Agincourt: una vittoria contro ogni pronostico. Enrico V d’Inghilterra, al comando di un esercito flagellato da epidemie e diserzioni, riuscì non solo ad attraversare la Manica, ma a vincere le forze francesi e riunire i regni di Francia e di Inghilterra. Di Lorenzo Utile.

Raffigurazione pittorica della battaglia di Agincourt, 1415.

Fino al 25 ottobre 1415, la località di Agincourt, non lontano da Calais, era sconosciuta alla storia. Quel giorno divenne celebre come teatro di una accanita battaglia, il cui esito pareva totalmente scontato a favore dell’esercito francese del re Carlo VI di Valois, detto “le Bien Aimé” o “Le Fou” (1368-1422), e che invece fu decimato e rovinosamente sconfitto dal giovane re d’Inghilterra, Enrico V (1386-1422) il quale, nonostante abbia regnato solo per nove anni, fu protagonista di un’azione politico-militare a tal punto significativa per l’Europa, da renderlo uno dei più popolari sovrani del Medioevo.

La battaglia di Agincourt è ancora oggi una delle più celebrate dalla storia e dalla letteratura britannica, come uno dei maggiori trionfi della Guerra dei Cent’Anni, insieme agli scontri di Crecy e Poitiers, tanto che il grande drammaturgo William Shakespeare (1564-1616) fece del giovane re inglese il protagonista di una delle sue più riuscite opere teatrali.

Gli avvenimenti sono inoltre giunti fino a noi da fonti storiche dirette, fra cui Jean Le Fevre de Saint-Remy (che prese parte alla battaglia), Enguerrand de Monstrelet, e dall’opera “Gesta Henrici Quinti” di autore anonimo, probabilmente uno dei cappellani al seguito di re Enrico.

Lo spregiudicato Enrico

Enrico V di Monmouth divenne sovrano d’Inghilterra nel marzo 1413, quando aveva 25 anni, rivelando inaspettate doti eccezionali dal punto di vista politico, amministrativo e organizzativo. Ansioso di non deludere le aspettative, era intenzionato ad affermarsi anche come re guerriero, per superare in gloria e prestigio i predecessori, soprattutto Edoardo III (1312-1377). Come primo provvedimento decise di regolare una volta per tutte la questione dei Lollardi setta religiosa così chiamata dal latino “lolium”, e quindi “mormoratori e seminatori di discordia”, nata ad Anversa nel 14° secolo, durante una forte pestilenza. Nell’occasione, dopo aver formato una sorta di confraternita ispirata a Sant’Alessio, i Lollardi si dedicarono alla cura degli appestati, al seppellimento dei cadaveri e al conforto degli infermi mediante preghiere e rituali religiosi.

In Inghilterra, il termine fu poi utilizzato per indicare, con intento dispregiativo, i Poveri Predicatori, movimento politico-religioso, attivo fin dallo scisma anglicano, seguaci del teologo John Wycliffe (1324-1384) che si batteva per la riforma della Chiesa romana.

I Lollardi furono perseguitati a causa del carattere sovversivo delle loro idee, molti subirono il martirio, ma il movimento non si estinse del tutto.

A seguire, Enrico sventò anche una congiura di palazzo contro il trono e, per affermare il proprio potere, cominciò a interessarsi alla successione dinastica della corona francese, partendo da una questione territoriale irrisolta, che culminò proprio con la battaglia di Agincourt, in particolare con lo scopo di affermare la assoluta sovranità del proprio casato, i Lancaster.

Considerando che Enrico vedeva la guerra come il solo “giusto processo” per risolvere le questioni con la Francia, la situazione era d’altra parte favorevole: Carlo VI, afflitto da demenza, si era dimostrato inabile al governo, e il Paese era preda dell’anarchia e funestato dalle rivalità interne fra Borgognoni e Armagnacchi che miravano al trono.

Il “pomo della discordia” era il territorio della Alta Normandia, e il recupero di vecchi diritti dinastici accampati, quasi un secolo prima, da Edoardo III. Già a partire dal settembre 1413, Enrico V intraprese un’audace politica estera, approfittando delle gravi fratture interne in terra di Francia, fingendo di voler rinnovare il trattato di pace, con la vera intenzione di tenere sotto controllo l’evoluzione della politica interna francese. Il leader dei Borgognoni, il duca Giovanni Senza Paura, fu il principale interlocutore del sovrano inglese, tanto che fra il 1413 e il 1414 furono intavolate trattative matrimoniali fra il giovane re e una figlia del duca di Borgogna.

