Che fine faranno gli Uighuri del Xinjiang? Da sempre oppressi dal governo di Pechino, ora si trovano fra incudine e martello a causa dell’intromissione cinese in Afghanistan. Che dice la comunità internazionale? Nulla. Di Roberto Roggero.

Uighuri musulmani dello Sinkjang.

Se si va a consultare la mappatura online dei giacimenti di gas naturale non ancora sfruttati, a livello mondiale, si noterà che il territorio a cavallo fra Afghanistan orientale e Cina, è particolarmente ricco di massicce faglie ancora vergini. Questo angolo di Cina si chiama Xinjiang (“Nuova Terra”), ed è in prevalenza popolato dalla minoranza degli Uighuri, etnia storicamente, politicamente, e soprattutto culturalmente, avversata dal governo centrale, e senza esclusione di mezzi, sebbene loro cerchino di rispondere altrettanto drasticamente, puntando su attentati e uccisioni mirate. 

Gli avvenimenti si richiamano al fatto che alcuni media mediorientali (in Occidente se ne sa poco o nulla, o non si vuole sapere) hanno pubblicato una notizia che comporterà a breve gravi conseguenze: in Afghanistan, pochi giorni fa, i Talebani hanno cacciato i militanti dell’ETIM, Movimento Islamico del Turkestan Orientale, cioè dalla fascia confinante con la Cina, quindi riversando in Cina quei fuoriusciti Uighuri su cui Pechino aveva messo gli occhi, e che ora ha serviti su un vassoio d’argento. Un’azione che, contribuendo alla creazione di una zona-cuscino lungo il confine, potrebbe essere fra le condizioni della cooperazione Cina-Talebani. Se nel prossimo futuro, da Pechino si avranno concessioni verso Kabul, si avrà la conferma dell’esistenza di accordi particolari. 

Un affare privato di Pechino 

In Occidente se ne sa comunque poco, si diceva, complice anche la proverbiale omertà del governo cinese, tutt’altro che disponibile a divulgare scelte, decisioni, politiche e metodi riguardanti fatti che avvengono entro i confini. Il Tibet ne è un più che eloquente esempio, come Taiwan, Hng Kong, Singapore e altre zone non a caso basilari nel sistema economico-finanziario mondiale. 

Nello Xinjang, gli Uighuri combattono da tempo una guerra dimenticata per la propria sopravvivenza, oggi ancora più a rischio, con il governo cinese che ha messo stabilmente un piede in Afghanistan e controlla l’importante base militare di Bagram, precedentemente centro nevralgico del contingente americano. 

Il territorio dello Xinjang si estende attraverso il grande bacino del fiume Tarim, ed è noto anche come Turkestan Orientale (più o meno 1/16 della Repubblica Popolare), dove la minoranza uighura di circa sei milioni di individui è di fede islamica. Da tenere presente che altri 500.000 Uighuri sono sparsi fra Uzbekistan, Kazakistan, Urkmenistan, Pakistan, Turchia, Tagikistan e Kirghizistan, e almeno altri 20.000 gravitano fra Arabia Saudita, Europa e Stati Uniti. Geograficamente, quindi, uno dei più importanti crocevia sulla Via della Seta, oltre che sopra enormi giacimenti di gas naturale non ancora sfruttati. 

Da decenni nello Xinjang gli appartenenti alla comunità uighura musulmana vogliono ottenere quanto meno una autonomia amministrativa, ma Pechino definisce la questione fuori discussione, più o meno come sta facendo con Taiwan. 

Nel 1933, nel 1944 e nel 1949, gli Uighuri hanno tentato di proclamare l’indipendenza ma le prime volte intervenne l’URSS, poi l’esercito popolare cinese. 

