Stati Uniti: ciò che l’Europa ama e odia. Di Fabio Bozzo

Bandiera a stelle e strisce e Statua della Libertà: le immagine più iconiche degli Stati Uniti d'America

Pregi e difetti degli americani, curioso “fenomeno” etnico, culturale e religioso, ma dall’identità prettamente europea, che suo malgrado -data la sua inusuale ed intrinseca forza- si è ritrovato alla guida dell’Occidente. Il tutto tra mille polemiche e malcelate invidie e antipatie.

Albert Einstein disse “L’americano persegue l’ambizione ed il futuro, molto più di quanto lo faccia l’europeo, la vita per lui non è mai essere, ma sempre diventare. L’atteggiamento è gioioso e positivo verso la vita. Il sorriso sui volti della gente nelle fotografie è sintomatico di una delle più grandi qualità dell’americano”.

Il grande fisico riassunse così il complesso rapporto tra le due principali sponde della Civiltà Occidentale, quelle rispettivamente Est ed Ovest del Nordatlantico. Sottolineiamo volutamente il concetto di “comune Civiltà” perché, al netto del diffuso antiamericanismo nostrano, l’Occidente è senza dubbio un unicum che, nato in Europa, dal ‘400 in poi ha progressivamente plasmato a sua immagine e somiglianza (con le inevitabili differenziazioni regionali) gran parte del mondo. Questo è il motivo per cui oggi un europeo può andare in Australia, Nuova Zelanda, Israele o nelle grandi città siberiane, piuttosto che in Canada e negli Stati Uniti (la situazione sudamericana è più variegata) e trovare in loco lo stesso sistema di vita nel quale è cresciuto.

Non è la prima volta che gli europei compiono un simile miracolo. Tra il 775 ed il 272 a.C. gli antichi greci trasformarono le coste dell’Italia meridionale in quella che tutti noi abbiamo conosciuto sui libri di scuola come Magna Grecia. Su scala planetaria è indubbio che l’espansione dei nostri avi dal Vecchio Continente abbia creato una sorta di “Magna Europa”, ovvero l’europeizzazione delle terre suddette attraverso il lavoro ed i figli di un gran numero di europei trapiantati.

Malgrado l’innegabile compatibilità tra le due sponde dell’Atlantico, tuttavia, in Europa permane un diffuso senso di antiamericanismo. Certo, avendo gli USA una proiezione geopolitica mondiale suscitano odio e amore in tutto il pianeta, ma anche nel rancore vi sono grosse differenze. Infatti nel mondo islamico Washington è vista semplicemente per quello che è: il rappresentante attualmente di maggior peso della Civiltà cristiana (per di più alleato storico dei sionisti!), ma questo non garantisce certo un trattamento di favore agli altri Paesi non musulmani. Le ormai innumerevoli stragi jihadiste in tutta Europa ne sono la prova grondante di sangue occidentale, senza contare anche i massacri perpetrati in Nigeria, nelle Filippine e via dicendo. Si può dire che le masse islamiche, con la loro barbarie belluina e la linearità di un pensiero che non riesce ad andare oltre il bidimensionale, abbiano sagacemente o casualmente colto il nocciolo della questione: l’Occidente, lo sì voglia o no, è un singolo insieme geopolitico, per quanto variegato. Ergo colpire il World Trade Center, sorta di vetrina mondiale del benessere dell’uomo bianco, è stato certamente più spettacolare che macellare i civili per le strade che vanno da Barcellona a Mosca, ma fa parte della stessa guerra di civiltà che Maometto ha dichiarato al resto del mondo nel 622 d.C.

