La ‘modernizzazione’ italiana del Dodecaneso (1912-1943). Di Luca Pignataro.

Rodi il restauro italiano del Palazzo del Governatore.

Nel maggio 1912, durante la guerra italo-turca per il possesso della Libia, le truppe italiane, mediante una combinata operazione di forze di mare e di terra, portarono a termine l’occupazione delle isole ottomane del Mare Egeo convenzionalmente raggruppate sotto la denominazione di Dodecaneso (in greco “dodici isole”), insieme con quella dell’isola di Rodi, la maggiore fra esse ma che, se conteggiata con le altre, porterebbe a tredici il numero delle isole in questione. L’occupazione italiana era iniziata come provvisoria, come pegno di guerra in attesa dello sgombero dei Turchi da Tripolitania e Cirenaica, ma era destinata a protrarsi per decenni. Le autorità militari italiane, pur consapevoli della precarietà della loro posizione, restarono ben presto colpite dalle condizioni di arretratezza in cui le isole versavano dopo secoli di dominio ottomano, e proposero ed attuarono praticamente da subito interventi modernizzatori. Non tennero però sufficiente conto della volontà della maggioranza degli abitanti, di etnia greca e religione ortodossa, di unirsi alla Grecia, vista come la loro madrepatria e il centro della loro libertà dopo la fine dell’odiata oppressione turca. Ne nacque così una situazione potenzialmente esplosiva, dove l’intenzione italiana, via via più netta, di restare in Egeo, non solo per ragioni di mera potenza materiale ma anche e soprattutto come dimostrazione della “missione di civiltà” che la nuova Italia riteneva di potere e dovere svolgere,  fatalmente andava a confliggere con le aspirazioni dei ceti locali più istruiti, custodi dell’ellenicità insieme con la Chiesa ortodossa. Lo scoppio della Prima guerra mondiale avrebbe ben presto rivisto Italia e Turchia su fronti opposti, mentre, dopo la sconfitta dell’Impero Ottomano, gli anni del primo dopoguerra sembrarono prospettare un precario ripiegamento italiano sulla sola Rodi e un imminente compimento del sogno panellenico, destinato però ad infrangersi con la catastrofe dell’Asia Minore (1922). Se anche gli ultimi governi liberali italiani avevano, in modo tortuoso e incerto, tentato di salvaguardare il possesso almeno di alcune isole, insediandovi un governatore civile, con l’avvento al potere di Benito Mussolini l’intenzione italiana di dominio diveniva ormai netta e veniva definitvamente sancita col trattato di Losanna del 1924, che dava vita al Possedimento delle Isole italiane dell’Egeo. Per una curiosa coincidenza, che a ben guardare non è forse tale – dato il contesto internazionale in cui gl’Italiani in Egeo erano chiamati a muoversi -, a realizzare “sul campo” le intenzioni del futuro Duce veniva mandato un diplomatico di estrazione liberale, Mario Lago, il quale vedeva nell’affermarsi del fascismo il rinnovamento del prestigio nazionale, senza però che questo facesse velo alla sua natura di uomo di cultura, di ampie vedute e di indole non aggressiva. Egli iniziò così una raffinata politica di smussamento delle contrapposizioni e allo stesso tempo di inculturazione della popolazione ortodossa delle isole, cercandone di rendere innocue le tradizionali istituzioni che ne avevano preservato il carattere ellenico e facendole godere, nella misura possibile, dei benefici dell’appartenenza ad un Paese “europeo”, “moderno” e allo stesso tempo attento al passato, come l’Italia, dalla quale peraltro tentò di dirigere un flusso migratorio vero l’Egeo. Allo stesso tempo era garantita la simpatia delle minoranze presenti nelle principali isole, l’israelita – che subito aveva visto nell’Italia la garante della propria emancipazione da plurisecolari emarginazioni – e la musulmana, ormai rassegnata al distacco dalla Turchia ma allo stesso tempo desiderosa di scongiurare il passaggio sotto l’aborrito vicino greco. La politica di Lago, che vide il potenziamento delle infrastrutture, una spinta verso il miglioramento delle istituzioni locali ma senza troppo brusche imposizioni, il tentativo di indirizzare le giovani generazioni verso una formazione italiana, segnò effettivamente l’inizio di un cambiamento radicale delle società isolane e persino del paesaggio urbano. Divenne però anacronistica con l’affermarsi di un fascismo che intendeva assumere un volto sempre più totalitario. Fu così che il vecchio governatore alla fine del 1936 venne sostituito con uno dei massimi gerarchi del regime, quadrumviro della marcia su Roma e potenziale rivale di Mussolini, Cesare Maria De Vecchi conte di Val Cismon, il quale si presentò come il garante di una superiore giustizia “imperiale” ma anche come colui che era chiamato a realizzare una fusione sempre più stretta fra Possedimento e Italia. De Vecchi mise dunque in opera una politica di radicale cancellazione delle tradizionali consuetudini educative e istituzionali delle comunità locali, politica che, mentre segnò paradossalmente dei passi in avanti sulla strada della secolarizzazione e dell’introduzione dello “Stato moderno” con i suoi compiti e le sue prerogative, ad esempio nel campo dell’istruzione, si rivelò però del tutto sgradita alla maggioranza degli abitanti greco-ortodossi, i quali, al di là della preoccupazione del governatore per il loro benessere materiale, non accettarono l’implicito attacco al cuore della loro identità spirituale ed etnica, che dunque non costituiva un qualcosa di “sovrastrutturale” ma rappresentava invece un fattore costitutivo del loro essere. Per un altro infelice paradosso, proprio in questi anni (dal 1938) il regime fascista riusciva a ferire la comunità dodecanesina che più di tutte si era mostrata filoitaliana e sin allora aveva dato ripetute attestazioni di fedeltà al fascismo: quella israelita. Lo scoppio della Seconda guerra mondiale non fece che precipitare i contrasti: a quel punto divenne evidente che il destino del Dodecaneso faceva parte della posta in gioco. L’Italia perse, e il suo crollo trascinò con sé anche il dominio delle isole egee, passate definitivamente alla Grecia anelante a cancellare la parentesi “straniera”. Ciò fortunatamente non valse a distruggere del tutto un patrimonio non solo di infrastrutture ma anche di relazioni umane e di scambi culturali che aveva ormai segnato indelebilmente il Dodecaneso.

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