L’organismo politico al quale gli Uighuri fanno capo è il Comitato del Turkestan Orientale, che ha la propria base clandestina nell’inaccessibile territorio di Alma-Ata, in Kazakistan, da dove hanno avuto origine quasi tutti i movimenti indipendentisti dell’Asia Centrale. Il Comitato che avrebbe poi originato l’ETIM, fu creato dal leader Aysa Beg nel ‘44, con la nascita della lotta armata. 

Abdul Hameed, Abdul Azeez Makhdoom e Abdul Hakeem Makhdoom fondarono ufficialmente il primo Partito Islamico del Turkistan nel 1940. Dopo essere stato liberato dalla prigione nel 1979, Abdul Hakeem divenne il principale ideologo e fu guida politica e spirituale per Hasan Mahsum e altri responsabili di primo piano. 

Fu però a partire dal ’49 che la situazione cambiò radicalmente. Se l’URSS era intenzionata a mantenere un controllo indiretto sul territorio, a causa di interessi primari, con la nascita della Repubblica Popolare Cinese, e l’avvento di Mao-Zedong con la vittoria sui nazionalisti, le condizioni dell’etnia musulmana Uighur volsero al peggio. 

Negli anni della guerra civile, Mao aveva elargito promesse agli Uighuri, per ottenere il loro sostegno in funzione anti-nazionalista. Promesse che si rimangiò quando prese il potere e manifestò programmi differenti verso quella che era la Regione Autonoma dello Xinjang dal 1955. Una denominazione di comodo dal momento che il potere assoluto è sempre stato esercitato da funzionari della prevalente etnia Han, predominante ancora oggi. 

Come nel caso del Tibet, di Taiwan, di Hong Kong, e di altri territori che, secondo una visione unilaterale, apparterrebbero storicamente alla Cina, la tendenza di Pechino è sempre stata quella di colonizzare lo Xinjang per controllarlo direttamente, fatto oggi avvalorato dalla presenza dei già citati giacimenti, fonte irrinunciabile per lo spropositato bisogno di energia del gigante asiatico, nonché collegamento con l’Occidente e canale diretto per lo sfruttamento economico e geopolitico dell’area. 

Nella seconda metà del secolo scorso, la sempre più pressante politica cinese ha spinto la minoranza uighura a reagire, secondo una ben sperimentata strategia della tensione, fino agli anni ’90 e al culmine del tentativo di colonizzazione Han, quando la rivolta si manifesta apertamente. Nascono associazioni combattenti, numerose pubblicazioni clandestine patriottiche della “Nazione Uighur”, e dalle proteste di piazza si passò alle manifestazioni armate, agli attentati, a rapimenti di rappresentanti o inviati di Pechino, e fino ad attacchi organizzati a centri amministrativi e presidi militari. 

Nel 1990 nella città di Barin, i combattenti musulmani uighuri assaltarono il Municipio, uccisero i funzionari cinesi e proclamarono l’autogoverno della provincia. Il colpo di mano si esaurì in poco tempo, perché in pochi giorni l’esercito cinese fece irruzione all’interno del palazzo massacrando “i rivoltosi”, con conseguente coprifuoco e legge marziale. 

Sempre nel ’90, in aprile, i gruppi indipendentisti uighuri, sostenuti da simpatizzanti kirghisi, uzbeki e kazaki, organizzarono una grande manifestazione nella città di Akto, ovviamente non autorizzata, per protestare contro il decreto che proibiva la costruzione di una moschea. Ancora una volta, le forze di polizia di Pechino intervennero con determinazione, uccidendo oltre 60 persone e operando centinaia di arresti. Una pratica che sarebbe diventata manifesto di oppressione con Piazza Tien-An-Men. 

Nel luglio seguente, le autorità dello Xingjang annunciarono l’arresto di circa ottomila persone, in seguito a una vasta operazione antisommossa e antiterrorismo. Seguì un periodo di apparente calma, fino al 1995-’96, quando la rivolta esplose nuovamente a Hetian e Aksu. Ci furono morti fra soldati cinesi e combattenti musulmani uighuri, poi si scatenò una vera e propria ondata di arresti, e la cattura di oltre 15.000 fra “ribelli, collaborazionisti e fiancheggiatori”. 

