Il 18 giugno 1941, cioè quattro giorni prima dell’inizio dell’Operazione Barbarossa (l’attacco tedesco all’Unione Sovietica), la Turchia siglò con Berlino un patto di cooperazione, impegnandosi a fornire alla Germania un certo quantitativo di materie prime (incluso il 30% del cromo necessario all’industria bellica tedesca) ed assicurando di mantenere nei confronti dell’Asse un atteggiamento di amichevole neutralità. Il 3 settembre 1939, due giorni dopo l’inizio del Secondo Conflitto, il governo turco aveva dichiarato di non volersi immischiare in una guerra che “gli era del tutto estranea”; salvo ripensarci nel marzo del 1941, in occasione dell’invasione della Grecia e della Jugoslavia da parte delle armate italo-tedesche, bulgare e ungheresi. Fu infatti a questo punto che in alcuni ambienti politici e militari turchi si incominciò a ragionare circa l’opportunità di schierarsi apertamente dalla parte dell’Asse, per cercare di riguadagnare almeno parte dei territori mediorientali dell’ex impero ottomano perduti nel 1918. Tanto è vero che nel febbraio dello stesso anno, i rapporti diplomatici tra Ankara e Berlino iniziarono ad infittirsi, destando non poche ansie in seno al governo inglese, preoccupato di dovere fronteggiare una pericolosa crisi in Medio Oriente. Regione, quest’ultima, già sufficientemente scombussolata dall’attività sovversiva di diversi movimenti religiosi islamici e indipendentisti, come quello capitanato dal Gran Muftì di Gerusalemme, Haj Amin al-Husseini, o come quello iracheno del leader nazionalista e filo-tedesco Rashid Alì. Non a caso, il 19 ottobre 1939 l’Inghilterra e la Francia avevano preventivamente offerto ad Ankara un patto di mutua assistenza della durata di 15 anni: intesa che il governo turco – non ancora sufficientemente convinto della forza del Reich – aveva accettato. Sia il ministero degli Esteri francese che il Foreign Office inglese sapevano bene che un’eventuale entrata in guerra della Turchia a fianco della Germania avrebbe potuto comportare l’apertura di un nuovo fronte, quello turco-iracheno, e avrebbe messo a repentaglio la sicurezza di Libano, Siria e quella di Palestina, Giordania e dell’isola di Cipro. Senza considerare che un’entrata in campo di una nazione mussulmana come la Turchia avrebbe potuto innescare anche gravi contraccolpi in Irak, Persia e Afghanistan.
Ma a temere un possibile avvicinamento a Berlino da parte di Ankara era anche l’Unione Sovietica che, a sua volta, paventava la comparsa di contingenti della Wehrmacht lungo il confine caucasico. Tuttavia, sebbene i negoziati turco-tedeschi imbastiti tra il gennaio e il febbraio del ‘41 proseguissero serrati fino alla calata tedesca-italiana e bulgara nei Balcani, nel maggio 1941 la Turchia preferì continuare a giocare la sua partita su due tavoli distinti. Da una parte lasciando intendere a Berlino la possibilità di un’imminente adesione all’Asse, e dall’altra assicurando gli inglesi e i sovietici di agire in tale modo soltanto per evitare un attacco da parte delle armate del Reich che ormai controllavano l’intera penisola ellenica.
Ma vi era un’altra ragione, di carattere squisitamente militare, che induceva Ankara ad assumere questo atteggiamento. All’inizio del 1941, la Turchia disponeva infatti di un apparato bellico piuttosto debole e dipendente in tutto e per tutto da forniture estere. Ankara poteva contare su un totale, apparentemente ragguardevole, di circa 40 divisioni, la maggior parte delle quali però molto male equipaggiate, armate e praticamente prive di scorte. Prendendo esempio dall’accorta politica spagnola franchista di non intervento anche la Turchia riuscì a giostrarsi abilmente attingendo alla prudenza, ma anche all’ambiguità. Tanto da continuare – nonostante i periodici proclami di velata simpatia nei confronti dell’Asse – a mantenere costanti contatti con Londra, ma anche con Mosca. Per cercare di dare una decisa svolta alla situazione, tra il marzo e l’aprile 1941, sia i britannici che i sovietici inviarono in Anatolia alcune missioni per cercare di costringere il presidente, già primo ministro, Ismet Inönü, a prendere una più chiara posizione in merito al conflitto in corso.
