Come ben si sa, l’Italia entrò in guerra nell’Asse il 10 giugno 1940, quando la sconfitta della Francia era ormai evidente, e tuttavia avvennero diversi scontri lungo i confini del Vallo Alpino Occidentale, perché a Mussolini serviva un certo numero di morti per sedersi al tavolo delle trattative. Sull’altro fronte, il 7 dicembre 1941, il Giappone attaccò gli Stati Uniti a Pearl Harbor. I due schieramenti erano delineati: da una parte gli alleati (USA, Gran Bretagna e Commonwealth, URSS poi Cina e diversi altri) e dall’altra l’Asse (Germania, Italia, Giappone e Paesi allineati).
E’ un fatto ormai accertato che l’attacco di Pearl Harbor sia stata una sorpresa principalmente per chi ne fu direttamente coinvolto la mattina del 7 dicembre 1941, ma non certo per chi aveva pianificato a tavolino una procurata aggressione, allo scopo di guadagnare il favore dell’opinione pubblica americana (nonché elettorato) e portare avanti un programma di alleanza ed espansione politica in Europa e nel Pacifico.
Nelle battaglie su vari fronti, dall’Africa Orientale e Mediterranea, a quelli di mezza Europa, le forze americane catturarono oltre 50.000 prigionieri italiani fra soldati e marinai, che furono internati in campi di prigionia il più lontano possibile dalle zone di guerra. Circa 5.000 di questi furono internati alle isole Hawaii, nelle installazioni di Sand Island, Kalilhi Valley, Schnofield e Kaneohe. Molti in comunità miste ai prigionieri giapponesi, in maggior parte naturalizzati americani o residenti.
Quello italiano era un gruppo di elementi con caratteristiche speciali. I servizi segreti della US-Navy avevano suggerito di riunire la maggior parte di tecnici qualificati in ingegneria, costruzioni e mano d’opera qualificata, che all’epoca era scarsamente disponibile nell’avamposto del Pacifico. Servivano, in particolare, lavori di manutenzione e potenziamento delle installazioni portuali di Honolulu, in un programma che la US-Navy aveva il compito di mantenere rigorosamente segreto.
Le Italian Service Units
Con numerosi prigionieri, gli Stati Uniti costituirono anche vere e proprie unità combattenti, le cosiddette ISU (Italian Service Units). Combatterono sia contro i tedeschi che contro i giapponesi, dal maggio ’44 all’ottobre ’45. In gran parte erano stati fatti prigionieri durante la campagna nordafricana (operazione “Torch”), che iniziò nel novembre 1942 e in migliaia furono inviati negli Stati Uniti. Dopo la firma dell’armistizio da parte del governo Badoglio, l’8 settembre 1943, e con la dichiarazione di guerra alla Germania il 13 ottobre seguente, gli americani iniziarono a vedere i prigionieri di guerra come potenziali alleati. La liberazione di Roma il 4 giugno 1944 spinse molti prigionieri a cambiare schieramento e circa il 90% entrò a far parte delle Service Unit italiane.
Agli uomini che si erano offerti volontari fu garantito un posto di lavoro, un compenso e una certa libertà di movimento nelle aree di competenza, che erano agricoltura, ospedali, depositi dell’esercito, porti e centri di addestramento, molte zone costiere, industriali e di seconda linea.
Un rapporto dell’esercito affermava che il numero esatto di prigionieri di guerra al campo di Schofield East Range, alle Hawaii, era variabile ma almeno 2.390 italiani erano in custodia nel febbraio 1946, all’incirca nel periodo in cui i prigionieri venivano rimpatriati.
Il Dipartimento della Guerra autorizzò l’esercito americano a formare le Italian Service Units nel marzo 1944 per massimizzare questa nuova fonte di lavoro. Gli uomini che si unirono all’ISU furono assegnati in massima parte alle industrie legate alla guerra e, in cambio, guadagnavano lo status di “collaboratori”, cibo migliore e l’opportunità di partecipare ad attività sociali.
Quasi 35.000 dei 50.000 prigionieri di guerra in prigionia negli Stati Uniti si unirono alle ISU. Gli italiani che furono inviati al campo di prigionia a East Range di Schofield erano filofascisti che si rifiutarono di riconoscere il nuovo governo italiano e unirsi all’ISU.
Mario Benelli, il leader degli ex prigionieri di guerra che hanno visitato le Hawaii nel 1993, ha affermato che alcuni dei prigionieri consideravano la prigionia alle Hawaii come punizione per aver rifiutato di aderire all’ISU.