Nel febbraio 1997 alcune bombe esplosero anche a Pechino e il governo centrale varò una serie di leggi straordinarie antiterrorismo, che di fatto limitavano pesantemente le già scarse libertà fondamentali. Come da prassi, seguirono successive ondate di arresti. 

Sempre nel febbraio ’97, a Urumuqi, esplosero tre ordigni su altrettanti autobus, provocandola morte di cinque persone e il ferimento di oltre una sessantina. Nell’estate successiva, a Yining, la polizia arrestò decine di manifestanti con l’accusa di sedizione, innescando una nuova reazione. Moltissimi manifestanti furono imprigionati grazie alle leggi straordinarie, accusati di minare l’unità nazionale. Tanti altri rimasero uccisi durante le proteste, e anche la polizia registrò diverse perdite. 

Nel febbraio ’97, per altro mese di Ramadan, a Ghulja, i miliziani cinesi, con il sostegno della polizia, fecero irruzione in diversi centri di preghiera islamici e arrestarono trenta personalità di primo piano della comunità locale furono arrestate. Poco dopo, oltre 600 manifestanti invasero le strade, dirigendosi verso il palazzo del governatore cinese, per chiedere la liberazione degli arrestati, ma si trovarono di fronte un massiccio schieramento di polizia, con bastoni elettrici, gas lacrimogeno e idranti. Il giorno seguente, i manifestanti erano circa diecimila, e questa volta la polizia sparò ad altezza uomo. Morirono più di 150 persone e oltre cinquemila furono arrestate. Pochi giorno dopo, da Pechino, venne comunicata l’autorizzazione a procedere, e vennero eseguite le prime sette condanne capitali, naturalmente in pubblico. 

Un anno dopo, nel febbraio ’98, fu emesso un mandato di arresto nei confronti di Anwar Yusuf, presidente del Centro per la Libertà del Turkestan, accusato di avere concesso un’intervista non autorizzata, e quindi di avere violato la legge sul divieto di associazione. 

Yusuf era stato invitato ufficialmente e pubblicamente dalla Federazione di Taiwan a una conferenza internazionale sulla pace, alla quale parteciparono Erkin Alptekin (leader di prima grandezza fra i nazionalisti del Turkestan), e altre personalità come Thubin Jigme Norbu, fratello maggiore del Dalai Lama; Tashi Jamyangling, segretario di stato del governo tibetano in esilio; Jonathan Bache, vice presidente del Partito Popolare della Mongolia Meridionale; diversi leader taiwanesi fra cui Liu Sung-Pan (presidente dela Lega di Taiwan), Shui Bian-Chen (sindaco di Taipei), Frank Hsieh (sindaco di Kiaosiung). 

Naturalmente Pechino non poteva tollerare un simile affronto, oltre al fatto di considerare l’incontro come un complotto di vari movimenti nazionalisti. 

Il vero obiettivo di Pechino era Erkin Alptekin, oggi esule in Germania, figlio di quell’Isa Alptekinche fu nominato segretario generale della Prima Repubblica del Turkestan orientale nella Cina occidentale durante il periodo 1933-1934, e in realtà era rappresentante dello Xinjiang nel governo del KMT. Ha ricoperto ruoli molto importanti per la fondazione di alcune organizzazioni internazionali, le più note delle quali sono l’Unrepresented Nations and Peoples Organization (UNPO) e il World Uyghur Congress. Dopo la pacifica liberazione dello Xinjiang, nel 1949, e la successione della nuova Repubblica Popolare, la famiglia di Alptekin fuggì a Srinagar nel Jammu e poi in Kashmir, dove frequentò la scuola cattolica e il Convent College, completando gli studi presso l’Istituto di Giornalismo di Istanbul.  

