Epitome Codicis Justiniani. Di Chiara Crisci.

L'Impero BIzantino nel 555 d.c.

Con l’attuazione della riforma giustinianea, si formano nuove tendenze dell’attività scientifica sulle compilazioni legislative con impatto decisivo sull’esegesi intorno le Istituzioni. Una sorta di “rinascimento giuridico”avente come fine ultimo la restaurazione della romanità. 

Osservazioni introduttive.

Nell’anno 527, un evento dai contorni estesi veniva a compimento sullo scranno imperiale d’Oriente. Ex ante correggente dello zio Giustino, poi in seguito autonomamente, si imponeva un uomo dalla identità nebulosa, nativo di quella stessa Illiria da cui era disceso Diocleziano, colui che impavidamente aveva posto severe minacce all’impero profilandone la rovina, così si distingueva dalla massa dei “semplici oratori” Giustiniano. Bruciante di romanità, egli, a fronte di una negativa contingenza devastante l’Impero, attaccato dai barbari sul versante Occidentale ed incalzato sistematicamente da Slavi e Persiani ad Oriente, operò nel segno della restaurazione della potenza di Roma con il motto proprio “Legibus et armis”.

Nel 529, con grande acribia e minuziosità nella raccolta delle leges, Giustiniano promulgò il Codex; mentre l’anno seguente egli si impegnò nel raccogliere e riordinare gli iura, dove aveva fallito Teodosio. Finalmente nel dicembre dell’anno 533, l’opera, rubricata come Digesta o Pandectae,  seme dello spoglio di circa duemila opere di antichi giureconsulti messe a frutto, entrava in vigore come vero e proprio Codice in tutta la sua pienezza e completezza. Ma la produzione giustinianea non si arrestò a tale notevole “manufatto”. Giustiniano, fino al 565, anno della sua scomparsa, generò poi le Novellae costitutiones (raccolte da privati) tra cui spiccano per importanza: l’Epitome Juliani e l’Authenticum dove si scorgono novelle greche tradotte.

Nonostante il poderoso impegno profuso sul fronte legislativo, Giustiniano, come è noto, operò anche su quello militare e politico, puntando, contrariamente al parere di alcuni suoi consiglieri, alla riconquista dell’ex Impero Romano Occidente. Ma nel 534, l’idea di restaurazione di una ‘romanità’ mediterranea appariva ancora un sogno, pur disponendo, l’imperatore, di forti armate e di ottimi generali. l’Italia era ancora in mano ai barbari ed anche vittima di una politica assai ambigua varata nel 506 dal re Alarico II il quale aveva emanato la Lex romana Wisigothorum (meglio conosciuta con il nome “popolare” di Breviarium Alaricianum) poi abrogata da re Recesvindo il quale provvide ad emanare la Lex Wisigothorum Recesvindiana valida sia per romani che visigoti: un testo che compendiava sia fonti romane che fonti gotiche in una sorta di “babele” del diritto zeppa di incompletezze ed incongruenze e di non metodica ed agevole interpretatio per via della fretta con cui era stata concepita ed emanata.

Germi di un ordinamento giuridico profondo quale sostrato pregiustinianeo.

Una tra le forze centripete, di notevole capacità aggregativa, che ha contribuito a radicare la potestà d’imperio del diritto teodosiano[1] fu la Chiesa[2]. Quest’ultima, pur servendosi in maniera perentoria del codice giustinianeo, rimase infatti aggrappata alla compilazione teodosiana per i privilegi da essa derivati. E fu proprio il ‘filtro’ ecclesiastico ad indurre il legislatore longobardo dell’epoca ad accreditare pedissequamente disposizioni teodosiane in evidente contrasto con analoghe norme giustinianee. Prendiamo ad esempio la norma sugli impedimenti matrimoniali, con la proibizione delle nozze fra cugini, sancita dal Codice Teodosiano e poi abrogata da Giustiniano. Nel secolo VIII, Liutprando  accoglierà nel suo editto la norma teodosiana, enunciando espressamente, con la testimonianza di Dio: “papa urbis Romae… per suam epistolam nos adortavit, ut tale coniugium fieri nullatinus permitteremus[3]. Altro elemento da non sottovalutare fu la consuetudine, manifestazione che si rileva ineluttabilmente in tutte quelle epoche caratterizzate dall’esistenza di un potere pubblico né energico né vigile, ovvero incapace di produrre norme solide, mirate e corrispondenti a specifiche occorrenze. Nel’epoca in cui la legislazione giustinianea si surrogò alla teodosiana – periodo caratterizzato negativamente dai contraccolpi dell’invasione longobarda, si assistette al più fruttuoso affermarsi di pratiche prasseologiche al posto di regolari ed emendate applicazioni di una legislazione ancora vergine. In tali consuetudini confluirono istituti che nella legislazione giustinianea si mostravano già sopiti o che erano posti in essere attraverso forme e spiriti intimamente mutati. Vi è poi da considerare, che dalle origini di Roma, Iuppiter era al vertice dell’ordinamento cittadino quale “esistenza inter-etnica” vigilante su tutto il sistema giuridico-religioso, di cui erano già “virtualmente” parte anche altri popoli aventi, stando a Cicerone, multa iura communia[4] . Secondo il diritto romano, la familia rappresentava un nucleo assai più ampio rispetto al nostro presente. Essa era infatti aperta ad integrare, e riconoscere, come figli anche persone non germogliate affatto in essa, ma adottate/adrogate. Il pater, cioè il padre di famiglia, godeva di notevole potestà, potendo, egli, concedere libertà e cittadinanza a qualsiasi servo straniero inserito nella familia, tramite il criterio nominativo dell’asylum.

