Il patriottismo di Rocambole e di Arsenio Lupin. Di Cristina Bardella.

Da Ponson du Terrail a Leblanc, un significato storico e sociale dell’eroe popolare.

Non si può che rimanere sconcertati dalle sbrigative quanto superficiali analisi –nel caso di merito, nostrane– riferite ai più recenti risultati elettorali francesi, che attribuiscono il dato numerico all’emozione per gli attentati parigini o all’immaturità rozza di un intero segmento di cittadinanza votante. È dunque la sottovalutazione (o la completa ignoranza) di segnali lampanti e molteplici che potrebbero anche retrodatarsi alle elezioni presidenziali che videro trionfare Nicolas Sarkozy: la rivendicazione dell’amore di Patria e dell’orgoglio nazionale, che venne appunto incanalata nella preferenza data al barone di stirpe ungherese, all’epoca in apparenza incarnante ogni valore peculiarmente francese. Ricordiamo di passaggio gli incitamenti ai compatrioti a “rialzare la testa” e “salire sul ring” da parte di Max Gallo ed il non scontato, benché temporaneo, appello al cuore dei Francesi di André Glucksmann. Il resto è noto, non fu solo la disillusione di intellettuali vari ma quella –assai più sentita– di tanta parte della cosiddetta Francia profonda, a partire dallo scellerato abbattimento dei luoghi di appartenenza ed identità per antonomasia, le chiese, al fine di dare spazio a centri commerciali e parcheggi. In realtà, il piano sistematico di demolizione dei luoghi di culto cattolici sulla carta data dal 2000, ma è con la presidenza Sarkozy che si è verificato l’impulso decisivo; e ciò nonostante le disperate proteste della popolazione (il piano non si è fermato con l’attuale successore: citiamo solo l’antica chiesa di Saint Jacques ad Abbeville, città emblema della Grande Guerra, è stata rasa al suolo nell’aprile 2013). Nello stesso 2013, Sarkozy ha tentato di ricorrere ad un altro simbolo storico-patriottico, fornendo un appoggio fattivo alla cosiddetta “Droite forte” –nelle intenzioni la risposta al FN– , animata da Geoffrey Didier e Guillaume Peltier, denominatisi ussari ed ideatori del “ralliement” (adunata in senso militare) della Festa della Violetta. Non ci si avvalga della simbologia dei fiori, in questo caso ingannevole (timidezza, umiltà di spirito, nonché attributo mariano secondo la seicentesca Partheneia Sacra di Henry Hawkins S.J.), in quanto la violetta rappresenta un emblema bonapartista.

Arsenio Lupin interpretato dall’attore George Descrières.

Non appartenente all’iconografia napoleonica in senso stretto, la violetta divenne, il 20 marzo 1815, nel giro di poche ore e per caso fortuito, il segno di riconoscimento dei bonapartisti. Sbarcato sul suolo francese, Napoleone era in marcia verso la capitale, dove la confusione regnava sovrana insieme ai timori ed alle incertezze: portare un bouquet di violette,  nel mese di marzo, non avrebbe comunque destato sospetti. Per dirla con lo storiografo Emmanuel de Waresquiel, i dettagli e i simboli sono spesso assai più eloquenti di ogni discorso. Un segnale di forte portata, perciò sottaciuto, viene oggi proprio dalla banlieu parigina, costantemente citata a torto e a traverso. Constatato il fallimento del modello di educazione nazionale imposto dai successivi governi, sono sorte tre scuole finanziate da privati (in primo luogo la Fondation Espérance Banlieues) ed aperte a tutti su basi ben precise: rispetto dell’altro, riappropriazione della tradizione, amor di Patria.