Erkin Alptekin, oggi 82enne, ha fondato varie organizzazioni per movimenti separatisti uighuri ma non solo e nel 1985 ha partecipato alla fondazione del “Comitato dei Popoli del Turkestan Orientale, Tibet e Mongolia Interna”, che ha tenuto la prima conferenza nel 1998 a New York. Ha poi fondato l’Unione del Turkestan Orientale in Europa e nel 1991 è diventato anche uno dei fondatori dell’Organizzazione delle Nazioni e dei Popoli non rappresentati (UNPO), che ha sede a L’Aja. Nel corso di una conferenza tenuta a Monaco nell’aprile 2004, Alptekin è stato eletto presidente del Congresso Mondiale Highuro ed è quindi comprendibile come sia persona non gradita al governo di Pechino. 

Nel frattempo, l’attività clandestina non si è fermata, specialmente d parte di formazioni come la “Casa della Gioventù del Turkestan Orientale” (nota anche come “Hamas dello Xingjang”), attiva specialmente nella zona di confine fra Tagikistan e Kazakistan, con circa duemila membri che, alla fine degli anni ’90, decidono di imbracciare le armi. 

Secondo ricerche del politologo russo Pyotr Sukhanov, fra gli altri gruppi “ribelli” che hanno agito e agiscono in clandestinità vi è il “Movimento Islamico del Turkestan Orientale” con circa un migliaio di membri, nascosti in gran parte in Tagikistan, che però avrebbero come fine primo l’affermazione dell’Islam prima che della propria etnia uighura, e quindi collegato ad Al-Qaeda. Un altro è il “Centro Nazionale del Turkestan Orientale” diretto da Reza Berken, ex colonnello dell’esercito turco che infatti vive rifugiato a Istanbul ed è segreto non-segreto intermediario fra le parti. 

Altri gruppi indipendentisti fanno capo ad Azat Akimbeck e Muhitdin Mukhlisi (di etnia Almaty), e Babur Makhsut, ex sindaco di Hetian ed ex ufficiale delle forze separatiste uighure, dal ’95 esule in Occidente, che accusano apertamente Pechino di non voler stipulare alcun accordo e di volere sopprimere con tutti i mezzi la minoranza Uighur. 

Gli esempi non mancano: nel 2002 Pechino ha inviato nello Xinjiang musulmano circa ottantamila forze di polizia e reparti dell’esercito, appoggiati da mezzi blindati. 

Al tempo stesso, si cerca di sensibilizzare la comunità internazionale su uno dei purtroppo molti problemi legati all’oppressione delle minoranze, ma la risposta si è fino ad oggi limitata a dichiarazioni di pubblica condanna di fronte alla violazione dei diritti umani, come nella maggior parte dei casi. Intanto ne fanno le spese circa 50 milioni di musulmani cinesi che vivono non solo nello Xinjang, ma in diverse altre province dell’immenso Paese: Yunnan, Chinghai, Shansi, Honan, Kansu e Hopei. 

Attualmente, l’area dove sono concentrati maggiormente i musulmani cinesi è nel Kunming, con oltre quattro milioni di persone, che avevano i propri puti di aggregazione in moschee, la più antica delle quali risale alla dinastia Qing, oltre 400 anni fa, purtroppo rasa al suolo per ordine di Pechino nel 1997, e in seguito ricostruita con caratteristiche che poco hanno a che fare con la tradizione. 

Per sopravvivere alle dure imposizioni, molti musulmani uighuri hanno lasciato la propria terra e si sono spostati nelle grandi città, fino alla stessa Pechino, dove pare abbiano preso il controllo di interi quartieri come Wei-Goncun e Gan-Jaikou, e del traffico di stupefacenti e contrabbando. 