La compilazione giustinianea: Il primo codice.

Il cammino delle “codificazioni”, varato da privati ed in seguito proseguito da Teodosio II, trovò il suo culmine costitutivo nell’attività legislativa di Giustiniano.

L’opera legislativa di Giustiniano rientrava in un ben più ampio disegno politico dello stesso imperatore: un progetto – come si è accennato – chiaramente teso alla restaurazione politica e militare dell’Impero, da Occidente ad Oriente. In una prima fase, Giustiniano si mosse in un’ottica di tradizione “teodosiana”, limitandosi a concretizzare una più lineare e diretta cognizione delle costituzioni imperiali per mezzo della redazione del Novus Codex Iustinianus , ordinata nel 528 d.C., con la const. Haec quae necessario, codice promulgato ben quattordici mesi dopo, nell’aprile 529, con la const. Summa reipublicae.

Alcuna innovazione veniva apportata circa il sistema dei iura, dove rimaneva in vigore la legge delle citazioni, fatta propria dal Novus Codex. Nel periodo compreso tra il 529 ed il 530, Giustiniano intervenne all’interno del citato sistema, e al metodo di decisione posto dalle sententiae dei prudentes classici introdotto da Valentiniano III, l’imperatore avvicendò, con una costituzione ad hoc, una propria soluta, in grado di conciliare e mediare le sententiae, e di tenere conto delle mutate condizioni dell’ordinamento giuridico nel suo complesso: soluzioni, queste, che andarono a formare le c.d. Quinquaginta decisiones. In questo contesto temporale e operativo, I Digesta costituiscono certamente la parte più importante della compilazione giustinianea, quella che più di ogni altra ci ha consentito di apprendere e metabolizzare intellettualmente il Diritto romano e sulla quale si è fondata per secoli l’elaborazione successiva del sopracitato Diritto. Risulta quindi naturale che l’opera giustinianea abbia posto all’attenzione degli studiosi molteplici problemi, che tuttavia, in tale sede, non possono essere discussi. Detto ciò, non si può tuttavia prescindere da una seppur rapida trattazione della cosiddetta “incognita” delle interpolazioni, cioè delle modifiche arrecate dai Compilatori ai testi della giurisprudenza classica, all’atto del loro inserimento nel Digesto. Di tali interpolazioni parla lo stesso Giustiniano, riferendo che esse furono numerose e di notevole spessore (multa et maxima: Const. Tanta). Per molti secoli, gli studiosi del Corpus iuris, tormentati di trarre dal Digesto principi ancora vivi e vitali ai fini dell’applicazione pratica, non si posero (con l’unica eccezione della Scuola Culta, fiorita in Italia e poi in Francia nei secoli XV e XVI) il problema delle degenerazioni testuali. Problematica non di poco conto, riemersa di prepotenza alla fine dell’Ottocento (con il progressivo tramontare delle applicazioni attuali della legislazione giustinianea e quindi con l’affermarsi di uno “studio” storico della Compilazione) e capace di conquistare d’impeto immediato l’interesse della stessa dottrina; a tal punto che una lunga fase dei nostri studi (all’incirca l’ultimo ventennio del XIX secolo ed il primo trentennio del XX) venne fu dominata proprio dalle indagini interpolazionistiche, che finirono con il dar vita ad una vera e propria “caccia alle interpolazioni”: pratica in cui la suddetta indagine – lungi dal rappresentare uno strumento per la ricostruzione storica del diritto romano – finì per divenire una pratica (seppur colta ed accademica) a se stessa. Attraverso una decisa opposizione della dottrina, soprattutto quella italiana ( a questo proposito, un merito particolare va attribuito alla Scuola di Salvatore Riccobono, grande romanista siciliano) la fase “interpolazionistica” degli studi relativi al Diritto romano può dirsi completamente chiusa, magari rischiando, allo stato attuale, di cadere nell’eccesso contrario, ammettendo senza riserve la classicità di tutto il contenuto del Digesto, ma abbandonando la confessione che in materia fece lo stesso Giustiniano. Trattasi, ovviamente, di un evento non trascurabile, ma da affrontare prudentemente e passo dopo passo, in quanto risulta chiaro che la diagnosi sulla “classicità”, ovvero la genuinità dei testi dei giuristi classici contenuti nel Digesto, appare preliminare e propedeutica a qualsiasi studio che su di essi si voglia esplicare o applicare.