Un altro aspetto da non sottovalutare è costituito dal successo editoriale francese –in continua crescita– di autori e protagonisti della letteratura una volta definita popolare, con una sfumatura di disprezzo, poi rivalutata non di per sé, ma per le ragioni fuorvianti del post-modernismo di cui perdura l’eco. Ci riferiamo ad esempio ad uno scrittore, caposaldo del cosiddetto feuilleton e creatore di un eroe passato in proverbio, ossia Pierre Alexis Ponson du Terrail, autore del ciclo dei Drames de Paris e padre del personaggio di Rocambole. Assai più giovane di Dumas, Ponson du Terrail (1829–1871) avrebbe impartito una svolta non solo stilistica al romanzo a tinte forti. Sfogliando le complicate volute del suo ciclo narrativo ci si sorprende di trovare una significativa analogia con la sterminata opera di Balzac; con la differenza che della “Commedia Umana” nell’intellettualistico Novecento è sempre stato doveroso parlare con rispetto, mentre il feuilleton rappresentava un genere letterario “caratterizzato da narrazioni (…) rivolte ad un pubblico in genere non colto”. Nel 1859,  Ponson pubblicò L’Héritage mystérieux, primo episodio dei Drames de Paris. Durante la disastrosa ritirata di Russia dell’esercito napoleonico, il colonnello Kergaz viene ucciso dal capitano Felipone che ne vuole sposare la moglie ed incamerarne il patrimonio, defraudando il piccolo erede Armand. Questi però riesce a recuperare i beni paterni, divenendo poi un benefattore, mentre Andrea, il figlio dell’omicida, è una sorta di conte di Montecristo alla rovescia, un angelo del male infiltrato nella società al fine di manipolarla per i suoi scopi perversi; egli prende allora il nome di Sir Williams e si fa coadiuvare dall’inquietante Baccarat –figura evocatrice, così come la Turquoise dei successivi episodi, delle future Diaboliques di Barbey d’Aurevilly– e da Rocambole, orfanello non votato alla virtù e destinato a superare il maestro tra infiniti sviluppi e colpi di scena, in uno stile contraddistinto da una punta di sarcasmo, a sottolineare gli eccessi di bontà dei personaggi positivi ed il pentimento dei cattivi.

È evidente che il ciclo di Rocambole non rappresenti un puro genere di evasione. Appare non casualmente nel 1859, quando Napoleone III, ben saldo al potere, intende fornire ad ogni strato sociale un ideale etico. Ponson, di antica famiglia, ma votato ad un bonapartismo indefettibile, asseconda tale intento e fa comunque trionfare, in extremis, la virtù, e nel 1870, con Impero ed esercito liquefatti dalle armate prussiane, mosso da un mai sopito ideale cavalleresco di altra epoca (un ulteriore punto di contatto con Barbey d’Aurevilly), lo scrittore raduna un manipolo di uomini armati alla meglio per una disperata ed inutile resistenza.

Il Nostro riuscirà rocambolescamente, è il caso di dire, a raggiungere Bordeaux, dove morirà poco tempo dopo, e alla stregua del più esemplare dei feuilleton, le cause del decesso di Ponson du Terrail si ammantarono di un fitto mistero. Verosimilmente, lo scrittore fu stato vittima dell’epidemia di vaiolo imperversante in Francia tra 1870 e 1871. Di passaggio, ricordiamo che Zola –sempre attento alla realtà effettiva– fece appunto morire la bellissima Nana del morbo, mentre la folla di Parigi evocava la sete di guerra al grido di “A Berlino! A Berlino!”.       

Dopo la riscoperta di Rocambole e di Ponson du Terrail, è la volta di Arsenio Lupin e del suo creatore Maurice Leblanc (1864 – 1941), figlio di un importante armatore di Rouen. Già eroe di una serie tv cult, ben recitata e ben diretta, ma sostanzialmente lontana dallo spirito dell’autore, le versioni cinematografiche più recenti hanno instaurato un rapporto diretto tra ladri anarchici quali Jacob –specialista di travestimenti, autore di furti celebri supportato da abili complici e processato nel 1905– ed Arsenio Lupin, comparso nel 1906 per i tipi del nuovo giornale Je sais tout. Leggendo la produzione di Leblanc, appare però chiaro che la connotazione politica nel senso di una lotta contro i ceti abbienti vada inquadrata in un ambito diverso.