Il problema terrorismo 

Senza dubbio, in occidente sono sconosciuti nomi, di per sé già impronunciabili, come Amin Memet, Emeti Yakuf, Memetituersun Yiming, Aikemilai Wumaierjiang, Yakuf Memeti, Tuersun Toheti. Sono i principali ricercati da Pechino per essere i responsabili del Partito Islamico del Turkestan (Türkistan İslam Partiyisi) o Movimento Islamico del Turkestan noto anche come Movimento Islamico del Turkestan Orientale, da pochi anni considerata organizzazione terroristica fondata da jihadisti uighuri nella Cina Occidentale. I suoi obiettivi dichiarati sono: stabilire lo stato indipendente del Turkestan Orientale in sostituzione della Regione Autonoma dello Xinjiang. Secondo un rapporto pubblicato a Pechino nel 2002, tra il 1990 e il 2001 l’ETIM aveva commesso oltre 200 atti di terrorismo, provocando almeno 165 morti e oltre 450 feriti. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e il Comitato per le Sanzioni ad Al-Qaeda hanno inserito l’ETIM nella lista delle organizzazioni terroristiche nello stesso anno. 

Due anni dopo, nell’agosto 2004, il deputato Charles Tannock rivolgeva una interrogazione scritta proposta dal PPE-DE, al Consiglio e al Parlamento Europeo: “Il Movimento islamico del Turkestan Orientale (ETIM) è un gruppo di estremisti islamici operante nella regione autonoma dello Xinjiang, nella Cina occidentale. Si tratta di uno dei più militanti tra i gruppi separatisti della minoranza uighur che mira ad ottenere l’indipendenza del Turkestan Orientale. L’ETIM è collegato al movimento internazionale dei Mujahadin ed è sospettato di aver ricevuto addestramento e finanziamenti da Al-Qaeda. Alla luce di quanto precede e in considerazione del fatto che sia le Nazioni Unite che gli Stati Uniti hanno inserito l’ETIM nei rispettivi elenchi delle organizzazioni terroristiche internazionali, può confermare il Consiglio che l’UE prevede di aderire alle azioni dell’ONU aggiungendo questo gruppo al proprio elenco delle organizzazioni terroristiche”. E’ avvenuto proprio questo, e Pechino ha avuto battaglia vinta. 

D’altra parte ha avuto partita diciamo non difficile, perché l’ETIM non è mai andato per il sottile. Influenzato dal successo dei mujaheddin contro l’Unione Sovietica in Afghanistan, divenne noto nel 1990 durante la rivolta di Baren. 

Il conflitto fu recepito come una sorta di Jihad, che puntava a un risultato simile alla precedente creazione della Prima Repubblica del Turkestan Orientale, nel 1933-’34, ma con una marcata retorica anti-comunista e l’idealismo che mirava a un pan-turchismo islamico che non aderiva mai completamente all’estremismo religioso radicale. Di certo, Pechino non poteva permettere di lasciarsi cogliere di sorpresa e il Comitato del Partito, decise subito il dispiegamento di forze massicce per soffocare ogni repressione, soprattutto la rinascita di un movimento jihadista ispirato ai Mujaheddin afghani, Hezbollah e il Movimento Islamico del Turkestan Orientale. 

La lotta armata fu quindi una scelta praticamente decisa in partenza, e la guerra civile in Siria è stata palestra di addestramento per il ramo siriano dei combattenti uighuri, in gran parte raggruppati nella zona di Idlib, fra le meno pacificate del Paese. 

Adeguandosi ai tempi, l’ETIM ha anche avviato la propaganda sui media, con l’organo ufficiale “Turkistan Islamic Party Voice of Islam Media Center” 

Nel 1989 Ziyauddin Yusuf, il principale fondatore del Partito Islamico del Turkistan Orientale, aveva tracciato la linea fondamentale da seguire, ma la attuale politica segue le direttive della riforma del 1997 operata da Hasan Mahsum e Abudukadir Yapuquan, quando fu resa pubblica la costituzione dellattuale ETIM, Movimento Islamico del Turkestan Orientale”, che comunque è la definizione data dal governo cinese. 