L’alleanza prevedeva che, nel caso in cui Enrico avesse attaccato la Francia, Giovanni sarebbe rimasto neutrale e lo avrebbe riconosciuto come re, se Enrico avesse vinto. Sull’altro fronte, Enrico rivendicò il trono di Francia, chiedendo in sposa Caterina, la figlia di Carlo VI, proposta che fu rifiutata per i titoli avanzati dal re d’Inghilterra.

Alla fine del maggio 1415, approfittando del degenerare degli eventi in Francia, Enrico V tornò all’offensiva, avanzando richieste territoriali inaccettabili: la Normandia, il Ponthieu, il Maine, l’Anjou, la Touraine, il Poitou e, infine, l’Aquitania in base ai termini del trattato di Bretigny del 1360, con l’aggiunta della Provenza. I rappresentanti francesi, sapendo che la Francia non era pronta a un conflitto aperto con l’Inghilterra, cercarono di controbattere concedendo la “signoria legale” dell’Aquitania piuttosto che la “sovranità diretta”, pagando un pesantissimo tributo. Tuttavia, come i predecessori, Enrico era disposto a rinunciare se i francesi avessero riconosciuto le pretese inglesi sull’Aquitania e altre terre, come previsto dallo stesso Trattato di Brétigny, oltre al pagamento, ancora in sospeso, del riscatto per la liberazione del re francese Giovanni II (catturato a Poitiers nel 1356) pari a 1,6 milioni di corone e, infine, con la mano di Caterina di Valois, una dote di 2 milioni di corone e, di conseguenza, il trono di Francia.

I francesi risposero offrendo il matrimonio con Caterina, 600.000 corone e una Aquitania ampliata nei suoi domini ma, nel frattempo, il Parlamento inglese aveva raddoppiato la tassa di sussidio del re, affinché egli potesse recuperare i domini francesi e, il 19 aprile 1415, Enrico chiese al Gran Consiglio di sovvenzionare la spedizione in Francia, richiesta che fu accettata. Al logico rifiuto da parte francese, Enrico dichiarò guerra e procedette con l’allestimento dell’esercito.

Guerra in Francia

Grazie al benestare del Gran Consiglio della Corona, Enrico ebbe a disposizione grandi mezzi per allestire la spedizione, e oltretutto ben informato, tramite spie e informatori, sulle condizioni interne della Francia. Tuttavia, un regno come quello oltremanica era difficile da sottomettere, ed era quindi necessaria una grande forza combattente, oltre a una flotta che, al momento della dichiarazione di guerra, Enrico non aveva. Erano infatti solo sei le navi a disposizione, ma dopo soli due anni, i cantieri navali di Southampton avevano messo a disposizione del re dodici grandi navi. Per ingrandire ulteriormente la flotta, furono poi acquistate diverse imbarcazioni dall’Olanda, finché si giunse a un numero sufficiente.

Il secondo requisito era naturalmente un esercito adeguato, che ancora non c’era. Enrico convocò i nobili del regno e affidò loro il compito di reclutare soldati in tutta l’Inghilterra, promulgando inoltre una legge apposita per la “coscrizione obbligatoria temporanea”, ma non fu ancora abbastanza e quindi chiese prestiti in denaro a diverse città, offrendo in contropartita la corona d’oro del defunto Riccardo II (1367-1400). Furono poi chiamati alle armi anche i religiosi e tutti i componenti del clero, e fu anche varata una tassa per l’allestimento dell’esercito che, alla fine, era composto da 12.000 fanti e arcieri e 20.000 cavalieri, anche se ad Agincourt combatterono solo 6.000 soldati.

Il 13 agosto 1415 la flotta inglese giunse a Cap de la Hève, foce della Senna non lontano da Le Havre e, pochi giorni dopo, l’esercito di Enrico pose l’assedio a Harfleur, per avere un porto sicuro e capiente dove ricevere rincalzi e rifornimenti.

A Parigi si credette che la città, con le sue possenti mura e le difese rafforzate, avrebbe resistito ad ogni attacco e invece, contro ogni aspettativa, la città venne presto a mancare di generi alimentari, oltre al diffondersi di epidemie di dissenteria, che però cominciarono a colpire anche le truppe inglesi.

