Nuovi assetti geopolitici nel Caucaso. Di Emanuele Aliprandi.

Parata di corpi speciali azeri.

Nello scorso mese di settembre[1] avevamo documentato su Storia Verità la drammatica situazione nella piccola repubblica armena del Nagorno Karabakh (Artsakh) piegata dal blocco imposto dal dicembre 2022 dall’Azerbaigian con il progressivo peggioramento delle condizioni di vita della popolazione sull’orlo di una crisi umanitaria senza più cibo, medicine, carburante e qualsiasi genere di prima necessità. Proprio in quei giorni di settembre si intravedevano tuttavia i primi segnali di speranza per un allentamento dell’assedio con il transito dei primi aiuti umanitari.

Tuttavia, nel volgere di poco tempo la situazione è drasticamente peggiorata: il 19 settembre, le forze armate dell’Azerbaigian hanno sferrato un altro violento attacco militare al residuo territorio armeno della regione e nell’arco di poco più di 24 ore hanno imposto la resa le autorità di Stepanakert costrette a smantellare l’esercito di difesa, consegnare tutte le armi e di fatto sciogliere lo Stato.[2] La popolazione, in preda al panico, ha abbandonato tutto quello che aveva per fuggire in Armenia; oltre centomila persone si sono incolonnate nel corridoio di Lachin e hanno impiegato fino a 40 ore per percorrere l’ottantina di chilometri che separa Stepanakert al confine.[3] Un impressionante esodo di massa di un popolo rimasto per mesi senza cibo e medicine, sfiancato da un assedio intorno al quale le istituzioni internazionali hanno speso molte parole di condanna ma senza alcuna azione concreta per farlo cessare. Dai primi giorni di ottobre la repubblica di Artsakh non esiste più, la regione si è completamente svuotata e, secondo i dati disponibili, sono rimaste non più di una ventina di persone per lo più anziani e disabili che non possono o non vogliono muoversi. Alcuni esponenti politici sono stati arrestati dagli azeri prima che potessero lasciare il Paese e sono detenuti a Baku unitamente a un numero imprecisato di soldati ancora prigionieri dalla guerra del 2020.[4] Il presidente azero Aliyev ha festeggiato la vittoria con una parata militare in una deserta Stepanakert. Invero, lungi dall’accontentarsi del trionfo l’autocrate leader di Baku ha rinnovato le proprie attenzioni verso la confinante Armenia[5] puntando a tre diversi obiettivi:

  1. Rafforzare le posizioni strategiche lungo l’incerta linea di confine tra i due Stati[6];
  2. Riprendere possesso delle exclavi sovietiche in territorio armeno[7];
  3. Conquistare il Syunik, Armenia del sud, al confine con l’Iran per dar vita al cosiddetto “Corridoio di Zangezur” e collegare il Nakhjivan con il resto dell’Azerbaigian[8].

Parallelamente si assiste a un timido dialogo negoziale tra le parti per raggiungere un accordo definitivo di pace; non facile anche perché temi e interessi contrastanti complicano ulteriormente il quadro politico regionale.

Sintetizzando:

  1. L’Armenia si sta progressivamente spostando verso Ovest contemporaneamente a un disimpegno russo che ha abbandonato lo storico alleato a favore di una stringente partnership economica e politica con l’Azerbaigian legata anche al conflitto in Ucraina. Stati Uniti e Unione Europea si stanno attivamente muovendo per avvicinare Yerevan la cui leadership sembra aver già preso una chiara decisione al riguardo;
  2. USA e UE vorrebbero gestire la trattativa fra le parti su una propria piattaforma negoziale mentre l’Azerbaigian, d’intesa con Russia e Turchia, opta per il formato di Mosca o in alternativa il Gruppo 3+3[9] o un Paese terzo (la Georgia);
  3. L’Armenia sta, di fatto lasciando la CSTO, ha ritirato il proprio ambasciatore, non ha partecipato alle ultime riunioni dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva anche in polemica con l’organizzazione per il mancato intervento in occasione degli attacchi azeri;
  4. La Francia ha avviato per la prima volta una fornitura di armi all’Armenia;[10]
  5. Alla riunione europea del partenariato orientale (Bruxelles, 11 dicembre) il ministro degli Esteri armeno Mirzoyan ha dichiarato che nulla osta per l’Armenia che la UE avvii negoziati di adesione con Moldavia e Ucraina e di concedere lo status di candidato alla Georgia.[11] L’Unione Europea, nel frattempo, ha annunciato che aumenterà il numero degli osservatori in Armenia (missione EUMA) da 138 a 209.