Oltre alla propaganda mediatica, tuttavia, è noto che l’ETIM sia alle spalle di diversi atti terroristi. All’inizio del 1998, l’ETIM inviò in Cina una squadra di almeno 15 uomini per svolgere attività terroriste e istituire campi di addestramento. Nel 1998 il comando dell’ETIM fu spostato a Kabul, sotto la protezione dei Talebani dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan, e oggi la situazione potrebbe riproporsi, ecco perché Pechino è intenzionata a giocare d’anticipo. 

Il governo cinese sostiene che Mahsum o uno dei leader dell’ETIM, abbia incontrato i leader di Al-Qaeda e dei Talebani, tra cui Osama bin Laden, nel 1999 in Afghanistan, per coordinare le azioni, sebbene Mahsum abbia sempre negato.  

Dall’inizio del 1998 alla fine del 1999, l’ETIM ordino al gruppo di Hotan di creare più basi nella provincia e addestrare almeno mille uomini. 

Dopo gli Attentati dell’11 settembre, l’ONU ha inserito l’ETIM nella Black List delle organizzazioni terroriste, su richiesta di Cina, Afghanistan, Kirghizistan e Stati Uniti. E fu proprio con l’invasione americana dell’Afghanistan che le strutture dell’ETIM vacillarono profondamente. Per altro, nel 2003, durante un rastrellamento di un reparto pakistano contro i covi montuosi di Al-Qaeda, venne ucciso il leader uighuro Hasan Mahsun. 

Fra Pechino e Talebani 

Dopo che la guerra di Bush & Cheney giunse in Iraq, l’ETIM ebbe nuova vita e, nel 2006, diffuse un videomessaggio nel quale incitava a una nuova Jihad, approfittando dei Giochi della 29a Olimpiade a Pechino. 

Successivamente, la nuova organizzazione si denominò Partito Islamico del Turkestan (PIT) e abbandonò l’uso del nome ETIM, sebbene la Cina lo chiami ancora così e rifiuti di riconoscerlo come Partito. 

Si è parlato anche di un impegno in Siria. Nel 2012, l’ETIM ha inviato la Brigata Turkistan in Siria (Katibat Turkistani,) a prendere parte alla guerra civile all’interno di una rete di gruppi collegati ad Al-Qaeda e Al-Nusra. Celebre l’impiego dei combattenti uighuri nella battaglia di Jisr al-Shughur del 2015. 

Durante la battaglia di Kunduz del 2015 in Afghanistan, ci sono state notizie secondo cui militanti islamisti di etnia uighura si sono uniti ai talebani, sebbene questi rapporti non menzionassero esplicitamente il Partito Islamico del Turkestan. 

Per quanto riguarda i legami con Al-Qaeda, non se ne può negatre l’esistenza, ma non si conosce fino a che punto siano concreti. 

Si ritiene che il PIT abbia collegamenti con Al-Qaeda e gruppi affiliati come il Movimento Islamico dell’Uzbekistan e i talebani del Pakistan. Gli Stati Uniti sostengono che il PIT abbia ricevuto formazione e assistenza finanziaria da Al-Qaeda. 

Rimane il fatto che, comunque, le autorità cinesi hanno fatto di tutto per collegare pubblicamente le organizzazioni attive nello Xinjiang, in particolare l’ETIM, ad Al-Qaeda. Potrebbe essere provato un finanziamento, ma non si ha notizia di collaborazione attiva, forse nemmeno nel periodo in cui il quartier generale dell’ETIM era a Kabul. Da sottolineare che, nel 2005, Abdul Haq Al-Turkistani, membro del PIT, è stato ammesso a come membro del Consiglio Esecutivo della leadership di Al-Qaeda, e Abdul Shakoor Turkistani, altro membro del PIT, è stato nominato comandante militare delle aree tribali di amministrazione federale del Pakistan. 