Può darsi che l’eco del processo Jacob sia entrata nella genesi di Lupin, magari per quanto concerne la ben addestrata squadra di complici; nondimeno, già nel 1907, l’avvincente racconto a flashback Le collier de la Reine,contenuto nella raccolta Arsène Lupin gentleman cambrioleur,svela l’origine del tutto privata dei clamorosi furti: il bambino che vendica la madre (prematuramente vedova e caduta in miseria, costretta ad accettare un lavoro, divenuto un odioso sfruttamento, da parte di una ex-compagna di scuola arrogante e gretta quanto suo marito) rubando una collana storica, vanto della coppia. Da allora, Lupin riterrà un punto d’onore mirare ad oggetti di valore di persone arricchite indebitamente e spesso abiette.

Tuttavia, il “caso Lupin” rientra in uno sfondo assai più vasto. Nell’ultimo decennio dell’Ottocento il fenomeno editoriale di Sherlock Holmes aveva investito anche la Francia, in quel periodo preda di una anglomania che non era solo riflesso anti-tedesco, ma che trovava le sue radici nel gusto e nelle mode del Secondo Impero, dallo stile di vita all’aria aperta, allo sport, alle gare ippiche, ai creatori di moda (il celebre Worth), ai profumi, ai farmaci ed alle terapie mediche. Gran parte di queste voghe era dovuta all’imperatrice Eugenia, per metà di sangue scozzese, ma l’anglofilia era destinata a sopravvivere all’Impero, culminando nel 1904 con l’Entente Cordiale, vera e propria alleanza militare; nel frattempo però una vasta schiera di francesi, sull’onda dell’affare Dreyfus e del conseguente empito nazionalistico, avrebbe gradito un eroe popolare autoctono da contrapporre all’investigatore inglese. Una contrapposizione alla figura di Sherlock Holmes era già stata realizzata con enorme successo proprio nell’Inghilterra di fine Ottocento con l’ideazione dell’amateur cracksman Raffles, affiancato dall’amico Bunny, sorta di Watson vagamente stordito; l’autore era il cognato di Conan Doyle, ovvero lo scrittore e giornalista Ernest William Hornung, padre di un ironico ed elegante personaggio che deruba esponenti della upper class per una attività sportiva non scevra da disprezzo nei confronti delle prede designate, ma che patriotticamente muore nella guerra anglo-boera per poi essere “resuscitato” a furor di popolo: la medesima sorte toccata a Sherlock Holmes.

Arsenio Lupin, figura, come detto, assai più complessa di quella resa dalla caratterizzazione cinematografica e televisiva, se deve qualcosa di intrinseco a Raffles, si manifesta pure quale diretto antagonista del detective inglese, chiamato Herlock Sholmes e dipinto in forma sgradevole come un enfatico borghese, tronfio e non di rado meschino: atto cioè a far risaltare l’autentico gentleman, ossia il rivale francese. I successivi sviluppi dell’eroe di Leblanc ne vedono una metamorfosi derivata non solo dall’esigenza editoriale di avvincere il pubblico. Lupin si trasforma dunque nel titolare, sotto altra identità, di un’agenzia di investigazioni che trova il suo punto forte nella passata esperienza di fuorilegge. E qui Leblanc, da conoscitore della storia segreta di passate realtà ed istituzioni del suo Paese, si ispira senza dubbio alla (vera) vicenda umana e professionale di un autentico mito, ovvero Vidocq, l’uomo evaso da tutte le prigioni di Francia, divenuto poi l’elemento di punta della polizia parigina tra 1811 e 1827 ed infine fondatore della prima agenzia investigativa privata del mondo, il Bureau des Renseignements Universels (la celebre Agenzia Pinkerton di Chicago avrebbe visto la luce solo vent’anni più tardi).