Ma andiamo oltre. La tradizione del testo del Digesto si basa essenzialmente sulla Littera Fiorentina: novecentosette fogli pergamenacei vergati in onciale B-R, scrittura diffusa non soltanto in Costantinopoli, come erroneamente un tempo si sosteneva, ma anche utilizzata per la compilazione di testi giuridico-letterari prodotti sia in Egitto che in Occidente. A questo proposito, sembra che un attento studio della fascicolazione del codice in rapporto al contenuto delle partes e quindi al curriculum di studi del diritto rispettato sino al 557, possa indurre a datare la realizzazione del manoscritto tra il 533 ed il 557. Trattasi dunque di una edificante copia pressoché coeva alla promulgazione, anche se non si è del tutto certi che essa sia proprio un esemplare “ufficiale” proveniente dalla capitale dell’impero.

Negli anni in cui proseguirono i lavori di compilazione del Digesto, furono emanate multiple costituzioni imperiali, talora connesse con tali lavori, che si venivano congiungendo alle già menzionate Quinquaginta decisiones. Di conseguenza, risultò quindi utile se non indispensabile una nuova edizione della raccolta delle costituzioni imperiali: opera promulgata con la const. Cordi del 16 novembre del 534 d.C., che impianta il Codex repetitae praelectionis, cioè quello venuto in nostre mani. Le alternanze testuali delle più ricche parti dell’opera legislativa di Giustiniano (quelle che hanno dato vita a ciò che gli studiosi medievali avrebbero chiameranno Corpus iuris civilis) risultano del tutto differenti. La tradizione superiore appare, senza dubbio, quella del Digesto, mentre quella del Codex risale ai secoli XI e XII, e quella delle Institutiones può avvalersi di manoscritti risalenti ai secoli IX e X.

Per quanto concerne le Novellae queste ci sono pervenute tramite differenti raccolte. La più importante, la Collezione delle 168 Novellae, o Marciana, non contiene soltanto constitutiones di Giustiniano: di queste ultime ne riporta 158 (a dire il vero 156, per il ricorrere di due duplicazioni), nella lingua originale con la quale sono state promulgate, e cioè nella maggior parte dei casi, in greco. Vi è poi una raccolta, utilizzata nella giurisprudenza medievale, l’Authenticum, che conserva 134 Novellae, nel testo latino, nei rari casi in cui l’originale era stato promulgato in tale idioma, od in una traduzione latina del testo greco, letterale ma non sempre di attendibilità certa.

Rispetto al materiale contenuto nella compilazione giustinianea si pone i problema del metodo da seguire nell’utilizzarlo in sede storica per la ricostruzione dell’esperienza giuridica classica. Fino agli inizi del nostro secolo, il Corpus iuris  è stato sottoposto ad un’interpretazione  armonizzante, con lo scopo principe di ricavarne un sistema normativo da applicarsi nella prassi.

E’ nel secolo scorso che, in concomitanza con il progressivo venir meno del valore del Diritto romano come Diritto positivo, si pone la tendenza a considerare sotto il profilo storico il materiale contenuto nella compilazione giustinianea (e quello proveniente dal mondo romano): tendenza inderogabilmente affermatasi il 1° gennaio 1900, quando l’entrata in vigore del codice civile tedesco (BGB) fece cessare la vigenza positiva del diritto romano all’interno dei confini dell’Impero prussiano. Si attestava così agli albori del XX secolo, come metodologia generalmente accettata e riconosciuta, quella volta all’ approfondimento delle “aggiunte” apportate dai compilatori ai passi utilizzati, in ossequio alle regole direttive ricevute. A partire dagli anni Cinquanta, la prudenza è ritornata di grado in grado a dominare l’esercizio della critica testuale, laddove è rimasto acquisito il dato –peculiare- che la “storicizzazione” dello studio delle fonti giuridiche romane non si esaurisce nella contrapposizione “classico-giustinianeo”. Ciò non ha comportato, indubbiamente, un “rimpatrio” all’interpretazione armonizzante degli studiosi medievali e della pandettistica, che, per quel che concerne il periodo classico, l’impostazione più diffusa è attualmente quella dell’articolarsi delle opinioni nel ius controversum, mentre sono stati praticamente abbandonati i criteri stilistico-letterari che in illo tempore erano seguiti in maniera pedissequa. D’altro lato, è pure mutato il modo in cui s’intende il Diritto giustinianeo. Esso non è più il “diritto della compilazione”, cioè quel sistema normativo che poteva ricavarsi dal materiale contemplato nel Corpus iuris valutato in una prospettiva sincronica, e sottoposto ad un’esegesi armonizzante per via delle antinomie perlomeno apparenti.