Al restante 10% che non si era offerto volontario, o che erano ritenuti filofascisti, fu comunque garantito che non avrebbero assistito a combattimenti né sarebbero stati inviati all’estero, ma destinati comunque alla detenzione in campi situati in Texas, Arizona, Wyoming e alle Hawaii.
Il più grande campo per prigionieri ritenuti fascisti era l’Hereford-1, in Texas. I membri dell’ISU lo chiamavano “Camp Dux”, che era il nome dei campi giovanili fascisti in Italia. Alcuni li chiamavano “Campo Camicia Nera”, ma non era un regime altamente restrittivo, dato che i prigionieri potevano lasciare il recinto, scortati da un soldato americano.
E’ poi noto che molti altri italiani si unirono all’Esercito Cobelligerante Italiano. Alcune unità alleate italiane furono chiamate Esercito del Sud o Corpo Italiano di Liberazione finché, nell’ottobre ‘45 le ISU, che con circa 25.000 uomini avevano anche preso parte al piano “Anvil-Dragoon” in Francia meridionale, furono dismesse il 1 luglio 1945 e i membri rimpatriati. La maggior parte arrivò in Italia nel gennaio 1946. Alla fine della guerra, le ISU avevano contribuito con milioni di ore allo sforzo bellico alleato. Alcuni hanno formato legami e relazioni con la gente del posto, non pochi si sono stabiliti negli Stati Uniti o in territorio americano, diversi si sono voluti sposare comunque in Italia prima di rientrare nella propria nuova residenza americana.
Oltre ai prigionieri di guerra di Okinawa e ad altri giapponesi, la storia dei circa 5.000 italiani detenuti alle Hawaii non è altrettanto nota. Le prime testimonianze giunsero dal complesso di Schofield Barracks.
Secondo i registri storici del Dipartimento di Stato americano, i campi di prigionia alle Hawaii durante la seconda guerra mondiale includevano: Città e contea di Honolulu, Oahu; Campo militare di Kilauea, Hawaii (coreano e di Okinawa); Campo di internamento Haiku, Maui (per giapponesi); Campo di internamento di Honouliuli, Oahu (tedesco, italiano, giapponese e coreano); Kalaheo Stockade, Kauai (giapponese); Campo militare di Kilauea (giapponese); Sand Island, Honolulu, Oahu, (tedesco, italiano e giapponese). In totale, due campi base, e cinque di internamento con 2 cimiteri. Circa 8.500 soldati giapponesi e italiani, coscritti di Okinawa e civili furono detenuti in questi campi dal ‘43 al ‘46. Oggi non rimane alcuna struttura che ospitava questi prigionieri.
Fu nel 1993 che Armando Beccaria, allora presidente locale della Friends of Italy Society, e Louis Finamore, vice-console onorario per l’Italia alle Hawaii, coordinarono la visita di otto ex prigionieri di guerra italiani che erano stati imprigionati a Schofield Barracks, Sand Island e Honululu. La delegazione italiana visitò le Hawaii nel maggio dello stesso anno, in occasione del 50° Anniversario della prigionia alle Hawaii, Arizona e Texas, dove furono portati dopo essere stati catturati in Nord Africa nel ‘43. Beccaria, commerciante di import-export italiano che si è ritirato alle Hawaii nel 1988 con la moglie, ha ricordato che i prigionieri di guerra italiani in sostanza “hanno voluto portare un pezzo d’Italia nell’Oceano Pacifico”.
Si ha notizia di una seconda delegazione di una settantina di ex prigionieri italiani, due dei quali giapponesi, detenuti a Okinawa, Sand Island e Honolulu, in occasione della celebrazione di “Irei no Hi”, per ricordare le decine di migliaia di abitanti di Okinawa, di americani e di combattenti di ogni Paese, che morirono nella drammatica battaglia. I due giapponesi, i soldati Toguchi e Furugen, ricordarono l’isolamento a Honolulu, soprannominata “Valle dell’Inferno”, perché il trattamento riservato ai giapponesi non era certo equivalente a quello degli italiani, e proprio nel contatto con i detenuti italiani, trovarono l’aiuto necessario per sopravvivere. I prigionieri italiani erano i più numerosi alle Hawaii, secondo i dati del Dipartimento della Guerra degli Stati Uniti, relativo al periodo luglio-settembre 1944, corrispondente alla fase di ammodernamento e specializzazione delle installazioni portuali di Pearl Harbor.
