Storia e Giurisprudenza. L’involuzione della tecnica legislativa e la questione dell’uniformità giurisprudenziale nel centenario dell’unificazione della Corte di Cassazione. Di Corrado Marvasi.

La Legge.

Il titolo in epigrafe interessa i poteri più “incisivi” dell’ordinamento che non sempre si sono trovati d’accordo su riforme, interpretazioni ed indirizzi del sistema giuridico nel suo complesso: il legislativo ed il giudiziario. Può, anzi, dirsi che gli stessi nella storia e nella geografia dell’umanità, li troviamo posizionati in alternante prevalenza circa la formazione e la conseguente applicazione del comando normativo[1].

È ovvio che tali dissidi non esistevano allorché il sovrano, in una dimensione assolutistica, incarnava ed assorbiva, asservendola, ogni autorità (tipica l’espressione L’etat c’est moi, lo “Stato sono io” di Luigi XIV), sicché, sciolto da ogni controllo, poteva in totale libertà decidere della sorte dei sudditi. Ed, invero, sono sempre stati questi ultimi i soggetti passivi del malfunzionamento, vale a dire (venendo all’oggi) della cattiva comunicazione fra i summenzionati poteri.

D’altronde, è sotto gli occhi di tutti che non passi legge di particolare rilievo che interessi (o solo ipoteticamente possa interessare) l’ordine giudiziario, senza che si registrino opinioni contrarie, opposizioni, pur verbali, ma sempre sentite ed ufficialmente manifestate attraverso comunicati di una o più sue associazioni, poiché la magistratura è anche questa, ossia la suddivisione in varie componenti, indubbiamente espressive di un indirizzo politico.

Lo stesso Calamandrei scriveva che non può impedirsi ad un magistrato di avere un proprio orientamento (così in Studi sul processo civile, vol. VI, Padova, 1957, pag. 27, secondo cui sul giudice, come sul giurista, agisce sempre “l’influsso di ragioni non confessate neanche a sé stesso, di simpatia o di repugnanza inconsapevole, che lo guidano in anticipo quasi per intuizione a scegliere, fra più soluzioni giuridiche che il caso comporta, quella che corrisponde a questo suo occulto sentimento”, spiegando subito dopo che nelle pronunce si trovano motivazioni adattate “a posteriori a una decisione già presa, a una scelta già fatta in anticipo, per motivi sentimentali prima che logici”).

È, peraltro, innegabile che pensarla (del tutto) all’opposto significherebbe estraniare l’interessato dal tessuto in cui vive ed opera. Ciò vale in primis riguardo a chi è istituzionalmente incaricato di decifrare, con lo strumento del diritto, il costume e la sua evoluzione nelle relazioni interpersonali sottoposte al suo esame, anche se – va aggiunto – la creazione di (e l’appartenenza a) una certa “corrente” comunica l’idea di una precostituzione concettuale, con il rischio di ricadute negative sul principio della sua indipendenza ed imparzialità.

Non vogliamo entrare nei dettagli che appartengono alla cronaca anche recente dei contrasti di cui la stampa, con diverse spiegazioni, ci tiene al corrente, ma è lampante che qualcosa inceppi il delicato meccanismo generando instabilità e dibattiti all’infinito.

Peraltro, se ripercussioni non vi fossero, specie tra gli “addetti ai lavori”, sarebbe ancor peggio, dovendosi allora dar conto di un’assuefazione ad un deprecabile stato di cose: la magistratura, così come deve essere autonoma, altrettanto non può limitare l’attività di chi siede in Parlamento o che su delega ne esercita la funzione. Siamo al cospetto di un principio fondamentale della democrazia, per il quale si fa riferimento al Montesquieu[2], ma di cui vi è traccia pure in civiltà del passato. I cittadini eleggono i rappresentanti che fanno le leggi, alle quali sono sottoposti tutti, senza eccezione alcuna; i giudici, svincolati da ogni condizionamento, le interpretano alla luce dei fatti sui quali statuiranno in termini assolutori o condannatori avverso i relativi protagonisti; l’esecutivo, in ossequio alle leggi ed ai provvedimenti assunti dagli organi giudiziari, amministra il buon andamento della res publica nei rapporti interni ed internazionali[3]. Evidente, nella sfera delle attribuzioni costituzionalmente disegnata, l’apporto interattivo che emerge tra i tre poteri.