Harfleur si arrese alla fine del settembre successivo ed Enrico decise di proseguire l’avanzata contro il parere dei suoi comandanti, i quali consigliavano di asserragliarsi nella città, lasciare passare l’inverno e approfittarne per prepararsi al meglio. Per guadagnare tempo, Enrico fece anche sapere al figlio del re, e Gran Delfino di Francia, Luigi di Valois (1397-1415), che era disposto a risolvere la questione in un singolo duello, proposta naturalmente rifiutata.

Lasciato a Harfleur un presidio di circa 1.300 uomini, il malconcio esercito inglese diede inizio alla marcia verso Calais con poco più di 6.000 soldati (5.000 arcieri, un migliaio di fanti e pochi cavalieri).

Da Parigi, intanto, era stato diramato lo stato di allarme, e i nobili avevano risposto alla chiamata della corona, con circa 9.000 uomini che si raggrupparono a Rouen in ottobre, al comando del Duca di Berry, del Duca di Alençon e dei Duchi di Angiò e Borbone, tutti agli ordini del Grande Connestabile Carlo I di Arbret (1370-1415).

L’esercito francese si mise a sua volta in marcia, cercando di tendere imboscate per indebolire il nemico, ma senza risultati apprezzabili, finché giunse in Piccardia, sul corso della Somme, ottenendo che gli inglesi rinunciassero ad attaccare Calais e costringendoli a virare verso sud, in direzione opposta. Il 24 ottobre 1415, gli opposti eserciti giunsero a contatto nei pressi di Béthencourt e Voyennes, lungo il corso della Somme.

I francesi esitarono, prendendo tempo affinché arrivassero i rinforzi e, il giorno seguente, chiesero di negoziare. Anche Enrico inizialmente non aveva intenzione di dar battaglia, date le condizioni del suo esercito, e se doveva farlo voleva che fosse con una tattica difensiva, sfruttando la ben nota potenza degli arcieri, com’era accaduto a Crécy. Gli inglesi però avevano percorso più di 400 km in una settimana, avevano carenza di cibo ed erano stati duramente colpiti dalle malattie. Attendere avrebbe ulteriormente aggravato la situazione, e permesso ai francesi di aumentare le loro fila, per cui Enrico ordinò di disporsi per l’attacco.

Lo schieramento inglese

Le fonti storiche concordano, in linea di massima, sul fatto che, all’alba del 25 ottobre, Enrico schierò circa 1.500 fanti e 7.000 arcieri su una linea di mille metri che si snodava fra i boschi circostanti, non lontano da una vecchia fortificazione conosciuta come Agincourt. Gli arcieri erano al comando di Sir Thomas Erpingham (1355-1428), uomo di fiducia del re. I restanti contingenti furono divisi in tre parti: quella sulla destra al comando del Duca di York; quella sulla sinistra agli ordini di Sir Thomas De Camoys (1351-1421); quella al centro ai diretti ordini del re. Un tipico schieramento con gli arcieri (riparati dietro palizzate acuminate per difendersi dalla cavalleria nemica) posizionati ai fianchi, e con i famosi archi lunghi, mentre fanti e cavalieri furono posizionati al centro, su quattro file. Uno schieramento che ricorda quello dell’esercito turco nella battaglia di Nicopol del 1396 proprio contro i francesi.

Lo schieramento francese

I circa 15mila francesi (10.000 soldati appiedati e circa 5.000 fra cavalieri, arcieri e balestrieri), erano divisi in due contingenti, uno di prima linea e uno in retrovia, con la cavalleria pesante che aveva il compito di sbaragliare le linee degli arcieri nemici per aprire la strada alle fanterie.

La maggior parte dei nobili di Francia, ansiosi di guadagnarsi fama e onori, chiesero e ottennero posti in prima linea e, nonostante fosse pianificato che arcieri e balestrieri dovevano posizionarsi sui fianchi, non furono considerati necessari per la battaglia e quindi posizionati in seconda linea. Vi erano Carlo I d’Arbret, Giovanni I d’Alençon e Edoardo de Bar, che comandavano il battaglione principale, poi altri 600 uomini appiedati in posizione sui fianchi, quello sinistro agli ordini di Luigi I di Borbone-Vendome, e quello destro guidato da Arturo III di Bretagna.

