DELPHINUS DUX PRO VITERBIUM
Reazioni di una esile fanciulla intrisa di fede e coraggio all’universalismo Imperiale di Federico II
Nel XIII secolo, all’epoca dell’eroina anti sveva Rosa di Viterbo, la “santa combattente della Croce di Cristo”, la città laziale fu al centro delle mire espansionistiche del papato e dell’imperatore Federico II di Svevia, tra loro in feroce lotta per il predominio in terra italica. In suddetto periodo (inclusivo dei pontificati di Onorio III, Gregorio IX e Innocenzo IV) Viterbo era una ricca ed attiva Repubblica tesa ad espandere la sua potestà dalle terre transcimine alle pianure del Tevere e del Temo, fino alle sponde del Tirreno. Una Repubblica dunque autonoma, in completa antinomia con reggenze commerciali e governative straniere, che però, dovette pur procedere accortamente nella durissima disputa che, come si è detto, contrappose il papato all’’imperatore tedesco. In questo contesto, già nel 1235[1], Federico era accorso in difesa di Viterbo, in quel frangente minacciata dalle truppe romane: un intervento, che sommato al prevaricante assedio nella città della schiera dei ghibellini, capeggiata dalla fazione dei Tignosi, condusse nel 1240[2] (proprio nell’anno in cui la contesa tra Federico e il pontefice Gregorio IX divenne più aspra) all’insediamento nella città del dominatore tedesco dell’Italia settentrionale[3] ormai intenzionato a muoversi in armi contro Roma . Va ricordato che l’avvento in Viterbo di Federico II venne accolto con grande soddisfazione sia dai nobili che dalla popolazione locale incantati dalla benevolenza di un regnante straniero sì duro, ma ben disposto, anche per suoi interessi personali, a beneficiare la città innalzandola al grado di Camera Imperiale e concedendo ad essa il controllo di ampie aree già pontificie. Al primo minaccioso scorgere delle armate tedesche sotto le mura dell’Urbe, Gregorio IX si vide quindi costretto a “scongiurare l’imminente rovina ricorrendo al prestigio e alla maestà della religione[4]”, benedicendo una vera e propria crociata contro il temibile avversario teutonico[5]. E tale proclama ebbe l’effetto di risvegliare la coscienza popolare dei fedeli di Pietro e ad indurre “turbe di monaci focosi, proscritti dalle terre di Sicilia correano le contrade promulgando la guerra santa[6]”. Proprio a cagione dell’irruenza del pur abile e pratico nei modi Federico II, in breve tempo il pontefice si ritrovò alleato spontaneo, e in armi, l’intero popolo romano terrorizzato da un più che probabile sacco e scacco della Città Eterna[7]. Dal canto suo, non disponendo tuttavia di forze sufficienti per espugnare immediatamente l’Urbe, Federico si ritrovò costretto a rinviare l’assalto per poi dovere accorrere d’urgenza in Italia settentrionale a contrastare le manovre della Lega Lombarda[8]. Informato circa l’intenzione di Gregorio IX di bandire, per l’anno 1241, un Concilio in Laterano (iniziativa creata ad arte dal papato per ribadire la scomunica anti imperiale e per sottrarre al tedesco il trono di “Lamagna”) Federico II dovette fare celere ritorno a Viterbo, base ch’egli scelse nuovamente per sferrare un nuovo, decisivo attacco alla Città Eterna. Giunto, nel settembre del 1240, a Viterbo, l’accorto imperatore concesse a quest’ultima nuove più consistenti prebende, un diploma di riconoscimento di fedeltà, e la libertà di conio di una moneta cittadina[9] e non pochi incentivi onde incrementarne l’economia[10]: iniziative, queste, atte a rendere i viterbesi suoi fedeli alleati e sudditi. Sentendosi però scalzata dai suoi centri di potere, la locale fazione guelfa prese a rampognare e a rammentare al popolo gli antichi fasti di libertà e di grandezza di quella che era stata l’indipendente e “cattolica” Città di