Thomas Carlyle, un seguace di Goethe che non convinse Mazzini. Di Giuseppe Moscatt.

Thomas Carlyle.

1. Il filosofo della storia.

Nell’estate del 1840, al termine di un ciclo di conferenze tenute all’ora del tè in varie biblioteche di Londra, veniva pubblicato un libretto di un maturo storico scozzese che rappresenterà un punto di svolta della filosofia della storia. Si trattava di “On Heroes, Hero – Worship, and The Heroic in History”: l’autore era Thomas Carlyle. A presentarlo nelle 6 conferenze in cui è strutturato il libro – tenute fra il 5 e il 22 maggio – fu una giovane giornalista femminista dell’età vittoriana, Harriet Martineau, di fede ugonotta, emancipata e già famosa per i suoi resoconti dagli Stati Uniti, nonché organizzatrice di salotti letterari sul modello della francese Madame de Staël e della nostra Clara Maffei. Un pubblico di eccezione sicuramente assistette alle varie riunioni: John Stuart Mill, Florence Nightingale, Charlotte Brontë, George Eliot, Charles Dickens e Auguste Comte. Sicuramente era in contatto epistolare con Alexis de Tocqueville e Friedrich Engels. Ma erano presenti due amici del cuore, Giuseppe Mazzini e Erasmus Darwin, fratello di Charles. In un angolo della sala, stava la moglie del relatore Jane Welsh, divisa fra l’onore di essere sposata a tale genio e turbata da quella bella donna seduta accanto al marito. Ma chi era quello strano signore imponente, barbuto e solo apparentemente timido? Thomas Carlyle nato nel 1795 in un paesino vicino Edimburgo in una numerosa famiglia calvinista, fu educato alla parsimonia, abituale in quel paese. Studiò teologia, storia e letteratura, nonché matematica e tedesco, fino a divenire ministro della Chiesa Puritana nel 1814. Nel 1822 ebbe una forte crisi spirituale, ma non abbandonò mai una fede nella metafisica, pur aprendosi alle letture di Spinoza e Leibniz, non dimenticando del pari di pubblicare alcune operette su Schiller e Goethe (1824-1825), approfondendo non solo del secondo il rapporto col mondo dopo gli eroici furori del’”Egmont” e del “Tasso“, ma anche traducendo in inglese il “Wilhelm Meister”, dal quale trasse profonde convinzioni di etica romantica, mentre continuava a collaborare su giornali locali e nazionali con l’intento di demistificare l’ideologia materialista e l’economicismo di Smith e Hume, definendo l’economia politica del contemporaneo Ricardo una “scienza triste”, perché eticamente debole. In un mondo votato all’industria e al commercio, rivolto al dominio dei mari, in quell’età vittoriana dove lo sfruttamento economico, rivestito dalla nobile quanto falsa ideologia della libera concorrenza, la sua voce ritornava all’uomo naturale di Rousseau e alla “Belle Époque” medievale di Walter Scott. Ciò stonava fortemente e la sua passione per i romantici liberali di Jena e Weimar – unico in Inghilterra a comprendere le loro idee di libertà e giustizia, unico a leggere e divulgare la “Maria Stuarda “e il “Don Carlos”, ovvero il “Faust” del Vate di Francoforte – fu però confortata dalla simpatia di un altro pensatore fuori dal coro liberista, John Stuart Mill, di cui Carlyle prese le difese nella polemica con gli utilitaristi Bentham e Malthus che godevano del favore della borghesia conservatrice. Nel 1831, ormai sposato con la figlia di un medico che gli portò una piccola rendita, col quale la modesta coppia senza figli visse per buona parte della sua vita; pubblicò un’opera più corposa, il c.d. “Sarto Restauratore”, un lungo saggio autobiografico, malgrado non avesse che appena 36 anni, profeta e divulgatore di una strana teoria di interpretazione della storia. Mezzo saggio, mezzo romanzo, mezzo manifesto di vita presente e futura, il “Sartus” risultava un puzzle che era lontano dalla visione produttivistica e capitalista di quell’inizio secolo, un ritorno alle idee calviniste, un salto all’indietro nell’autoconsumo, nella vita frugale dei monasteri addirittura prima della Riforma luterana, con uno sguardo nostalgico al mondo classico dove la vita era regolata dal motto “ora et labora”, condita da un tono rousseauiano del buon selvaggio, con l’uomo al centro della storia quotidiana, una vita alla Robinson Crusoe, ma sottotitolata da valutazioni prese da Bacone e Swift. Anche qui, unico suo seguace fu proprio il Mill, che volle annotare il manoscritto, peraltro bruciato nel 1835 in un misterioso incendio della casa di Londra dove abitava. Carlyle fu costretto a riscriverlo con non poche varianti per essere più accettabile sia per coloro che lo apprezzavano, sia per coloro che lo criticavano. Il maggiore oppositore fu Thackeray, scrittore e saggista vittoriano, che lo presentò al pubblico londinese come un pazzo, mentre il giovane preraffaellita George Bernard Shaw ne sentì il fascino per la scrittura trascinante e per l’oratoria affabulatoria e suggestiva.