Nel 1999 l’ETIM compì una serie di stragi terroristiche tra cui l’attentato nella contea di Moyu nella prefettura di Hotan e la rapina-omicidio a Urumqi nello stesso anno, provocando 6 morti. Il 18 giugno avvenne una sparatoria nella contea di Xinhe nello Xinjiang che provocò la morte di agenti di polizia. 

Nel 2007 alcuni militanti dell’ETIM spararono da un’auto in corsa contro a cittadini cinesi nel Belucistan pakistano, e le autorità pakistane ritennero essere una rappresaglia per l’esecuzione di un funzionario dell’ETIM all’inizio di luglio. 

Nel 2007-2008 l’ETIM rivendicò una serie di attacchi prima delle Olimpiadi, tra cui una serie di attentati su autobus a Kunming, un tentativo di dirottamento aereo a Urumqi, e un attacco alle truppe paramilitari di Kashgar che provocò la morte di 17 ufficiali. 

Nel giugno 2010 un tribunale di Dubai condannò due membri di una cellula dell’ETIM per aver organizzato un attentato dinamitardo in un centro commerciale di proprietà del governo, che vendeva merci cinesi. Fu il primo complotto dell’ETIM fuori della Cina. 

Altri attacchi avvennero nel 2001, 2013 (attacco suicida in Piazza Tien An-Men), 2014 (varie bombe in luoghi pubblici a Xinhè) poi altri attentati e incendi dolosi; nel 2016 con l’attacco suicida all’ambasciata cinese in Kirghizistan e altro ancora.

Pechino vede l’ETIM, oggi PIT, come la sfida più urgente e realistica alla sicurezza, e intendere rompere i legami fra i Talebani e i militanti uighuri. Ancor prima di salire al potere, i Talebani, sperando nella cooperazione con il colosso cinese, promisero che non avrebbero permesso a nessuna forza straniera di utilizzare il territorio dell’Afghanistan per condurre attività dirette contro paesi terzi. Il ministero degli Esteri cinese ha ricordato queste promesse due giorni dopo l’ascesa al potere dei Talebani. Il 17 agosto, il portavoce del ministero degli Esteri cinese Hua Chunying ha dichiarato: “Il nuovo regime deve prendere le distanze dalle forze terroristiche, combattere il Movimento Islamico del Turkestan Orientale e opporsi ad esso e ad altre organizzazioni terroristiche. L’ETIM rappresenta una minaccia diretta e combatterla è un obbligo internazionale”. 

Sembra che gli obblighi inizino ad essere adempiuti. I militanti ETIM, secondo un rapporto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 2020 presenti nell’ordine di diverse centinaia in Afghanistan, erano di stanza nella provincia di Badakhshan, vicino al confine con la Cina. Diverse fonti affermano che i militanti sono stati trasferiti in altre aree, tra cui la provincia di Nangarhar dove, tra l’altro, nelle ultime settimane era attivo l’Isis e i Talebani hanno annunciato un’operazione antiterrorismo la scorsa settimana. 

Esiste una versione secondo cui i militanti uighuri potrebbero essere consegnati alle autorità cinesi, ma questa non è stata ancora confermata ufficialmente. Alcuni analisti ricordano che durante il loro primo regno, i talebani hanno spostato i militanti uiguri dal confine in altre parti dell’Afghanistan per non irritare la Cina, ma non li hanno consegnati a Pechino. Queste azioni potrebbero influenzare il destino degli uighuri afgani: Molti Uighuri afghani temono di essere deportati in Cina, con conseguenze tragiche. 

Bibliografia 

“Ethnic Identity and National Conflict in China” – A.Acharya/R.Gunaratna/P.Wang, 2010; 

“No end in sight to Xinjiang unrest” – V.Winterbottom, 2013; 

“Xinjiang: China’s Muslim Far Northwest” – M.Dillon, 2003; 

“China’s Minorities: Ethnic-religious Separatism in Xinjiang” – Mahesh R.Debata, 2007. 

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