I francesi organizzarono anche un terzo battaglione, la retroguardia, principalmente composto da valletti e scudieri, a cavallo dei destrieri appartenenti agli uomini che avrebbero combattuto a piedi. Il battaglione d’avanguardia e quello centrale contavano rispettivamente 4.800 e 3.000 uomini, ed erano schierati in formazioni molto strette, in circa sedici linee. Vi era poi un reparto di mille cavalieri, armati con picca lunga, distribuiti ai fianchi della prima linea, che avrebbero dovuto attaccare gli arcieri inglesi, più altri 200 che dovevano attaccare le retrovie.

Secondo recenti ricerche, la battaglia avvenne in una zona non ancora esattamente localizzata, ma si pensa sia identificabile a ovest della fortificazione nota come Agincourt e nei boschi fra questa località e Tramecourt.

Il terreno di scontro rimane uno degli elementi principali che favorì gli inglesi, in particolare perché i fitti boschi ostacolarono non poco i movimenti della cavalleria francese, che già faticava ad avanzare sulla terra resa molle e fangosa dalla pioggia, e dei nobili in armatura che affondavano fino al ginocchio. Il fango favorì gli inglesi, proprio perché, una volta bloccati nel terreno, i cavalieri francesi pesantemente armati ebbero molte difficoltà a combattere nel corpo a corpo contro gli arcieri, armati in modo leggero, che attaccavano sui fianchi.

Le testimonianze descrivono come i francesi attaccarono gli inglesi prima di essere attaccati a loro volta ai fianchi dagli arcieri, in un caotico corpo a corpo, e come, nella caotica furia della battaglia, moltissimi francesi, uccisi all’inizio della battaglia, erano caduti di fronte, generando la pressione della massa retrostante, tanto che molti altri morirono calpestati dalla massa della loro stessa parte, che avanzava alle spalle, e presto non furono in grado di utilizzare le loro stesse armi a causa della calca compatta di oltre 5.000 uomini.

La battaglia

Mentre le truppe inglesi erano pronte per lo scontro, da parte francese si era ancora in attesa che molti reparti prendessero posto nello schieramento, soprattutto il Duca di Bretagna con 6.000 uomini, il Duca d’Angiò con altri 600 e il Duca di Brabante con 2.000 soldati circa, secondo uno schema che avrebbe dovuto causare un disordinato ripiegamento del nemico, ma non fu così.

I comandanti francesi erano convinti che, alla vista di un così numeroso esercito, gli inglesi, già sofferenti a causa di epidemie, malnutrizione e delle precedenti battaglie, sarebbero stati presi dal panico, anche perché altre centinaia di francesi si erano schierati a chiudere la via della ritirata verso Calais.

Enrico, dopo avere considerato i vari elementi a vantaggio e a sfavore, fu rapido nel prendere le giuste decisioni, fra le quali il portare avanti le linee degli arcieri per fiaccare l’impeto della cavalleria francese che, oltre ad essere gravemente penalizzata dalle condizioni del terreno, fu vittima di decisioni sbagliate, come il porre la stessa cavalleria in retroguardia prima di ordinarne l’attacco, proprio per proteggerla dagli arcieri inglesi.

La cavalleria attaccò gli arcieri inglesi con esito disastroso. Non riuscirono ad aggirarli per la presenza dei fitti boschi che circondavano la zona, né sconvolgerne le fila per le palizzate di lunghe picche acuminate, che terrorizzarono i cavalli, i quali si imbizzarrirono e causarono un autentico scompiglio mentre correvano verso le proprie retrovie, attraverso la fanteria in avanzata, disperdendola e travolgendo gli uomini nella loro fuga dal campo di battaglia.

I soldati appiedati, dotati di armatura, pur avanzando con grande difficoltà sul terreno fangoso, riuscirono a portarsi a ridosso delle linee nemiche grazie alle protezioni, ma una volta giunti a contatto, affaticati, furono investiti dai fanti armati di mazze e accette.

I francesi non furono in grado di opporsi alle migliaia di uomini con armi leggere, più agili in un terreno fangoso, la cui forza si combinava con le linee di uomini in armatura completa. L’effetto di migliaia di frecce, assieme alle pesanti armature infangate, al caldo al loro interno, alla difficoltà di respirare e allo stress subito durante l’avanzata, indebolirono fatalmente i francesi.