Viterbo[11]. Allo stesso momento, con il profilarsi del Concilio in Laterano, numerosi prelati francesi, spagnoli, inglesi e tedeschi erano confluiti nel porto francese di Nizza per poi imbarcarsi, a bordo di galee genovesi, alla volta di Roma. Non essendo riuscito a convincere, tramite missive, i suddetti prelati ad accogliere le sue discolpe riguardo la minacciata scomunica papale, il 3 maggio 1241 Federico ruppe gli indugi attaccando e distruggendo la comitiva genovese tra le isole della Meloria e del Giglio. Non contento, l’imperatore fece imprigionare nelle segrete di Napoli e Sicilia due cardinali legati e un gran numero di vescovi, arcivescovi e abati, molti dei quali vi morirono di stenti[12]: gesto che rese lo svevo ancora più inviso e mal tollerato non soltanto ai guelfi, ma all’intero mondo cristiano caduto in lutto, il 21 agosto 1241, in seguito alla morte del quasi centenario Gregorio IX. Preoccupata ed angustiata dalla minaccia di un eventuale attacco su Roma, il 1 novembre 1241, l’assemblea dei cardinali riuscì con non poca fatica a fare eleggere pontefice l’anziano Celestino IV che, tuttavia, rimase al soglio solamente 18 giorni[13], venendo poi rimpiazzato con premura sollecita, ma non certo a caso, da Innocenzo IV (24 gennaio 1243), uomo mite, in odore né effluvio di rapporti assai amichevoli con l’imperatore[14]. Si trattò, come è facile intendere, di una scelta di realpolitik mirata ad imbonire un imperatore deciso a far valere la sua ira. Nel frattempo, a Viterbo iniziò a serpeggiare un diffuso malcontento nei confronti del governo di Federico II. Il cardinale Capocci radunò la popolazione in piazza di San Silvestro facendo costringendola a giurare “fedeltà e obbedienza alla Chiesa”[15]. Deciso circa i suoi intenti, il Capocci lanciò poi un ultimatum alla viterbese fazione dei ghibellini[16] rifugiatisi al seguito del conte Simone nel locale castello che in beve venne circondato da forze guelfe. Vista la malaparata, il conte Simone fu quindi costretto a chiedere immediati rinforzi all’imperatore il quale inviò a Viterbo il conte Riccardo di Caserta alla testa di 1.500 armati. Giunto nei pressi della città, quest’ultimo, impressionato dall’ampiezza della rivolta popolare, rinunciò tuttavia ad avanzare, ritirandosi a Montefiascone da dove richiese anch’egli a Federico II l’invio di ulteriori truppe[17]. L’8 ottobre 1243, lo stesso Federico II si precipitò dunque su Viterbo, nel mentre, da parte sua, il cardinale Capocci cercava di rincuorare le sue schiere in vista del decisivo scontro[18]. I tentativi di Federico di irrompere in città fallirono uno dopo l’altro e a nulla valsero ulteriori rinforzi svevi giunti nel frattempo dalla vicina Toscana[19]. Accampatosi presso il colle di Riello, Federico II tentò ancora e con diversi stratagemmi di espugnare Viterbo “fino ad averla o per assalto o per fame”[20]. Ma l’animosa resistenza dei viterbesi non diede alcun segno di cedimento, fino a costringere lo svevo ad approntare un vasto parco di potenti artiglierie nevrobalistiche atte ad abbattere le mura cittradine[21]. Con il trascorrere dei giorni l’assedio si fece più cruento, inducendo tutto il gentil, ma coraggioso, sesso cittadino a schierarsi in armi a fianco dei propri uomini. “Inermi, impavide, sorridenti, fin dal primo divampare della mischia, recando in sugli omeri e sul capo sassi da lanciare, salian sulle balestre, fammetteansi ai combattenti, accorreano per ogni dove, leggiadre dispensiere di armi, di munizioni, di coraggio. Non un grido, non un lamento uscia da quei petti. Trambasciate dal dolore, ratteneano i singhiozzi. Alcune, ferite, si strappavano con le proprie mani gli strali dalle trafitture; e, cadendo, faceano appello alle compagne, perché raccattassero