Con “Diritto giustinianeo” si possono designare, effettivamente, fenomeni distinti. Oltre al diritto contenuto negli atti normativi di Giustiniano, con tale termine si può segnalare il diritto che di volta in volta i compilatori volevano sancire nell’attuazione della loro mansione. “Diritto giustinianeo” può essere inteso, poi, quello ricostruito, con qualunque metodo, dai commentatori e dai coevi giuristi alla compilazione, di cui le opinioni ci sono pervenute nei trasudamenti ultimi dagli “scoli” ai Basilici. E, in una diversa prospettiva, esso può immedesimarsi col diritto attuato nella prassi dei tribunali dell’epoca giustinianea. I Basilici sono una traduzione –allo stesso tempo un compendio- in greco del Corpus iuris, fatta nel X secolo, durante il regno di Basilio il Macedone, cioè in un periodo di reviviscenza degli studi giuridici. Essa si fonda su traduzioni delle parti latine del Corpus iuris, e soprattutto del Digesto e del Codice, avvenute durante il VI secolo. In alcune parti essi erano corredati, in modo vario nelle diverse recensioni che caratterizzano la nostra tradizione manoscritta, di annotazioni- “scoli”- che, in misura maggiore, risalgono al lavoro di commento portato avanti dai giuristi postgiustinianei del VI secolo (ma anche dell’inizio del sec. VII), eseguito direttamente sul Digesto e sul Codice. Da quanto enunciato, appare dunque chiaro lo scopo che Giustiniano intese conseguire per la sua raccolta, cioè conferire ad esso un carattere di definitività, tale da sottrarla a qualsivoglia manipolazione interpretativa. Tuttavia, nonostante i divieti all’interpretazione “alterante”imposti da Giustiniano, la coeva “costellazione scientifica universitaria” non esitò, comunque, prima ad aggirare e poi a violare tali rigide disposizioni, innanzitutto per provvedere alle esigenze di studenti e lettori di lingua greca, e in seconda battuta per adattare le norme di matrice più spiccatamente romana del Corpus iuris al nuovo mondo giuridico bizantino.

Conclusione

La Compilazione di Giustiniano, il Corpus iuris, non può considerarsi come ultima tappa dello sviluppo del Diritto. E tutto ciò perché da un lato, dovendo servire ai fini della prassi, essa contiene il Diritto “novello”; mentre dall’altro, essendo essa formata in larga misura da contributi classici, tende a spianare la strada ad un ritorno al Diritto romano classico. Anche se risulta importante chiarire che esso rappresenta un qualcosa sui generis, che conferisce al diritto un’impronta assai diversa. Detto questo, il Diritto giustinianeo, pure chiudendo il ciclo dell’evoluzione giuridica romana, rappresenta di fatto quasi una sintesi dello stesso Diritto delle varie epoche, non potendo ovviamente contestarsi che il vero Diritto romano non può che chiudersi proprio con Giustiniano e con la sua  importante opera..

Bibliografia

biagio brugi, Istituzioni di Diritto Romano, (Diritto privato Giustinianeo), Torino, Terza ed., 1926.

lucio de giovanni,  Introduzione Allo Studio Del Diritto Romano Tardoantico, Napoli, 1998.

francesco calasso, Medio Evo Del Diritto, I vol., Le fonti, Milano, 1954.

pietro cerami, antonio metro, alessandro corbino gianfranco purpura, Roma e il Diritto, Napoli, 2010.

Anne lefebvre-teillard, « Si adversus suum ». Une illustration des problèmes soulevés par la transmission manuscrite du Code de Justinien, Rivista Internazionale di Diritto Comune, Roma, 2008.

Giovanni lucchetti,  Contributi di Diritto Giustinianeo, Milano, 2004.



[1] ) Compilazione ufficiale pubblicata nel 438 entrata in vigore il 1 gennaio del 439, costituiva la principale fonte di cognizione del diritto romano ufficiale piegato però ai bisogni della prassi quotidiana.

[2] ) Cfr. SAVIGNY, Storia del diritto romano durante il M. E. , 1815- 1831.

[3] ) Edict. Liuttpr., cap. 33 [ a. 723].

[4] ) Cfr. CATALANO, Linee del sistema soprannazionale romano, Torino, 1965.

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