati dopo la fine della prima guerra degli anni Novanta e aveva scelto la più rapida delle armi per risolvere il contenzioso.

Dei 150.000 abitanti armeni ne erano rimasti circa 120.000 di cui la metà circa a Stepanakert. Gli azeri avevano conquistato la storica città di Shushi (Șușa) e quella di Hadrut e avevano ottenuto il controllo di tutta la frontiera con l’Armenia; l’accordo tripartito prevedeva che la regione armena (ormai completamente isolata) avesse un collegamento con l’Armenia attraverso il corridoio di Laçin presidiato dai soldati russi della forza di pace. Tutto lasciava intendere che ulteriori negoziati avrebbero potuto portare a una pace definitiva salvaguardando il diritto all’autodeterminazione degli armeni dell’Artsakh nel poco di territorio a loro rimasto in cambio di uno sviluppo regionale del commercio e dei trasporti. Con la benedizione, non disinteressata, di tutti i principali attori internazionali.

Tuttavia, l’autocrate presidente dell’Azerbaigian ha dimostrato di non accontentarsi dell’importante risultato raggiunto e ha continuato ad alimentare dalla fine della guerra in poi una politica e una retorica aggressiva rivolta non solo verso la popolazione rimasta e l’autorità di Stepanakert, ma anche nei confronti dell’Armenia stessa. Yerevan, duramente colpita da un conflitto costatole quasi 4000 soldati, ha dovuto subire nuovi attacchi azeri che hanno interessato i suoi confini. In buona sostanza, il contenzioso si è spostato verso ovest: Aliyev ha cominciato a rivendicare come “terra storica azerbaigiana”, le regioni del sud Armenia (Syunik e Vayots Dzor) per assicurarsi una continuità territoriale con l’exclave del Nakhjivan e quindi con la Turchia, di fatto realizzando il sogno dei Giovani Turchi dell’impero Ottomano.

Ha inoltre rivendicato vaste porzioni del bordo orientale del Paese confinante e, a più riprese, compiuto operazioni militari occupando oltre 200 km2 del territorio dell’Armenia (che, detto per inciso, è membro del Consiglio di Europa) arrivando a bombardare anche insediamenti civili lontani diversi chilometri dal confine che hanno provocato centinaia di morti. Per la definizione dello stesso sono in corso da quasi tre anni trattative che ad oggi non hanno portato alcun risultato. Le parti si sarebbero anche accordate, con la mediazione di Mosca, per utilizzare le carte di epoca sovietica ma non vi è intesa su quale prendere a riferimento sicché la situazione resta precaria al punto che l’Unione europea ha inviato una missione di monitoraggio (euma) al fine di scoraggiare, con poco successo, nuove violazioni del cessate-il-fuoco.

Invece che avviarsi attraverso un percorso di costruzione della fiducia fra le parti, l’ultimo dopoguerra è stato caratterizzato invece da un crescendo di tensione e dalla mancata risoluzione di molti problemi (fra i quali non possiamo dimenticare quello dei prigionieri armeni ancora detenuti a Baku nonostante l’accordo e le convenzioni internazionali). E la situazione nel piccolo Nagorno Karabakh-Artsakh, che a fatica stava cercando di riprendersi dai lutti e dalle distruzioni della guerra, è andata peggiorando con il passare del tempo fino agli ultimi drammatici risvolti.

Artiglieria armena in azione.

Oscurata dalla cronaca quotidiana sulla guerra in Ucraina o da crisi emergenti vicine e lontane (il sempre incandescente Kosovo qualche mese fa o l’attuale situazione in Niger) nella piccola regione del Caucaso meridionale si sta consumando una tragedia che pure dovrebbe interessare – per vincoli storici, culturali e religiosi – anche l’Italia. In un’area politicamente strategica sia per l’Europa che per l’Asia, si è passati in pochi mesi da un problema “politico” (ovvero la dicotomia tra diritto all’autodeterminazione armena e integrità territoriale azera) a un problema di carattere “umanitario” con una situazione che peggiora di giorno in giorno.

Tutto è cominciato lo scorso dicembre quando alcuni presunti “eco-attivisti” (che altri non erano se non soldati azeri in abiti civili e funzionari di governo) hanno bloccato la strada di collegamento per Laçin impedendo così di fatto il transito a cose e persone. All’improvviso, il Nagorno Karabakh si è ritrovato completamente isolato dal resto del mondo. Come se non bastasse, a più riprese e poi definitivamente, l’Azerbaigian ha bloccato la linea elettrica ad alta tensione che, proveniente dall’Armenia, passa in territorio sotto controllo dell’Azerbaigian; stessa operazione di sabotaggio per il gas.