Quando si aggiunsero gli arcieri inglesi, la seconda linea francese attaccò, ma anch’essa fu inghiottita nello stesso caos dell’avanguardia, e la dimensione del campo di battaglia non permise loro di sfruttare il vantaggio numerico, anzi ne limitò ulteriormente i movimenti. Dopo la prima ondata, i francesi dovettero combattere oltrepassando o calpestando i corpi dei loro caduti. Nella pressa formata da migliaia di uomini, molti furono probabilmente soffocati nelle loro armature.

Anche i nobili e i comandanti francesi si gettarono nella mischia, la maggior parte di loro rimase uccisa, e diversi altri furono fatti prigionieri.

Secondo le fonti dell’epoca, Enrico combatté in prima linea e, saputo che il fratello minore, il Duca di Gloucester, era rimasto ferito, raccolse la sua guardia personale e si gettò nella mischia, ricevendo anche un colpo di spada che spezzò la corona.

L’unico successo francese fu l’attacco alle retrovie poco protette degli inglesi, durante il quale Ysembart di Azincourt, con un piccolo gruppo di armati e circa 500 contadini, si impossessò di parte del tesoro personale di Enrico. Non è chiaro se questa manovra fosse parte di un piano preordinato, o un atto improvvisato. Di certo, Ysembart era un cavaliere di Agincourt, probabilmente scelto per la conoscenza del territorio.

Nella confusione, mentre gli scontri erano in pieno svolgimento, Enrico credette che i francesi potessero nuovamente raccogliersi in schiere compatte e attaccare le proprie linee con il rinforzo della retroguardia ancora numerosa, pur avendo già sbaragliato due battaglioni nemici. Fu a questo punto che, a scopo intimidatorio, Enrico ordinò la decapitazione di tutti i prigionieri, salvo quelli di rango elevato (forse per poter chiedere un riscatto), minacciando di fare uccidere anche chi, fra i suoi uomini, avesse disobbedito, anche perché i nemici catturati cominciavano ad essere più numerosi degli stessi soldati inglesi e avrebbero potuto tentare una rivolta.

Conseguenze

La sconfitta francese fu, a dir poco, una vera e propria catastrofe: nella battaglia morirono oltre 6.000 uomini, fra i quali più di cento nobili e gentiluomini, compresi tre duchi (Giovanni I d’Alençon, Edoardo III di Bar e Antonio del Brabante), nove conti, un visconte e persino un arcivescovo, il Gran Connestabile Carlo I d’Albret, l’ammiraglio Giacomo di Dampierre, il Gran Maestro Balestriere David di Rambures e i suoi tre figli, il Maesro della Real Casa Guichard Dauphin, e diversi altri. Oltre 3.000 cavalieri di alto rango rimasero sul campo, e solo la metà furono identificati. La maggior parte delle nobili famiglie del regno furono private della discendenza maschile, specialmente delle provincie di Artois, Ponthieu, Normandia e Piccardia. Inoltre non si seppe più nulla dell’Orifiamma, lo stendardo di guerra usato dai re di Francia fin dal 12° secolo.

Le stime sul numero di prigionieri variano tra i 700 e i 2.500 uomini, fra cui i duchi Carlo di Valois-Orléans e Giovanni I di Borbone, i conti Carlo d’Artois, Luigi I di Borbone-Vendome e Arturo III di Bretagna (fratello di Giovanni VI di Bretagna e fratellastro di Enrico V stesso), Giovanni VII di Harcourt e il maresciallo Jean Le Meingre, noto come Boucicaut.

L’esercito inglese perse poco meno di 700 uomini, fra i quali il Duca di York, il conte di Suffolk e il nobile di corte Sir Dafydd Gam.

Anche se la vittoria fu decisiva dal punto di vista militare, l’impatto a livello politico fu molto complicato nelle sue conseguenze, perché non portò infatti a immediate conquiste inglesi, poiché la priorità di Enrico era di tornare in Inghilterra, cosa che avvenne il 16 novembre.

Enrico fu accolto in patria come un eroe conquistatore, benedetto da Dio agli occhi dei sudditi e delle potenze europee. Con la vittoria, legittimò la casata dei Lancaster sul trono inglese e le future campagne di conquista in Francia.

Dopo la battaglia, in Francia crollò anche la già fragile tregua fra Armagnacchi e Borgognoni, tanto che questi ultimi ne approfittarono e, dopo avere raccolto altre forze, marciarono su Parigi. La mancanza di unità concesse a Enrico quasi due anni per prepararsi a rinnovare la campagna di espansione in Normandia, che ebbe termine con la conquista della corona francese.

Bibliografia

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