2. Il politico.

In politica, Carlyle appoggiò il conservatore Peel, accogliendo in modo contraddittorio la riforma elettorale del 1832 che ammetteva al voto una più ampia fascia di piccoli proprietari, mentre si opponeva al movimento Cartista che chiedeva  maggiori diritti civili per le minoranze proletarie. Intanto, a salvare la precaria situazione economica familiare fu una nuova riconsiderazione del suo pensiero, letto dai Sansimonisti in Francia di ispirazione socialista dopo la pubblicazione della sua monumentale “Rivoluzione Francese” nel 1838. Subì però una positiva mutazione con la seconda edizione del “Sartus” sia in Inghilterra, sia negli Stati Uniti (1836). Qui, a seguito della magnifica recensione di un un filosofo americano, Ralph Emerson, la stampa democratica lo accolse con favore, anche se altri intellettuali europei cominciarono a notare un certo tono reazionario negli ultimi scritti. Proprio l’amica Harriett Martineau, nel tentativo di smussare forti critiche su alcune sue frasi di Carlyle – per esempio, “di fronte a un mondo di ladri e di corrotti, è meglio ancora mantenere il sistema parlamentare, considerato che per potere ottenere leggi oneste paradossalmente occorre salvaguardare una così ampia congregazione di malviventi”; oppure, “la democrazia è la forma politica veramente idonea per 27 milioni di elettori maschi, per la maggior parte stupidi, guidati da un centinaio di furbetti e di immorali”- gli propose la serie di conferenze che anticipammo all’inizio. Finalmente Carlyle poté esporre la sua teoria di filosofia della storia, che ha costituito e costituisce ancora la croce e la delizia di ogni scuola di critica storica. Riportiamo le sue parole, facendo uso della premessa alla raccolta di quelle conferenze: “La storia universale altro non è che la storia dei grandi Uomini, degli Eroi… Tutto quello che vediamo stabilmente fondato nella realtà è la loro realizzazione pratica, la incarnazione dei pensieri che ebbero sede nei Grandi. La religione – ma anche la profezia, la poesia, il sacerdozio, la scrittura, la sovranità – è l’avvenimento più importante che riguarda l’Uomo… Ciò che conta è quello che si crede nella pratica della vita e riguarda le sue relazioni quotidiane con la Natura – é così anche per il popolo. L’eroe è al centro di tutti i precedenti ambiti e in tutti gli stadi dell’Umanità nella sua storia….”.Quindi, Carlyle elencava questi “Grandi Uomini”, che avrebbero orientato l’opinione delle masse, attivando il c.d. “culto mitico degli Eroi…”: Odino, Maometto, Dante, Shakespeare, Lutero, Rousseau, Cromwell, Federico di Prussia, Napoleone. E di costoro, fornì un sublime quadro letterario scorrevole e accattivante, non dimenticando Goethe suo maestro in letteratura. Una storia biografica dunque, che taceva, o spesso criticava, la storia popolare e la storia delle società dalla civiltà egizia fino alla Regina Vittoria, sulla quale prudentemente non si pronunziò. Subito uno storico della casa di Hannover, tale Macaulay, di cui si sono perse le tracce, si oppose fermamente a tale idea, forse soltanto perché la regina Vittoria non era stata menzionata. Invece di fronte a tale suggestiva interpretazione, sia Marx che Guizot, pur da ideologie diverse, la respinsero per la sottile negazione di ogni ruolo del popolo, borghese o proletario che fosse, nel progresso della civiltà in Europa.