Il 4 marzo 1941, il ministro degli Esteri dell’allora neutrale Unione Sovietica, Vjaceslav Molotov, aveva tentato addirittura (ma invano) di spingere il governo di Ankara a rompere definitivamente qualsiasi legame con la Germania, costringendo il giorno seguente Joachim von Ribbentrop a promettere all’ambasciatore turco a Berlino, in cambio di un trattato di amicizia, l’intera Siria francese e il controllo delle ferrovie greche. Un’offerta decisamente allettante se si pensa che il presidente Inönü non mancò di rispondere immediatamente, manifestando il suo personale interesse nel proseguire la discussione della trattativa in maniera più dettagliata. Nonostante questa compromettente dichiarazione, il 27 marzo 1941, l’Unione Sovietica ebbe egualmente la meglio, riuscendo a fare firmare (in cambio di assicurazioni circa la totale integrità dei confini caucasici) allo stesso presidente turco un patto di neutralità. Sistemati i rapporti con Mosca, il 31 marzo la Turchia prospettò candidamente alla Germania un nuovo patto commerciale, inclusivo di una clausola riguardante forniture militari, per un valore di circa 150 milioni di marchi. E dato che il Führer voleva a tutti i costi mantenere buoni rapporti con Ankara, dovette accettare. In quell’occasione, Hitler parve volersi in qualche modo consolare dello smacco precedentemente subito confidando a von Ribbentrop di “preferire di gran lunga l’amicizia dei turchi a quella degli alleati bulgari” che, in quanto slavi, erano mentalmente e culturalmente più affini ai russi, e quindi meno affidabili.
Il 7 aprile 1941, la Turchia mobilitò comunque il proprio esercito a scopi “difensivi”. Si trattò, in effetti, di una manovra precauzionale, ma ad elevata valenza propagandistica, atta a sparigliare le carte sui tavoli della diplomazia e a galvanizzare (o mettere in allarme) tutti quanti: tedeschi, inglesi e perfino le autorità della Francia di Vichy di Siria e Libano. Quella di Ankara si rivelò, indubbiamente, una mossa astuta. Tutte le potenze, Unione Sovietica inclusa, rimasero con il fiato sospeso, non sapendo quali sarebbero state le successive azioni turche. L’Inghilterra inviò subito una missione militare a Istanbul con lo scopo di offrire assistenza miliare gratuita, mentre il 9 aprile, a Berlino, l’ambasciatore turco ricevette dal ministro degli Esteri von Ribbentrop preziosi regali e una raffica di promesse di aiuti economici e militari. Fu probabilmente per questo gradito gesto che, il 12 aprile 1941, in occasione di una manifestazione di piazza anti-tedesca ad Ankara, il governo turco fece incarcerare centinaia di manifestanti accusati di essere al soldo dell’Inghilterra.
Se da un lato la Turchia si guardò bene dal compromettere definitivamente i suoi rapporti con la Gran Bretagna e con l’Unione Sovietica, dall’altra dimostrò con questo gesto di essere intenzionata a ricambiare alcuni favori a Hitler. Non a caso, poco prima della definitiva occupazione italo-tedesco-bulgara della Grecia, lo spionaggio turco passò alla Wehrmacht importanti informazioni sui movimenti della flotta britannica nell’Egeo e nel Mediterraneo orientale. Non solo, il 2 maggio 1941, sobillatori governativi organizzarono una grande manifestazione di piazza a sostegno dell’Asse e pochi giorni più tardi, la Marina turca arrivò addirittura ad offrire alle forze tedesche operanti nell’Egeo un certo quantitativo di piccole navi e di velieri per completare l’occupazione di tutte le isole greche. Gesto che, di fatto, equivaleva ad una sostanziale presa di posizione nell’ambito del conflitto in corso, ma che fu volutamente ignorato dal governo inglese che, nonostante tutto, era ancora convinto di potere staccare la Turchia dal carro tedesco.