Orbene, è fin troppo scontato che, quando le responsabilità de quibus vengono intaccate (rischiando di “saltare di casella”), si creano i dissidi ed il malfunzionamento di cui si diceva, con i consociati che, lungi dall’essere gli arbitri delle loro scelte, (ri)divengono sudditi e passivi osservatori di una lotta tra poteri ed, in fin dei conti, di coloro che tali poteri personalmente esercitano. Una situazione del genere merita un chiarimento, così come un chiarimento lo meritano i ruoli e le attività di quanti, nell’ambito delle proprie sfere di operatività, dovrebbero agire nell’esclusivo interesse dei consociati per il perseguimento del bene collettivo.

Il punto di partenza, innanzitutto logico, non può non riguardare le leggi: da questo e solo da questo deve in linea di principio aspettarsi l’emanazione delle norme che regolano i rapporti tra i privati e con la Pubblica Amministrazione (di cui anche la magistratura è espressione), mentre solo in casi particolari un simile compito può essere espletato dal Governo. Chi ha una minima conoscenza in materia, ben sa che una così rilevante regola, costituzionalmente sancita (v. artt. 76 e 77), viene sempre più spesso superata e che l’emergenza sembra bussare troppo di sovente a discipline decretate in modo raffazzonato con modifiche, abrogazioni, sovrapposizioni temporali che ne posticipano od anticipano l’entrata in vigore (così con la riforma Cartabia, anticipata dal 30 giugno al 28 febbraio 2023), ove non solo ai naturali destinatari, ma altresì agli esperti è non di rado impedita una coerente interpretazione del quadro normativo.

Diciamolo infatti subito: non sono i tecnici a dover per primi godere di un piano sistema di leggi, ma lo sono, appunto, i cittadini, indipendentemente dalle professioni svolte. A costoro va, infatti, garantita l’accessibilità alle fonti del diritto, ostacolata da modelli di riferimento affastellati dalle dianzi citate sovrapposizioni, palese segno di disinteresse, quando non di incapacità, a tenere aggiornata e rispettare un’agenda delle scadenze per dar riscontro alle necessità degli elettori. Viene in tal modo spezzato il rapporto di fiducia con gli eletti laddove costoro non danno riscontro al mandato ricevuto.

Siamo di fronte ad un problema molto più pratico ed esiziale di quanto appaia d’acchito, dal momento che crea dubbi su come giornalmente conformarsi in date situazioni, fino ad incertezze se adire o meno l’autorità giudiziaria, ovvero ad intempestive iniziative processuali od a contegni che le possono incoraggiare. E ciò, come anticipato, senza considerare le difficoltà e le difformità ermeneutiche in grado di innescarsi tra magistrati, avvocati e consulenti nel loro insieme. Anche la Pubblica Amministrazione con i suoi funzionari è messa in crisi dall’accennato, a volte bulimico, metodo di emanazione delle leggi.

La Corte di giustizia non ha mancato di precisare l’importanza del principio, affermando l’obbligo degli Stati di emettere disposizioni “sufficientemente precise ed accessibili, in modo da non rendere impossibile o eccessivamente difficile la determinazione (n.d.r.: nello specifico), da parte del datore di lavoro, degli obblighi cui dovrebbe conformarsi” (v. Corte giustizia UE, sez. V, 23 novembre 1999, n. 369, in Mass. giur. lav., 2000, 212). Di identico tenore è altra sentenza, per la quale precisione, chiarezza e quindi accessibilità sono caratteri ineludibili delle leggi, in modo da consentire ad ogni cittadino di uniformare ad essi le proprie condotte (v. Corte giustizia UE, 25 marzo 1985, in Riv. dir. internaz., 1987, 131, resa a proposito di esercizio delle libertà di espressione).

La scarsa tecnica normativa di cui si sta discutendo è insospettabilmente prodromica di un altro fenomeno, vale a dire la parcellizzazione delle competenze professionali, poiché gli “esperti”, appena usciti da un particolare e più frequentato comparto, vengono a trovarsi in difficoltà nel fornire pareri che siano in linea con una legislazione ed una giurisprudenza attendibili per evidenza ed affidabilità.