Coloro che erano destinati a lavorare nei cantieri navali di Honolulu, erano internati a East Range-Schofield Barracks, nel “Compound-1”. Si trovava di fronte a quello che oggi è noto come Kawamura Gate al Wheeler Army Air Field, vicino all’attuale sede del Dipartimento Lavori Pubblici di Schofield. Il campo del battaglione noto come “Troop Area HH” era circondato da doppie recinzioni di filo spinato, torri di guardia e riflettori. Altri prigionieri italiani erano nel già citato Sand Island, poi a Fort Hase, Kaneohe e Kalihi. In prigionia si ha notizia della morte di quattro uomini, oggi sepolti nel cimitero di Schofield. Un articolo dello “Star-Bulletin” del 1981 li ha identificati come Giovanni Napoletano, Domenico Accossato, Francesco Crimele e Germano Abbo.
La Cappella Cabrini
Maria Francesca Cabrini era una suora di origine italiana (vero nome Francisca Xaviera Cabrini) prima cittadina statunitense ad essere canonizzata come santa. Nel 1950 è stata nominata patrona degli immigrati nel 1950. Secondo un articolo del Catholic Herald del 4 luglio 1946, nacque a Sant’Angelo il 15 luglio 1850, vicino a Milano. Era la tredicesima e ultima figlia di genitori morti pochi mesi dopo la sua nascita, e iniziò l’opera missionaria all’età di 30 anni. A causa della sua fragile salute, tuttavia, non le fu permesso di unirsi alle Figlie del Sacro Cuore, che erano state le sue maestre e sotto la cui guida ottenne l’abilitazione all’insegnamento.
Nel 1880, insieme ad altre sette giovani, fondò l’Istituto delle Suore Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, con l’intenzione di servire come missionarie in Cina, ma durante un’udienza con Papa Leone XIII, il pontefice comunicò di non andare a est, ma piuttosto a ovest, a New York.
Maria Cabrini arrivò a New York nove anni dopo e organizzò catechismo e corsi di educazione per gli immigrati italiani, fondando scuole e orfanotrofi. Al momento della morte, nel dicembre 1917, all’età di 67 anni a Chicago, dove fu naturalizzata, aveva fondato 67 scuole, ospedali e orfanotrofi negli Stati Uniti, in Europa e in Sud America.
Circa 2.000 prigionieri italiani contribuirono a costruire la Cappella Cabrini utilizzando materiali di recupero, nascosti nelle tasche e sotto gli abiti da prigioniero, prima di tornare al campo, e fino a quando non hanno avuto scorte sufficienti per completare la cappella.
Secondo le testimonianze dirette, sostenuta da quattro colonne scanalate, la cappella aveva un altare decorato con due grandi ritratti di Madre Cabrini, dipinti dai carcerati. La messa della domenica mattina veniva celebrata ogni settimana fino alla chiusura del campo e al ritorno dei prigionieri in Italia.
Al completamento della cappella, ogni settimana veniva celebrata la messa domenicale con i prigionieri che uscivano dal complesso carcerario per assistere ai servizi, sedendosi nei banchi all’aperto.
La notizia che a Pearl City i prigionieri italiani avevano realizzato un’opera del genere, raggiunse località nel contesto remote, come Nanakuli e Waikiki, dove un altro piccolo gruppo iniziò una costruzione che divenne abbastanza famosa nella piccola comunità italiana, e fu poi abbattuta nel 1948 durante la realizzazione della Kamehameha Highway.
La messa cantata che gli italiani celebravano a Sand Island, a un certo punto divenne così popolare che la gente si accalcava per ascoltare e applaudire.
Oltre alla Cappella Cabrini, i prigionieri hanno costruito due fontane d’acqua e pareti di roccia lavica a Fort Shafter, diverse statue femminili presso la stazione della Guardia Costiera di Sand Island e presso il vecchio Centro Immigrazione di Ala Moana Boulevard. Hanno anche fatto paesaggistica a Palazzo Iolani, Saint Louis School e in varie installazioni militari, e gestivano la lavanderia a Schofield quando l’esercito non riusciva a trovare lavoratori civili. Per la cronaca, il già citato Armando Beccaria riferì che i prigionieri di guerra italiani avevano seppellito una bandiera sotto l’altare della cappella, con la promessa di tornare a recuperarla.
Un’altra traccia risale al maggio 1993, precisamente all’intervista concessa dall’architetto italiano Renato Astori, allora 82enne, che raccontò di avere progettato e supervisionato la costruzione della cappella nel 1944.