il loro carico e lo traessero agli steccati. Ebbevi una giovinetta (tale Rosa), che, mentre venia innanzi sorreggendo con ambe le mani un enorme sasso sul capo, trafitta nell’uno dei bracci da un dardo, senza deporre la soma, se lo divelse coi denti; e, affrettato il cammino, giunse a traboccarlo sino al piè dei combattenti. Altre, non meno ardimentose, gareggiavano d’intrepidezza cogli stessi guerrieri; e, spettacolo di meraviglia e d’incitamento a tutto il campo, vibravano dall’alto della trincea i loro sassi sul capo dei nemici”[22]. Di fronte a cotanta tenacia femminile, Federico II fu infine condotto forzosamente a lanciarsi egli stesso, spada in pugno, contro quell’incredibile e sorprendente schiera reazionaria con grado femminile, venendo però respinto. “Ritrattone prestamente dai suoi, vedendo inesorabilmente perduta quell’impresa… si restituì al suo padiglione[23]”. Sotto le mura di Viterbo, Federico II riportò alla fine una delle più umilianti nell’onta delle sconfitte, resa soltanto in parte più lieve dal successivo trattato di pace del 1246 che gli stessi viterbesi, affamati ed impoveriti dal lungo assedio, furono costretti ad accettare per non soccombere (la città rimarrà sotto potestà ghibellina fino al 13 dicembre 1250, cioè fino alla morte dello svevo 1250[24]).
La militia morale di Viterbo
Gli unici documenti che forniscono notizie certe ed assodate nella storia circa l’eroina Rosa da Viterbo, “capitana della resistenza viterbese” provengono da una pergamena (VITA I) la cui compilazione si colloca tra la fine del secolo XIII e l’inizio del sec. XIV[25] : pergamena redatta in seguito alla Bolla di papa Innocenzo IV datata 25 novembre 1252[26], cioè venti mesi dopo la morte della giovane Rosa, in cui si ordina di raccogliere ed esaminare le testimonianze sulla vita e i miracoli di questa donna[27]. Un secondo documento contenente notizie sulla fanciulla è l’incartamento (VITA II) confluito nel processo di canonizzazione ordinato da Papa Callisto III nel 1457[28] (quindi di poco anteriore a questa data[29]). I due manoscritti agiografici mettono tuttavia in rilievo soltanto i prodigi compiuti dall’eroina Rosa, cosicché le informazioni di carattere biografico risultano molto scarne e spesso non trovano una giusta collocazione cronologica[30]. A quanto pare, Rosa da Viterbo nacque nel 1233, verosimilmente in marzo, da una famiglia di umili origini. Fanciulla devota a Cristo ella, ancora giovinetta, decise di dismettere gli abiti secolari per incardinarsi nella vita di francescana penitente. Il corpus agiografico narra che a seguito dell’improvvisa guarigione da una malattia che nell’estate del 1250 aveva ridotto Rosa in stato agonizzante [31], l’adolescente comunicò alla madre di volere rinunciare a “tutte le cose e le delizie di questo mondo” per indossare la tunica, cingersi con il cordone e tagliarsi i capelli come un chierico[32] . La presenza e permanenza dei francescani a Viterbo in un periodo storico in cui la Cristianità fu seriamente minacciata sia dall’Impero di Federico II sia dalla presenza di forti gruppi di eretici venne incoraggiata da Papa Gregorio IX, soprattutto a partire dal 1235, anno in cui il pontefice acquisì il castello di Sant’Angelo che, assieme ad altre case comunali e private, egli donò ai Frati Minori affinché vi erigessero la Chiesa ed il Convento del nascente ordine[33]. Per tutta la sua esistenza, Rosa combatté con forza gli eretici ch’ella era solita confutarne le tesi con dotti accorgimenti. Ma gli eretici, che allora pullulavano in Viterbo, cominciarono a fremere contro quella ardita vergine. Va ricordato che Viterbo ghibellina, alleata di Federico II, era un’enclave ideale per molti eretici del tempo. E la presenza in loco di catari, patarini, Poveri