3. Carlyle e Mazzini.

Fra gli oppositori troviamo le perplessità, o meglio le picconate di Mazzini, peraltro un suo grande amico nella vita relazionale (giocavano a scacchi nelle fredde sere londinesi, con un bicchiere di whisky del Nostro e un bicchiere di latte dello scozzese). Fu pronto però Thomas a difenderlo sulla stampa dalle accuse del Governo Inglese di terrorismo dopo l’attentato di Felice Orsini; come lo era Giuseppe a fargli vendere qualche copia dei suoi libri fra gli emigrati italiani e a sostenerlo di fronte alla moglie gelosa dell’invadente Harriet. Non erano lontani sul lato morale: ambedue onestissimi e uomini di fede. Ma Thomas non credeva nel popolo, né nella libertà, né nella democrazia, neppure nella indipendenza. Se non c’era il pastore, sempre gregge si rimaneva in ogni tempo, anzi Carlyle aveva ridotto la rivoluzione francese ad una serie di battaglie, a una Costituzione impossibile, a una sagra paesana dove l’unico spettacolo era assistere alle esecuzioni per ghigliottina. Per Mazzini invece lo Scozzese non vedeva mai alcun interesse collettivo, non gli interessavano le masse, taceva sul progresso delle società, spesso negava la nazione, non amava la Patria, preferiva piuttosto il ritorno al bel tempo antico, dove l’unico valore restava l’uomo singolo. Insomma per Mazzini, Carlyle era un pessimista storico, senza un progetto sociale, magari era religioso, credeva nel Dio-Natura, ma era ironico rispetto alla Divinità, vista come un grande  Vecchio che pasceva le sue pecorelle… Un egoista incallito, dove l’unico strumento sociale era la causalità di un Genio che si faceva autentico da sé e trascinava con la sua forza un popolo che pendeva dalle sue labbra, un eroe che avanzava seguito ciecamente e se questi avesse indietreggiato avrebbe portato alla morte l’intera collettività. Regina di quel metodo di azione era la scelta individuale, al di fuori di ogni razionale progetto democratico. Una visione del mondo che Mazzini non poteva accettare perché mancava una tensione collettiva, tale da qualificare Carlyle un semplice memorialista o al più un romanziere, un Dumas con qualche nota di storia, più un Erodoto che non un Tucidide. E mentre non erano spenti gli echi di questa sua filosofia sentimentale della storia; mentre il Cartismo e la domanda abolizionista della schiavitù si facevano più forti nelle società anglosassoni; il pensiero di Carlyle andava vieppiù oscurandosi, visto che negli “ultimi scritti critici” del 1850 giungeva a concludere negativamente su questi temi. Nondimeno, la grandiosa biografia su Federico di Prussia del 1865 gli procurò l’onorificenza di Ordine al Merito di Bismarck, mentre rifiutò il titolo di Baronetto che il capo di governo Disraeli gli offriva. Unico grande dolore in vecchiaia fu la precoce morte della moglie Jane che fra alti e bassi lo amò fino alla morte, che lo colse ormai quasi dimenticato nel 1881. Certamente, lo scozzese fu realista, nel capire l’Uomo e il suo rapporto con le Masse, mentre Mazzini sospettava già la pericolosità di quelle idee. E infatti, Hitler nelle pagine autobiografiche del “Mein Kampf”, già nel 1925 ammirò Carlyle per le sue idee decisioniste. Fino al bunker di Berlino, a poche ore dal suicidio, il leader nazista teneva sul comodino la biografia del grande Federico. Mancava però nell’amico Mazzini quel senso dell’ironia