Armando Beccaria ha raccontato che dopo la guerra, molti prigionieri italiani hanno lasciato le Hawaii nel 1945. Uno di loro, di nome Giusti scrisse al generale Robert C. Richardson, comandante dell’esercito al Dipartimento delle Hawaii, ringraziandolo per il sostegno ai prigionieri di guerra. Richardson ha risposto con un biglietto scritto a mano, ricordando le opere degli italiani, e che la fontana di Palm Circle, di fronte al Comando di Fort Shafter, era ancora un bel simbolo della presenza dei soldati italiani, e avrebbe sempre ricordato l’arte italiana alle Hawaii. Il prigioniero Giusti scolpì anche due statue femminili, oggi ancora di fronte all’edificio amministrativo della Guardia Costiera a Sand Island. Dopo la visita del 1993, Beccaria chiese alla Guardia Costiera di apporre due targhe sulla statua, spiegandone il significato. Una delle statue è intitolata “Hula Dancer” – l’altra è intitolata “The Bathing Beauty”. Entrambi sono dedicati “a dare speranza a coloro che non hanno speranza”.
Recentemente, il Programma Risorse Culturali dell’esercito americano, che ha il compito di trovare, documentare e gestire i beni storici e le risorse culturali, ha deciso di rilevare e registrare ciò che restava del campo di prigionia e della Cappella Cabrini costruita dai prigionieri italiani.
Richard Davis, responsabile delle risorse culturali di Schofield, ha affermato che il lavoro sul campo e i sondaggi sono stati effettuati nell’agosto 2014. Ciò è stato fatto dopo che gli otto prigionieri di guerra italiani hanno visitato le Hawaii nel 1993, solo per apprendere che la Cappella Cabrini che avevano completato nel febbraio 1945 era stata rasa al suolo cinque anni dopo.
quando l’esercito non poteva più mantenerla e il Vaticano non aveva in programma di conservarla, oltre alla costrizone di una rampa dell’autostrada H2.
L’esercito ha pubblicato i risultati preliminari dello studio sul campo, che ha rilevato che Sean Newsome, tecnico delle risorse culturali con l’Office of Cultural Resources Program, ha trovato colonne scanalate dalla cappella nel luglio 2014.
Su diversi organi di stampa americano del dopoguerra di legge che il lavoro dei tecnici italiani è stato notevolmente apprezzato, specialmente per quanto riguardava le capacità nella costruzione di strutture militari. Molti furono comunque impiegati anche in lavori di forza o di punizione, come la costruzione o pulizia delle condotte fognarie.
Con la fine della guerra, nel dicembre 1945 molti prigionieri di guerra furono rimpatriati, diversi scelsero di cominciare una nuova vita. Non si può dire che un’atmosfera come quella delle isole Hawaii fu di ostacolo nel prendere una tale decisione…
In Australia
Altrettanto sconosciuta è la vicenda dei prigionieri di guerra italiani in Australia, né si hanno notizie particolari sul destino della maggior parte di loro dopo la guerra, visto che le condizioni non erano certo quelle delle isole del Pacifico. Certo è probabile che alcuni si siano stabiliti in Australia, come molti altri di diversi Paesi, visto le origini del grande territorio come colonia penale dove sono state inviate persone dalle origini più varie.
I prigionieri italiani giunsero a Sidney dove giunsero il 25 maggio 1941 sulla “Queen Mary”, il gioiello della Cunard White Star Line che poteva trasportare oltre 2.300 passeggeri che, allo scoppio della guerra, era ormeggiata a New York, dove giunse anche la “Queen Elizabeth”, prima che entrambe le navi fossero inviate in Australia per essere utilizzate come navi da trasporto truppe. Nel viaggio di ritorno in Australia, il transatlantico fece scalo in Medio Oriente per prelevare prigionieri di guerra italiani e tedeschi. La “Queen Mary” portò tre italiani in Australia nel 1941, così come la “Queen Elizabeth”, nei verbali di bordo venivano indicate come “QM” e “QE”.
Alla fine del 1941, con l’entrata in guerra degli USA, le due magnifiche navi destinate al trasporto e alla fine del conflitto avrebbero imbarcato oltre 1115.000 soldati.