Il 6 maggio, in concomitanza con la rivolta nazionalista irachena anti-inglese, il governo turco assunse però un atteggiamento decisamente più equidistante, proponendosi quale intermediario per la ricomposizione della crisi mesopotamica. Va detto che l’interesse della Turchia ad intromettersi in qualche modo nelle faccende irachene non era certo casuale in quanto il governo di Ankara nutriva da tempo inconfessabili appetiti sul Kurdistan iracheno e soprattutto sui giacimenti petroliferi di Mosul. Un eventuale successo della sua azione diplomatica a favore della pace tra Inghilterra e insorti iracheni avrebbe infatti potuto riaprire la questione relativa ai territori curdi-iracheni persi dall’impero ottomano dopo la fine della Prima Guerra Mondiale: ambizione, questa, che Londra, tuttavia, non era assolutamente disposta ad avallare. L’irrigidimento dell’Inghilterra spinse quindi Ankara ad imbastire un piano segreto (e benedetto dai tedeschi) per rifornire di armi e munizioni gli insorti iracheni, ormai in seria difficoltà a causa della pronta e massiccia reazione militare britannica nella regione. Non solo, il Comando turco provvide anche – palesando, questa volta, una notevole dose di imprudenza – a mobilitare ben dieci divisioni da inviare nell’Irak settentrionale in aiuto delle quattro divisioni dell’esercito iracheno e dei reparti aerei tedeschi e italiani provenienti da Rodi e dislocati nella zona di Mosul a protezione dei giacimenti petroliferi minacciati dall’avanzata britannica.
Sembra che proprio in questo periodo cruciale la Germania abbia compiuto i suoi maggiori sforzi per cercare di trascinare definitivamente la Turchia nel conflitto. E ciò è dimostrato dal fatto che, nella primavera del ‘41, Hitler giunse a promettere ad Ankara notevoli compensi territoriali ai danni non soltanto dell’Irak, ma anche della Siria e del Libano francesi e, forse, della stessa Grecia e di alcune regioni caucasiche sovietiche. Promesse, a dire la verità, abbastanza vaghe e assai difficili da garantire. Ciononostante, all’ultimo momento, quando in effetti sembrava che Ankara fosse sul punto di accettare le offerte di Berlino, qualcosa cambiò in seno al governo turco che, nel frattempo, aveva assistito alla definitiva ed umiliante sconfitta dei nazionalisti iracheni di Rashid Alì, al rapido sgombero dei reparti aerei italo-tedeschi dall’area di Mosul e alla successiva occupazione britannica della Siria e del Libano di Vichy. Fiutato il vento, la Turchia preferì, infatti, effettuare una rapida marcia indietro, smobilitando le sue divisioni ammassate ai confini dell’Irak e rifugiandosi in una sorta di neutralità spuria.
Nonostante l’abbandono di ogni progetto di intesa politico-militare con Berlino, tra il giugno 1941 e l’ottobre del 1943, il governo di Ankara accetterà egualmente di fornire alla Germania diversi quantitativi di materie prime, anche se in cambio di molto denaro e persino di attrezzature militari. Ma con il passare dei mesi, l’atteggiamento della Turchia cambierà nuovamente, e questa volta definitivamente. Nell’agosto del 1944, quando la sconfitta tedesca diverrà certa, Ankara inizierà un rapido riavvicinamento nei confronti di Londra, Mosca e Washington, giungendo, il 6 gennaio del 1945, a rompere le relazioni diplomatiche con il Giappone e, successivamente, il 23 febbraio, a dichiarare guerra alla stessa Germania. Manovra quest’ultima che permetterà alla Turchia di sedere il tavolo dei vincitori e successivamente di entrare a fare parte della Nato, legandosi a filo doppio con gli Stati Uniti interessati ad installare sul territorio anatolico quelle basi aeree che sia durante la Guerra Fredda, sia nel corso delle successive crisi mediorientali (vedi quella irakena del 1991), si riveleranno molto utili e redditizie per il bilancio turco.
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