Differente è l’antipatia verso gli USA della Cina, il gigante più o meno comunista. Dopo aver combattuto e “pareggiato” una dura guerra in Corea tra il 1950 ed il 1953, l’Aquila americana ed il Dragone giallo sono divenuti alleati de facto, fin dai tempi dello storico viaggio a Pechino del Presidente Richard Nixon (1913-1994), effettuato per di più con Mao Tse-tung (1893-1976) ancora in vita e la sua ideologia saldamente al potere. Tale sodalizio era pragmaticamente tenuto insieme dalla comune paura dell’Unione Sovietica: la rottamazione storica dell’URSS ha, di conseguenza, peggiorato le relazioni tra i due giganti. Tuttavia la dirigenza che oggi guida la Città Proibita vede nell’America un concorrente ed in parte un rivale, ma non un mortale avversario ideologico. Certo il messaggio di libertà, che gli Stati Uniti emanano con la loro stessa esistenza, infastidisce un’oligarchia a partito unico che governa con pugno di ferro un miliardo e 368 milioni di persone. Non solo. Con la fine della Guerra Fredda e la frontiera a Nord sostanzialmente sicura Pechino ha visto crescere i suoi appetiti nell’Oceano Pacifico. Da qui la mai completamente accettata esistenza di Taiwan indipendente, l’annosa questione delle isole Spratly ed i sogni egemonici in Birmania ed Indocina. Tutte manovre che hanno fatto sì che Washington, per tutelare il suo ruolo nel Sudest asiatico ed impedire l’eccessivo allargamento di quella che resta una dittatura, abbia reagito creando una vera e propria alleanza di contenimento. Il ruolo di questo “club anticinese”, composto essenzialmente da Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Filippine e Vietnam (la Storia ha il senso dell’umorismo), è essenzialmente quello di “tappare” l’espansione oceanica di Pechino, onde impedirle di trasbordare dalla sua già immensa dimensione continentale. Non dimentichiamo, del resto, che gli Stati Uniti sono i veri eredi dell’Impero Britannico, ragion per cui, finché saranno una potenza di livello mondiale, metteranno sempre in cima alle priorità il potere oceanico.

Uno scontro tra l’Aquila ed il Dragone è dunque solo questione di tempo? Probabilmente no. Non saranno le problematiche appena viste (per quanto da non sottovalutare) ad erigere una nuova Cortina di Ferro in mezzo al mondo. Perché? Perché i cinesi, dopo aver attraversato un XX secolo degno di un film dell’orrore, hanno, pur con enormi coni d’ombra, raggiunto degli spettacolari successi economici. Inoltre la finanza mondiale ha intrecciato i destini della Cina e dell’Occidente in modo assai difficilmente districabile.

Pragmatismo, comune paura del Risveglio Islamico, voglia di benessere ed economie troppo interdipendenti (meraviglioso risultato, questo, del libero commercio): tali gli ingredienti che, salvo imprevisti, terranno sotto la soglia di pericolo i futuri inevitabili contrasti sino-americani.

Vi è poi un altro tipo di sentimento anti yankee, ovvero quello diffuso nei Paesi in via di sviluppo e, per usare un termine fuori moda ma sempre efficace, del Terzo Mondo. Tralasciando il panorama dell’Africa nera, avente particolarità uniche rispetto al resto del globo, l’antiamericanismo di coloro che il cattocomunismo ha ribattezzato “gli ultimi” e “le masse umiliate” trova il suo maggior vivaio nell’America latina. Le terre a Sud del Rio Grande sono, innegabilmente, le grandi perdenti nella lotta per la supremazia di quello che Cristoforo Colombo (1451-1506) definì il Nuovo Mondo. Le ragioni del divario, che parte dall’era coloniale per poi rafforzarsi negli ultimi 150 anni, sono molteplici. Riassumere l’evoluzione antropologica e di conseguenza socio-politica delle due Americhe è qui impossibile, cercheremo quindi di schematizzare le cause di due oggettive vittorie e sconfitte di fronte alla Storia.

Le differenze principali tra i due subcontinenti sono state la religione dei colonizzatori, il diverso peso demografico delle popolazioni precolombiane sopravvissute alla conquista e, infine, i diversi scopi imperiali delle potenze europee interessate al dominio delle Americhe. Per semplicità ci limiteremo ad analizzare le esperienze di Gran Bretagna, Francia, Spagna e Portogallo, tralasciando le interessanti ma minoritarie avventure di altri Paesi.