di Lione, passaggini, giuseppini, arnaldisti, speronisti e di altre sette è attestata e severamente condannata tramite decreto papale, facente seguito ad una Bolla datata 8 agosto 1235, da Gregorio IX[34]. I rappresentanti della Chiesa in Viterbo dovettero fronteggiare i pericoli derivanti dal dominio di un Imperatore scomunicato e aspramente avverso alla cristianità, ma anche dal dilagare di eresie e di comportamenti sociali per nulla conformi alla Rivelazione evangelica. Il clima di conflitto risultò a quel tempo dilaniante e tale da indurre la giovinetta Rosa a scagliarsi verbalmente contro i suoi nemici, nel tentativo di scuotere il popolo incline a chinarsi all’imperatore. “Aprite gli occhi, aguzzate l’udito: perché avete vinto? Perché siete morti fratelli miei alle cave di Sant’Antonio? Come gli allocchi e le civette siete dunque diventati? I catarini bestemmiano, vi profanano le soglie di casa, s’impongono al Podestà. Santi benedetti! Siete dunque i servi del Tedesco? Negli stazzi dei maiali vi caccerà, laggiù nel fango putrido! Vergognatevi innanzi alla Madonna dei Sette Pani, sciogliete le vostre anime dal vincolo della materia…. Facciamo croci con la lingua e flagelliamoci con pungitopi. Federico maledetto convertiti e ritorna alla Santa Chiesa come il lupo di Gubbio toccato dal Signore. Così sia per l’anima dei nostri poveri morti[35]”. Il carisma e l’intensità della coraggiosa Rosa indusse gli eretici ed il Podestà di Viterbo a sottoporre la giovane alla più crudele delle condanne. Dai testi che documentano la sua vita si evince: “Gli stolti e perfidi eretici, udite queste cose[36], si recarono dal Podestà il quale in quel tempo governava Viterbo per conto dell’eretico Imperatore Federico, e lo persuasero di fatto che se non avesse espulso dalla Città di Viterbo lei e i suoi genitori il popolo della stessa città sarebbe insorto contro di lui, alla sommossa sarebbe seguito l’oltraggio, e a questo l’espulsione sua[37]. Fu a quel punto che Il Podestà fece chiamare la madre della vergine Rosa; e le comandò, sotto pena della confisca dei beni e della vita, di andarsene dalla città. Rosa rappresentava, infatti, un pericolo, come lo dimostrò il suo ardore in combattimento, durante la battaglia del 1243 del piccolo centro laziale contro Federico II, riportata dal Codice Palatino n.955: “una fanciulla di nove anni che portava sul capo una pietra, avendo il braccio traforato da una freccia, non depose il sasso ma, estrattasi coi denti la freccia dalla ferita, consegnò il suo carico ai combattenti più vicini[39]” Condannata all’esilio in una forma poco canonica per l’epoca, Rosa fece ritorno a Viterbo soltanto dopo la morte di Federico II e con il tramonto dell’eresia catarina e la sconfitta della schiera ghibellina. Riabilitata fulgidamente nella sua “patria”, Rosa subì però l’ultima sua umiliazione vedendo negata, forse a causa della sua troppa fama, la sua richiesta di entrare a far parte dell’ordine della Clarisse: dolore che forse la privò della vita ad appena diciotto anni, nel 1251. L’esito della crociata della puella “vergine combattente” sostanzialmente e tangibilmente è stato quello di “istituzionalizzare” con una forma mentis di lotta la città di Viterbo in maniera definitiva, incontrovertibile e non più revocata come rocca papale intrisa di governo giuridico-morale, seguendo le radici della crociata di San Luigi dei Francesi che sviliva ogni mandato politico, dalla stessa quindi venerato ed invocato in punto di morte. Di tale processo “rivoluzionario” nello schermare il potere sovrano, la sentenza è perentoria e qui i presupposti giuridici contano ben poco: lo Stupor verginale ottenebrò dunque lo Stupor Mundi.
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