che rende ancora Carlyle un grande scrittore, come quando qualificò, in uno dei suoi ultimi articoli il finanziere George Hudson “il re delle ferrovie” nel momento in cui questi aveva fatto bancarotta. Forse la sua forte personalità letteraria, se non più di storico, potrebbe oggi essere riesumata per il tono sarcastico in cui giudicava la presunta autorevolezza del “grande uomo”. Tono che ci consente oggi di interpretare l’aspro giudizio dell’amico Mazzini, secondo cui Carlyle aveva negato gli influssi esercitati nell’individuo della educazione, dell’integrazione sociale e del patrimonio ideale che si è andato ricostruendo secolo dopo dopo secolo nella Polis. Perciò per Carlyle, “Gli eroi riassumono in se stessi vivendo intensamente i bisogni, le necessità, le speranze del loro tempo e del loro popolo“, come dirà per esempio,  nel caso di Rousseau, nella quinta conferenza del 19-5-1840, discutendo dell’Eroe come scrittore. E nondimeno, malgrado essi così costituiscono la voce della loro epoca – in fondo, Rousseau era un illuminista – tuttavia gli influssi non limitano del tutto la natura del soggetto, che rimane “un’ anima attiva, capace di agire, di scoprire, di creare di darsi al mondo e sopratutto di osare contro il “political correct” espressione oggi diffusa e che Carlyle adottò dal suo maestro Goethe e dallo spirito titanico germanico, dove l’ironia non è la contraddizione fra un pensiero logico e una realtà percepita dai sensi; quanto e piuttosto una sintesi fra ilarità e amarezza per l’incomprensione per ogni vita operosa culturalmente mai ben riconosciuta. E se questo appariva il punto debole del pensiero di Carlyle – cosa che gli rimproverò anche Marx nel primo libro del Capitale – Mazzini non fu da meno, ma non dal lato umano. Nelle “lettere d’amore” fra Thomas e la moglie Jane Walsh, quasi un diario del loro difficile rapporto, emerge la triste figura allampanata di Giuseppe Mazzini, esule, disilluso e dunque spesso angosciato per le sorti dell’Italia, dopo le terribili esperienze dei Fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane, senza contare i martiri di Belfiore 1852-1855, insuperabile tristezza che neppure gli arrangiamenti per chitarra della opere di Verdi, davanti al fuoco di casa Carlyle, Mazzini riusciva a coprire. Invece, la forza profetica di Carlyle, derivata dalla certezza di un mondo migliore, malgrado la grave crisi del parlamentarismo borghese or ora premessa – e lo scoramento per le notizie degli eccidi di Parigi connessi ai disordini narrate nei “Miserabili” dell’amico Victor Hugo – lo vedevano sperare negli Eroi che non cessavano, in ogni momento della vita, di subire sulla loro pelle per il progresso dei popoli e di questo convincimento si dovrà fare chiarezza malgrado l’ostracismo della critica storica contemporanea.

Bibliografia:

  1.  Su Carlyle filosofo della storia, cfr. F. HEER, vd. Europa madri delle Rivoluzioni, vol. 2°, pagg. 101 ss., Milano, 1964.

     2.  Per il pensiero politico di Carlyle nell’Inghilterra e nell’Europa di primo ‘800, cf. G. SABIN, Storia      

          delle dottrine politiche, vol. 2°, Milano, 1978, pagg. 538 e ss.

3. Sulle differenze fra Carlyle e Mazzini, cfr. Thomas Carlyle e Jane Walsh, Lettere d’amore,  pubblicate  su     

    The Carlyle Letters on line.

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