Dopo la prima fase prettamente esplorativa le quattro suddette Nazioni iniziarono una gara per il dominio dell’Atlantico, che si concluse con l’indelebile lascito inglese nei futuri Stati Uniti e Canada, francese in Québec, portoghese in Brasile e spagnolo nel resto dell’America latina. Ma il percorso coloniale non avrebbe potuto essere più diverso, sia per il differente clima delle regioni conquistate che per le scelte operate dai vari Governi europei. Da un lato Gran Bretagna e Francia puntarono prima di tutto a colonizzare il Nordamerica con quanti più cittadini d’etnia bianca fosse possibile, onde trasformare i loro territori d’oltre Atlantico in cloni della madrepatria. Sebbene il successo abbia arriso ai britannici, relegando l’impatto francese ad un angolo orientale del Canada, l’intenzione dei transalpini fu paragonabile a quella dei loro concorrenti anglosassoni. Con la grossa eccezione del Sud statunitense il Nordamerica presenta un clima boreale, ergo la possibilità instaurare piantagioni di colture tropicali bisognose di schiavi neri era preclusa. Questo fece sì che nelle zone anglo-francesi l’agricoltura, e successivamente l’industria, finisse col riprodurre l’originale europeo, creando una sempre maggior richiesta di braccia dal Vecchio Continente.

Spagna e Portogallo invece all’inizio videro il Nuovo Mondo come una semplice zona di saccheggio di materie prime, fossero esse allo stato naturale o accumulate dagli amerindi pagani. Solo in seguito importarono il modello della piantagione, che, a causa del clima e del divieto ai coloni di coltivare niente che potesse fare concorrenza diretta alle madrepatrie, ebbe bisogno fin da subito di numerosa manovalanza schiava, ovvero africana. A ciò si aggiunse la maggior resistenza demografica delle popolazioni precolombiane, molto più numerose a Sud del Texas rispetto che a Nord. Risultato? Presenza precolombiana ed africana più numerosa, minor industrializzazione e conseguente maggiore dipendenza politica dalla madrepatria europea, minore, come conseguenza finale, colonizzazione europea dell’America latina.

Scomodando il sempre attuale “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” di Max Weber (1864-1920), è evidente che, ultima ma non per ultima, anche la religione contribuì ad approfondire il solco tra le due Americhe. Il Nord infatti venne plasmato essenzialmente dal pensiero calvinista, imprenditoriale, vincente e sempre rivolto in avanti, mentre il Sud rimase legato ad un cattolicesimo iberico, marziale ma per niente elastico ed istintivamente avverso a qualunque esperimento evolutivo.

Dopo 500 anni dal viaggio di Colombo la differenza del successo tra le due Americhe resta enorme, sebbene meno abissale rispetto all’inizio XX secolo. Caratteristica antipatica dei popoli latinoamericani è la diffusissima incapacità d’analizzare serenamente il passato, onde poter affrontare il futuro. Con qualche nobile eccezione (in particolare in Cile) assistiamo infatti a due secoli di piagnisteo contro i gringos ed i los americanos, che avrebbero perennemente sabotato lo sviluppo dei Paesi latinos per interesse finanziario e puro complottismo. Di conseguenza tutti i fallimenti del Sudamerica, gli innumerevoli colpi di Stato, le pessime pianificazioni economiche, il livello democratico quasi sempre assai scarso e via dicendo…sono sempre colpa di qualcun altro, preferibilmente se bianco e di lingua inglese. La stessa squallida prestazione politico-militare dell’Argentina nella Guerra delle Falkland del 1982 è figlia primigenia di questa mentalità disastrosa.

In tale atmosfera piena di rancore, inevitabilmente, si sono inseriti i marxisti ed i profeti della “teologia della liberazione” (corrente cattolica che cerca di fondere cristianesimo e comunismo), che hanno pensato bene di inquinare ulteriormente le coscienze di masse povere e già abbastanza sfortunate.