Tanto non avveniva in passato, ove un iscritto all’ordine forense era di solito occupato in più ambiti del diritto. Oggi, al contrario, l’esasperata specializzazione costringe il privato a reperire (e lo stesso accade, per diversi motivi, in ambito medico) l’avvocato che tratta, pressoché in via esclusiva, il determinato settore. La disorganicità, che non emergeva dai codici di anni addietro, è una delle cause del fenomeno che induce d’altra parte molti professionisti ad associarsi (anche) al fine di non disperdere la clientela.

Ulteriore conseguenza negativa va individuata nella perdita da parte della Cassazione del proprio ruolo d’indirizzo interpretativo. Si tratta di una perdita, pur parziale, ma sempre emblematica dell’affastellamento normativo, oltre che di una spiccata autonomia assunta dai magistrati di merito rispetto ai dicta della S.C. Non mancano, al riguardo, le argomentazioni tese a motivare le eterogeneità che a livello decisionale vengono così a determinarsi; eterogeneità che non possono estraniarsi dal principio del libero convincimento del giudice, tanto da riscontrasi tra le sezioni della stessa S.C. Resta, comunque, il dato di fatto che il cittadino, così come il consulente, non può contare su un orientamento rassicurante.

È superfluo ricordare che quello nomofilattico è il ruolo istituzionale della Corte di legittimità, ossia, dalla radice stessa della parola nomofilachia, salvaguardare l’uniforme interpretazione delle leggi. Ciò è tanto vero che tale Corte, inizialmente “giudicante” in più macroregioni, dal 1923 (esattamente da cento anni con l’anno corrente) siede solo a Roma[4]. Fu sempre il Calamandrei ad insistere, in innumerevoli scritti, per la concentrazione nella capitale di un unico organo cui affidare il predetto compito, così esplicitato nell’art. 65 del r. d. n. 12/1941: “la corte suprema di cassazione, quale organo supremo della giustizia assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni … ha sede in Roma ed ha giurisdizione su tutto il territorio … soggetto alla sovranità dello Stato”.

Dal descritto quadro, discende dunque l’esigenza di un chiarimento in grado di riportare ordine all’interno delle competenze tra i vari poteri, sì da evitare “invasioni di campo”, oltre che dignità ed autorevolezza alla classe politica, depoliticizzando la magistratura, la cui autonomia ed indipendenza non è certo in pericolo e ciò grazie all’autogoverno esercitato attraverso il CSM; un’indipendenza dal potere esecutivo per la quale combatté per primo il giovane Mortara ne “Lo Stato moderno e la giustizia”, opera fondamentale di civiltà giuridica, che vide la luce nel 1885 quando lo stesso era appena trentenne[5].

E poi vi è la questione delle lungaggini, sia processuali, sia di adeguamento alle deliberazioni assunte dagli organi sovranazionali d’indirizzo normativo; una questione che ha spesso portato l’Italia a doverne rispondere nell’ambito dell’Unione europea, che considera tali lungaggini un endemico problema del Bel Paese. Ma questa è tutt’altra faccenda.


[1] Per un approfondimento sulle due famiglie di common e civil law (l’una d’origine romanistica e l’altra anglosassone, nelle quali primeggiano rispettivamente la legge scritta ed il precedente reso dalle Corti), rinviamo a P.G. Monateri, in Sistemi giuridici comparati, a cura di A. P. Mirabelli di Lauro, Torino, 1997.

[2] Cfr. del Montesquieu l’opera De l’esprit des lois (Lo spirito delle leggi), un classico risalente, com’è risaputo, alla metà del XVIII secolo, diffuso sul mercato editoriale in vari formati.

[3] Si è avuto modo di precisare che ci troviamo al cospetto di un organo costituzionale di indirizzo politico ed amministrativo, “posto al vertice dell’intera organizzazione amministrativa dello Stato, legato da rapporto fiduciario con le Assemblee legislative direttamente rappresentative del popolo, di fronte alle quali può quotidianamente esser chiamato a rispondere” (così Corte cost., 22 gennaio 1970, n. 6, in Foro it., 1970, I, 361).

[4] All’epoca della proclamazione nel 1861 dell’unità d’Italia, si avevano cinque Corti di cassazione che occupavano nell’ordine i decaduti regni: di Sardegna e Lombardo-Veneto (sede Torino); del granducato di Toscana (sede Firenze); delle Due Sicilie (sedi di Napoli e Palermo); nonché lo Stato pontificio (sede Roma).

[5] Opera reperibile per i caratteri ESI – Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992.

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