Le metamorfosi di Lupin seguono lo spirito e le esigenze dei tempi. Durante la Grande Guerra il patriottismo di Leblanc si esprime non sotto una forma meramente propagandistica, e così l’ex ladro gentiluomo diviene un deus ex machina assumendo identità fittizie dopo una morte simulata: è il caso degli assai interessanti Triangle d’or e L’île aux trente cercueils. Il primo romanzo tratta di una rete di spie con a capo uno straniero che dalla Francia ha ricevuto rifugio, protezione, possibilità di crearsi un grande patrimonio ed una moglie incantevole ed ignara, impegnata come infermiera in un ospedale militare. La spia, che ripaga l’ospitalità del Paese d’adozione tramando per la sua rovina economica, è sconfitto –con forte simbolismo– da una sorta di brigata formata da soldati mutilati e dunque non più abili per il fronte, guidata da un ufficiale parimenti menomato nel fisico, coadiuvato da un Lupin sotto mentite spoglie. La seconda opera, più cupa già dal titolo –vedi le trenta bare– narra invece di una serie di delitti compiuti da un personaggio che si pretende figlio segreto di Luigi II di Baviera e vuole instaurare in Francia un regno programmatico del terrore.    

Ma il fascino più sottile dell’eroe di Leblanc consiste nel peculiare fondo di esoterismo che traspare in diverse avventure, in primis L’aiguille creuse (1909): la complicata storia che parte da un furto di falsi Rubens, per finire ad un luogo segreto ed inaccessibile dove è custodito il tesoro dei re di Francia: esoterismo a cui si aggiungono, dopo gli slanci patriottici del periodo bellico, non pochi spunti psicanalitici.  Un elemento non esclude l’altro. Nel suo Du Roy perdu à Louis XVII (pubblicato nel 1941, rivisto nel 1967 ed edito in Italia nel 1969), Eric Muraise traccia una summa del mito del Re Perduto, un cardine del repertorio contro-rivoluzionario con radici affondanti nel Medioevo. L’autore, nella premessa che pare singolarmente adattarsi all’Aiguille di cui sopra, scrive “Si potrebbe ritenere che si tratti di uno studio sulla psicologia freudiana della nazione francese. Le testimonianze sono tutte impregnate della mistica del trono o dell’altare, ma non è colpa nostra se non esiste un profetismo ateo o repubblicano. È probabilmente più corretto vedervi un romanzo poliziesco che si snoda lungo l’arco di parecchi secoli.”.

Ci sembra di ritornare a Barbey d’Aurevilly, altro autore di riferimento contro-rivoluzionario, legittimista ferreo, benché disincantato, che portava con sé la tradizione medievale dei Francesi del Nord, per i quali il nemico naturale era inglese e non tedesco. Che Leblanc, normanno come Barbey e come lui vicino alle suggestioni del “Gran Monarca”, non abbia espresso, nell’antagonismo senza esclusioni di colpi tra Lupin ed Holmes, un duello rimandante a motivi più profondi ed antichi?

Bibliografia:

Max Gallo, “Fier d’être français”, Fayard 2006;

André Glucksmann, “Pourquoi je choisis Nicolas Sarkozy”, Le Monde 29 gennaio 2007;

Alexandre Lemarié, “UMP: une “fête de la violette” sarkozyste… et bonapartiste”, Le Monde Blogs 1 maggio 2013;

Beverly Seaton, “The Language of the Flowers: a History”, University of Virginia Press 2012

Henry Hawkins S. J., “Partheneia Sacra”, 1633;

Emmanuel de Waresquiel, “Cent Jours. La tentation de l’impossible. Mars-juillet 1815”, Tallandier 2014;

“Ces églises qu’on détruit”, all’interno del numero speciale “Patrimoine”, “Ceux qui massacrent la France”, Le Point 27 marzo 2014;

Guillaume de Dieuleveult con la collaborazione di Thomas Goisque, “À l’école de la Patrie”, Le Figaro Magazine 30 dicembre 2015;

Eric Muraise, “Du Roy perdu à Louis XVII. Psychanalyse historique d’un mythe National”, Julliard 1967 e Sugar 1969;

Il ciclo di Rocambole è nelle Éditions Bouquins, Robert Laffont 1992 e disponibile in www.ebooksgratuits.com;

Le opere di Maurice Leblanc sono edite da Le Livre de Poche;

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