Il risultato di tutto ciò è che, sebbene il Sudamerica abbia recentemente fatto degli apprezzabili passi in avanti, saranno ancora a lungo i latinos a cercare d’emigrare in quegli Stati Uniti tanto denigrati, non certo i gringos a fare il viaggio inverso. Questo almeno fino a quando le coscienze dei sudamericani appoggeranno dichiarazioni come quelle dell’ex Presidente brasiliano Inàcio Lula (1945-vivente), che durante la crisi economica del 2009 disse che la colpa era di “gente bianca con gli occhi azzurri”. Oggi Lula rischia nove anni e mezzo di carcere in Brasile per corruzione…

Siamo finalmente giunti in Europa, tappa finale e più importante del nostro viaggio “USA pro o contro”. L’antiamericanismo per come lo intendiamo noi nacque in Francia al tempo del Secondo Impero di Napoleone III (1808-1873). Motivo degli strali parigini fu una questione puramente commerciale, riguardante l’importazione dagli USA di cavalli da guerra. Tuttavia, da parte transalpina, non si trattava ancora di un sentimento ben definito, quanto del livore mai sopito verso gli anglosassoni, prima britannici e poi americani, per aver battuto Parigi nella gara a divenire la prima potenza mondiale. Per i francesi infatti, così come per gli spagnoli prima ed i tedeschi ed i russi dopo, dover ammettere di essere stati sconfitti da quella che Napoleone I (1769-1821) definì “Nazione di bottegai” resta una ferita nel loro smisurato orgoglio.

Con il passaggio di consegne a prima potenza globale dall’Impero Britannico agli Stati Uniti (a seguito delle guerre mondiali) gli strali hanno cambiato bersaglio, ma non sostanza. Il repertorio è arcinoto: l’America domina la finanza internazionale, l’America crea le scie chimiche ed il buco nell’ozono, gli ebrei americani fanno questo e fanno quello, in realtà non sono mai andati sulla Luna, gli americani sfruttano i popoli di colore. Eccetera, eccetera…

La prima crisi concettuale agli antiamericani la si può provocare chiedendogli perché i loro tanto odiati USA hanno raggiunto la forza necessaria a fare tutto ciò di cui sono accusati. È scientificamente dimostrato che non troveremo mai un antiamericano disposto a dire che gli Stati Uniti siano dove sono grazie alla loro forza ed al loro intelletto. Non viene quindi da chiedersi perché questi presunti buzzurri ignoranti abbiano, secondo i loro denigratori, il potere di fare liberamente a pezzi il mondo? Ma si sa: agli odiatori di professione non interessa la logica. E chi sono questi europei disposti a qualunque figuraccia intellettuale pur di dimostrare che dietro ogni male dell’Universo vi sia uno statunitense, possibilmente accompagnato da un ebreo? Essenzialmente tre tipi di persone, accomunati dall’essere seguaci di filosofie politiche sconfitte dalla Storia: gli estremisti della destra statalista (che con grande semplificazione chiameremo “fascisti”), i relitti del fallimento marxista e, infine, quelle sezioni della Chiesa che cercano di trovare un continuum ideologico tra cattolicesimo, da un lato, e fascismo o comunismo dall’altro.

Sia i fascisti che i comunisti odiano gli USA perché questi, nella Seconda Guerra Mondiale prima e nella Guerra Fredda poi, sono stati determinanti a distruggere il loro sogno. Anche qui, non volendo ammettere che la vittoria dell’America e dei suoi alleati sia stata il frutto della potenza originata dal modello politico-economico degli Stati Uniti, non possono far altro che accampare scuse più o meno elaborate, ma che comprendono tutte una certa dose di complottismo e vittimismo (quest’ultimo, bisogna riconoscerlo, meno a destra che a sinistra). Dal canto loro le parti “ad ideologia spinta” del mondo cattolico in sostanza si accodano ai loro sodali laici nelle accuse all’America, con l’unica aggiunta di criticare la civiltà laica d’oltreoceano e la sua matrice per lo più protestante (quindi prettamente capitalista).