La popolazione locale si è ritrovata in pieno inverno senza la possibilità di riscaldarsi, di cucinare cibi o lavarsi con acqua calda; l’elettricità viene assicurata dai pochissimi impianti idroelettrici rimasti sotto controllo armeno dopo la guerra, fra i quali il bacino idrico di Sarsang (600 milioni di mc) presto svuotatosi in conseguenza del consumo per la produzione di energia. Stepanakert e tutto l’Artsakh vivono da mesi quotidiani programmati blackout elettrici. Il passaggio di persone e di modici quantitativi di prodotti è stato assicurato dal comando dei peacekeeping di Mosca, mentre la Croce Rossa Internazionale provvedeva al trasporto dei malati gravi in strutture ospedaliere attrezzate in Armenia.

Ad aprile il blocco dei “manifestanti” è stato tolto e al suo posto istituito dall’Azerbaigian un checkpoint all’ingresso del corridoio di Laçin che teoricamente dovrebbe essere di esclusiva competenza dei soldati russi. Il 15 giugno, l’Azerbaigian ha sigillato ermeticamente il corridoio di Laçin: da quella data non entra nella regione neppure uno spillo e, non senza molti problemi, è assicurato solo parzialmente il trasporto dei malati.[2] La situazione precipita rapidamente. Si esaurisce il carburante e cessa la circolazione dei mezzi pubblici e privati, i trattori nei campi (peraltro oggetto dei colpi dei cecchini azeri che ostacolano la raccolta) sono fermi e così da agosto anche le macchine di pompaggio dell’acqua potabile.

Tra azeri e armeni una guerra infinita.

Si svuotano i negozi, mancano medicinali, prodotti per i bambini e l’igiene personale, anche trovare un dentifricio è impossibile. Di notte centinaia di persone si mettono in fila per acquistare la razione di pane che, come quasi tutti i prodotti, è contingentata e si ottiene solo con appositi coupon. Si sopravvive nelle campagne grazie all’orto di casa, ma con l’autunno la situazione peggiorerà anche lì.

Il 15 agosto, mentre la tradizione italica ci vede impegnati in pranzi e cene di Ferragosto, arriva la notizia del primo morto per malnutrizione, un quarantenne di Stepanakert. Risoluzioni del parlamento europeo, sentenze cogenti della Corte internazionale di giustizia (organo delle Nazioni Unite), appelli di parlamenti nazionali non sono riusciti a smuovere Aliyev e dopo 270 giorni il blocco del Nagorno Karabakh-Artsakh continua inesorabile con la popolazione sempre più allo stremo. Oltre una ventina di autotreni con circa 400 tonnellate di aiuti umanitarie è bloccata all’ingresso del corridoio, lato armeno, e non riceve l’autorizzazione al transito da parte dei soldati dell’Azerbaigian. Un’altra decina di mezzi, inviati dalla Francia, si è incolonnata in attesa di un improbabile via libera azero.

Nel frattempo, l’Azerbaigian cerca di far arrivare alcuni aiuti attraverso la rotta di Aghdam: ma la motivazione “umanitaria” è ovviamente un pretesto e gli armeni considerano i due autotreni fermi al “confine” orientale alla stregua di un cavallo di Troia. Non a caso un giornalista azero, in una sua corrispondenza dal luogo dove una quarantina di “volontari” della Mezzaluna Rossa presidiano i camion (nuova versione degli “eco-attivisti” di dicembre…), ha gioco facile nel dire che gli armeni sono a un bivio: o muoiono di fame o accettano gli aiuti e quindi vengono integrati, fagocitati, dentro l’Azerbaigian. In un prossimo intervento analizzeremo la strategia di Aliyev e le ragioni politiche che al momento impediscono una soluzione pacifica nel Nagorno Karabakh/Artsakh, i rapporti tra Armenia e Russia nonché le azioni di Stati Uniti e Unione Europea nel Caucaso meridionale dove, inevitabilmente, lo scenario di alleanze politiche è condizionato dalla guerra in Ucraina.


[1] Il 27 settembre le forze armate dell’Azerbaigian attaccano lungo tutta la linea di contatto la repubblica de facto del Nagorno Karabakh (Artsakh). Dopo 44 giorni di violenti combattimenti, gli azeri – spalleggiati logisticamente dalla Turchia – costringono le forze armene a una resa. La firma della stessa (tra Aliyev, Pashinyan e Putin in funzione di garante) consegna all’Azerbaigian tutti i distretti che si trovavano al difuori dell’ex oblast’ di epoca sovietica (nkao) nonché ampie porzioni dello stesso. La piccola repubblica armena si riduce a un fazzoletto di circa 3000 km2 intorno alla capitale Stepanakert.

[2] A inizio luglio viene sospesa questa operazione umanitaria perché i soldati azeri di controllo rinvengono su uno dei mezzi con insegna della Croce Rossa dei pacchetti di sigarette e delle batterie per cellulare. A fine luglio, uno dei pazienti trasportati, viene sequestrato dalle autorità di frontiera in quanto accusato di “crimini” nella guerra del 1992. A fine agosto, tre ragazzi ventenni vengono arrestati perché, in quanto calciatori della locale squadra del Martuni, uscendo dallo spogliatoio dello stadio, nel 2021, avrebbero calpestato una bandiera dell’Azerbaigian.

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