Questo riposizionamento politico nel Caucaso meridionale non può certamente essere confinato nel limitato confine regionale ed è pleonastico sottolineare come le implicazioni politiche internazionali, i mutati assetti politici e le future conseguenze degli stessi interessino da vicino anche il nostro Paese e i rapporti con le nazioni dell’area. Anche se vi sono timidi incoraggianti segnali di dialogo (da ultimo lo scambio di alcuni prigionieri)[12] la situazione rimane tesa, il rischio di una recrudescenza delle azioni belliche è sempre elevato e una serie di veti incrociati e pressioni internazionali da parte dei principali attori impedisce una rapida pacifica conclusione del contenzioso.


[1] 5 e 13 settembre, “Nagorno Karabakh: su una guerra infinita l’ombra di un nuovo genocidio” (parte I e II)

[2] Per tutte le vicende legate alla regione, compresi gli ultimi sviluppi di settembre, si veda ALIPRANDI, “LA GUERRA PER IL NAGORNO KARABAKH”, MATTIOLI 1885 (2023, pagg. 186)

[3] La marcia verso la vita è costata almeno una sessantina di morti a causa delle condizioni di salute di molti sfollati. Poco dopo l’attacco azero, inoltre, una violenta esplosione di un deposito di carburante intorno al quale centinaia di persone cercavano di rifornirsi per fuggire in auto, ha provocato 220 morti e centinaia di feriti. L’azione militare azera ha invece causato 230 vittime armene (compresi 19 civili); sconosciuto il numero di caduti azeri che dovrebbe comunque oscillare fra i 200 e i 300. [4] Fra gli arrestati ci sono tre ex presidenti della repubblica (Ghukasyan, Sahakyan e Harutyunyan), ex ministri degli Esteri e della Difesa.

[5] Ricordiamo che a più riprese (maggio e novembre 2021, settembre 2022) le forze armate azere hanno occupato circa 200 km2 di territorio dell’Armenia lungo la linea di confine. [6] Sono in corso trattative per tramite di una commissione istituita ad hoc ma non c’è accordo su quali mappe utilizzare: l’Armenia propone quelle del 1975, l’Azerbaigian non si è pronunciato al riguardo. [7] Si tratta di comunità che in epoca sovietica erano state lasciate all’interno degli Stati. L’Armenia aveva Artsvashen in territorio azero, mentre la RSS Azera ne aveva tre nel territorio armeno (nella regione di Tavush, Yuxari Askipara/Voskepar e Barxudarli più Karki quasi al confine con il Nakhjivan.

[8] Il progetto di conquista sembrerebbe abbandonato stante la ferma opposizione dell’Iran alla modifica della frontiera con l’Armenia e i chiari segnali di contrarietà da parte di Unione Europea e Stati Uniti. [9] Attivato su iniziativa di Erdogan: Armenia, Azerbaigian, Turchia, Iran, Russia e Georgia. Quest’ultima, tuttavia, in contrasto con Mosca, non ha partecipato all’ultimo incontro di Teheran a ottobre.

[10] 26 veicoli blindati leggeri Bastion (se ne aggiungeranno a breve altri 24) oltre a tre radar Thales Ground Master 200 (Gm 200) e ha firmato un protocollo di accordo per la fornitura di un sistema di difesa antiaerea Mistral. Dall’India l’Armenia ha acquisito recentemente obici semoventi MArG 155, il sistema missilistico terra-aria Akash di Bharat Dynamics Limited, obici ATAGS trainati da 155 mm, sistemi Zen Anti-Drone, granate da 30 mm e 40 mm, proiettili calibro 7,62 mm, lanciarazzi multi-canna PINAKA, munizioni anticarro. L’Azerbaigian continua a rifornirsi sul mercato turco, serbo e soprattutto israeliano (da ultimo il sistema missilistico Barak per 1,2 miliardi di dollari).