Tuttavia in Europa vi è anche qualcosa che in Sudamerica, e tantomeno nel mondo islamico, è ancora assai poco radicato: una forte componente filoamericana. Nell’era parzialmente post ideologica che stiamo vivendo è difficile dare una chiara etichettatura a quelle forze politiche che vedono negli USA un alleato, forse un amico e, a volte, persino un modello. Questo in parte perché l’imponenza mediatica degli Stati Uniti e la loro presenza massiccia in quasi ogni questione globale (solo Roma antica ebbe, nel suo contesto, un peso simile) fa sì che “l’argomento America” sia uno di quelli che rischiano più di dividere che di unire. E un’organizzazione politica, per ovvie ragioni, non dovrebbe mai permettersi eccessive divisioni interne. A ciò si aggiunga che è molto più facile denigrare quello che si odia, piuttosto che esaltare quello che si ammira. Meglio quindi parlarne il meno possibile. Tuttavia, al netto degli schieramenti politici e con inevitabile approssimazione, possiamo catalogare lo schieramento filoamericano del Vecchio Continente entro le due famiglie della destra classica e non fascista: liberale e conservatrice. Ogni Paese europeo possiede una sua storia politica, di conseguenza i liberalconservatori hanno un peso differente in ogni dove, ma ovunque la loro presenza è un dato di fatto.

L’armamentario verbale degli atlantisti, ovvero coloro che valutano indispensabile mantenere il sodalizio tra le due sponde dell’Atlantico, è molto meno spettacolare e per nulla aggressivo in confronto a quello degli antiamericani. In effetti non è facile “bucare lo schermo” usando solo la logica, se di fronte hai chi parla di riscaldamento globale, complotto giudaico, bomba etnica per sterminare solo gli africani, marziani nascosti nell’Area 51 ed armi atmosferiche per colpire i Paesi che non si piegano al Grande Satana di Washington (termine coniato non a caso dai fondamentalisti islamici iraniani).

Tuttavia anche la suddetta logica ha il suo peso. È un dato di fatto che senza gli Stati Uniti oggi l’Europa sarebbe una sorta di condominio nazi-stalinista; è innegabile che dopo la Seconda Guerra Mondiale la porzione occidentale del Vecchio Continente sia stata sfamata e ricostruita a tempo di record in gran parte grazie agli aiuti del celebre Piano Marschall (17 miliardi di dollari in merci e capitali statunitensi donati dal 1948 al 1952); è banale ricordare che l’Unione Sovietica non abbia mai osato trasformare la Guerra Fredda in un’invasione “calda” dell’Occidente fondamentalmente a causa del deterrente bellico a stelle strisce, così come il confronto comunismo-capitalismo è stato vinto da un Occidente che aveva (ed ha tutt’ora) negli USA il suo massimo rappresentante. Infine nessuno è ancora riuscito a trovare un antiamericano disposto a rinunciare al proprio tenore di vita dato dal benessere capitalista. Meglio sparlare del “maledetto consumismo yankee” che rinunciarvi: le prediche, si sa, è molto più facile farle che seguirle. Ancora oggi, di fronte al Risveglio Islamico, vediamo un’Europa imbelle ed impaurita, che cerca solo d’essere l’ultima vittima nel pasto del Polifemo musulmano, mentre gli Stati Uniti, per quanto incoerentemente e spesso malvolentieri, hanno il coraggio di scendere in guerra per difendere il nostro comune sistema di vita.