L’arrivo dei prigionieri di guerra italiani in Australia, le circostanze del loro arrivo, sono descritte da alcuni quotidiani locali dell’epoca. Dei circa 2.000 soldati italiani catturati in Libia, lo stesso giorno dell’arrivo un convoglio ferroviario che ne trasferì 500 in un campo di prigionia nel Nuovo Galles del Sud, mentre gli altri furono tenuti in attesa. La descrizione rende l’idea delle condizioni: “Fisicamente insignificanti, con indosso un misto di indumenti indefiniti in cui predominava l’uniforme da campo italiana grigio-verdastra, i prigionieri sono portati a terra con un traghetto e immediatamente rilasciati con cappotti, reliquie della guerra del 1914-1918, tinti di un colore bordeaux. Al campo di prigionia saranno vestiti con divise di lana, talmente sgargianti da fungere da forte deterrente contro i tentativi di fuga. Fra i prigionieri non appare alcun desiderio di causare problemi. Sono costantemente sorvegliati da guardie armate, vengono radunati a gruppi, in silenzio con pochi sorrisi e solo poche chiacchiere fra loro. Alcuni sono accigliati mentre vengono fotografati della stampa. Le guardie hanno descritto il loro comportamento durante il viaggio come docile.
Prima di essere sbarcati, alcuni di loro hanno cercato l’alto ufficiale e hanno chiesto se non potevano essere autorizzati a rimanere e lavorare fino alla fine della guerra sulla nave, per il trasporto di truppe australiane all’estero, ma l’offerta non è stata accettata. Durante il viaggio, gran parte del lavoro di retrocucina era svolto dai prigionieri, che servivano anche i membri dell’A.I.F. di ritorno in patria dopo essere stati feriti.
Gli unici ufficiali tra i prigionieri sono cinque medici e un prete. Uno dei medici era un illustre professore di chirurgia all’Università di Torino. Un medico che è sbarcato ieri indossava stivali da campo neri, calzoni grigio-verdi e una tunica da trapano color cachi con le insegne intrecciate d’oro del grado di capitano sulle spalline, tre stelle sotto una stella più grande, il dispositivo dava un effetto generale più simile le spalline indossate da un brigadiere delle forze britanniche. Il suo attendente lo seguì a terra carico dei bagagli di entrambi e con indosso stemmi e berretti della Croce Rossa. Nessuno dei prigionieri parla inglese, ma gli ufficiali medici parlano quasi tutti un po’ di francese. Il caporale Craig, dell’Eastern Command Records Staff, che parla italiano, francese e greco, è assegnato come interprete.
Un capitano medico, proveniente dal Piemonte, ha spiegato che è stato richiamato dalla riserva di servizio. Era stato in Libia otto mesi prima di essere fatto prigioniero. Quando gli è stato chiesto da un ufficiale australiano cosa pensasse dell’Australia, ha risposto brevemente: “Nessuna opinione, sono un prigioniero”. Ha detto che l’età media dei prigionieri è fra i 23 e i 25 anni, in maggior parte dell’Italia meridionale. Una mezza dozzina indossava uniformi da marinaio, ma è stato spiegato che non erano necessariamente uomini della marina poiché usavano tutti i vestiti che potevano procurarsi.
Mentre scendevano a terra dal traghetto in doppia fila tra guardie della polizia militare con baionette fisse, hanno ricevuto le uniformi color bordeaux e una tazza di latta ciascuno. A bordo del treno è stato loro offerto un pasto al sacco fornito dal servizio di ristoro ferroviario. Un assortimento di baffi e molte barbe, tra cui un “modello Italo Balbo”, volti scuri, molti dei quali sembrava provengano da Alessandria o Port Said, piuttosto che dall’Italia. Portano pacchi disordinati contenenti le loro cose. Un uomo, quando gli è stato offerto un soprabito color bordeaux, ha fatto un gesto orgoglioso verso il suo zaino per mostrare che aveva già un cappotto, un modello italiano. sembrava perplesso mentre camminava portando il suo caratteristico indumento australiano.
Tutti i prigionieri sono stati esaminati dal punto di vista medico con grande cura prima di essere sbarcati. L’istruzione ufficiale è che chiunque abbia qualsiasi segno di malattia infettiva deve essere rigorosamente messo in quarantena per proteggersi dall’introduzione di epidemie dal Medio Oriente”.
Bibliografia
Italian POWs-Images of Old Hawaiʻihttps://imagesofoldhawaii.com
Histor -Footprint of Hawaii’s Italian POW’s
POW Camps in Hawaii-GenTracerhttps://www.gentracer.org
Enforced Diaspora: The Fate of Italian Prisoners of War – jstorhttps://www.jstor.org
Footprint of Hawaii’s Italian POW’shttps://www.wetheitalians.com
Il Gazzettino-Italian Society of Hawaiihttps://friendsofitalyhawaii.org
italianprisonersofwar.com
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