Questo breve ed incompleto elenco di incontestabili attestati di merito agli Stati Uniti non significa certo che l’America sia priva di difetti. Le passate lotte di Washington contro le ideologie totalitarie sono state condotte con una buona dose di idealismo, ma una leadership scafata come quella d’oltreoceano non ha nemmeno mai perso di vista il proprio interesse nazionale (cosa di cui nessuna persona onesta può fargli colpa). Al tempo stesso molte delle azioni geopolitiche americane sono state condotte con un pressapochismo imbarazzante e senza quella malizia che ha sempre contraddistinto gli “zii” britannici ai tempi del loro Impero. Del resto è inevitabile che una Nazione relativamente giovane (ma molto stabile politicamente, tanto da avere una delle costituzioni scritte più antiche del mondo) e divenuta superpotenza da meno di cent’anni non commetta degli errori. Evidentemente hanno commesso meno sbagli di quasi tutti gli altri, o gli equilibri geopolitici di oggi non sarebbero quelli che sono.

Dopo questo nostro breve viaggio possiamo, infine, porci la grande domanda: che cosa sono oggi e che direzione stanno prendendo gli Stati Uniti?

La prima parte della risposta l’abbiamo già vista all’inizio dell’articolo. Gli USA sono una Nazione di dimensioni continentali, obbligati dal loro stesso peso specifico ad essere una superpotenza, che nell’essenza rappresentano un clone della Vecchia Europa, sebbene in questo “figlio d’oltremare” sia i pregi che i difetti europei sono elevati al quadrato. Tuttavia, nel dire che gli USA sono essenzialmente un’Europa trapiantata, dobbiamo aggiungere due parole inquietanti: per ora. Ad oggi la popolazione bianca degli Stati Uniti è tra il 60 ed il 70% del totale. Lo scarto dipende dal diverso metro di calcolo per alcune comunità. Prendendo per buona la seconda e più ottimistica cifra ci si rende subito conto che, al netto delle diverse natalità di bianchi, neri e ispanici (elencati in ordine crescente), la situazione potrebbe volgere presto ad un cambiamento epocale. Se gli USA sono diventati quello che sono ed hanno raggiunto i traguardi attuali lo si deve, con buona pace della sinistra mondialista ed egualitarista, soprattutto al loro retaggio antropologico. Ergo, se la demografia americana dovesse diventare più simile a quella messicana o congolese, un giorno avremmo qualcosa, al posto degli Stati Uniti, più simile al Messico o al Congo che alla Vecchia Europa. Sic et simpliciter. Tuttavia un faro di speranza si è acceso. L’elezione a Presidente di Donald Trump (1946-vivente), pur con tutte le contraddizioni del personaggio, ha rappresentato, né più né meno, la reazione di quel suddetto 60/70% di americani, nauseati da otto anni di buonismo socialista e terzomondista obamiano e resisi finalmente conto di quanto sia in pericolo il Paese costruito dai loro avi. Ciò dimostra anche che, di fronte alla Grande Sostituzione Etnica oggi in atto contro TUTTO l’Occidente, il popolo statunitense abbia dato un colpo di reni prima di quelli europei, con l’unica eccezione dei britannici ed il loro voto pro BREXIT (non sorprende che gli inglesi abbiano fatto da battistrada, essendo in più di un campo i veri “genitori” degli americani). Inoltre la battaglia dell’attuale Presidente, che contando solo sulle sue notevoli risorse ha umiliato l’intero establishment politico USA, garantendosene l’odio eterno, ha dimostrato che la democrazia americana è assai più solida di quanto i suoi denigratori fascio/marxisti ammettano e sperino.

Riuscirà Trump ad impedire la nascita, ed il collasso immediatamente successivo, degli Estados Unidos de América? Se non altro ci sta provando. Anche il tentativo di ribadire le radici cristiane della Grande Repubblica ed il suo riavvicinamento ad Israele, dopo la pessima stagione obamiana, vanno nella stessa direzione: far sì che l’America torni a fare e resti per sempre l’America, quella terra di libertà dai grandi pregi e grandi difetti, che si è ritrovata alla guida della Civiltà Occidentale e che sarà sempre europea nel DNA. O non sarà affatto.

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