[11] Secondo molti osservatori, la dichiarazione di Mirzoyan è una sorta di implicita e prossima autocandidatura armena all’Unione Europea.

[12] Il 7 dicembre, a sorpresa, l’Ufficio del Primo ministro di Armenia e quello del presidente dell’Azerbaigian hanno rilasciato una dichiarazione congiunta con la quale si conveniva che per motivi umanitari venivano scambiati 32 soldati armeni (catturati per lo più a ridosso del conflitto del 2020) con due soldati azeri che nei mesi precedenti si erano infiltrati in Armenia. Nell’accordo risulta anche il via libera di Yerevan alla candidatura di Baku per la conferenza mondiale sul clima COP29 in programma a novembre 2024.

Mappa del conflitto.

Appendice.

Breve profilo storico dell’Armenia.

Nell’antichità il nome originario dell’Armenia era Hayq, divenuto più tardi Hayastan, traducibile come “la terra di Haik (-stan è un suffisso persiano che sta a indicare un territorio) ”. Secondo la leggenda, Haik era un discendente di Noè (essendo figlio di Togarmah, che era nato da Gomer, generato a sua volta da Yafet figlio di Noè). Per la tradizione cristiana, Haik, progenitore di tutti gli armeni, si sarebbe stabilito con le sue genti ai piedi del monte Ararat per poi andare ad assistere alla costruzione della Torre di Babele. Rientrato in patria, egli avrebbe sconfitto presso il lago di Van il re assiro Nimrod. Il termine Armenia, coniato dai popoli confinanti che lo trassero dal nome della più potente tribù presente sul territorio, quella armena appunto, deriva da Armenak (o Aram), un discendente di Haik, divenuto in seguito un grande condottiero del suo popolo. Fonti precristiane, soprattutto greche, sostengono invece che il nome derivi dal termine Nairi, cioè “terra dei fiumi”, come appunto gli ellenici chiamavano questa regione montuosa. La storia del popolo armeno ha dunque radici molto antiche (e mitiche) e l’Armenia come regione ha sempre rappresentato il punto di incrocio delle più importanti vie di comunicazione tra Oriente ed Occidente, suscitando gli appetiti delle maggiori potenze economiche e militari dell’era antica, moderna e contemporanea. Gli armeni intesi come etnia discendono da una commistione avvenuta in tempi remoti tra elementi indoeuropei (gli armenoi che sia Erodoto sia Eudossio collegano ai frigi) ed elementi asiatici o anatolici, cioè quelle popolazioni che in tempi remoti abitavano la parte orientale della penisola anatolica e che non appartengono in senso stretto né al ceppo semita né a quello indoeuropeo. Regno indipendente dal X all’VII secolo a.C. sotto la civiltà autoctona urartu o ararat, l’Armenia conobbe l’influenza della popolazione hurrita per poi subire le invasioni di cimmeri, sciti, medi e assiri. Il popolo dei chaldi si stabilì nella regione verso il 1000 a.C., dominandola fino all’arrivo dei persiani di Dario I (520 a.C.) che piegarono la dinastia degli Ervandunì, dividendo il territorio in due satrapie che governarono fino al 330 a. C. Ai persiani achemenidi subentrarono poi i macedoni di Alessandro Magno e successivamente i parti. Verso il 190 a.C. si impose la dinastia degli Artassidi e, sotto la guida di Artashes I, l’armeno divenne lingua comune. Quando, combattendo contro Mitridate, i romani misero piede in Armenia vi trovarono un regno indipendente governato dal sovrano Tigrane che, in cambio dell’accettazione dell’amicizia capitolina, venne lasciato sul trono da Pompeo. Nel 114 d.C., sotto Traiano, gli armeni conobbero l’annessione a Roma. E nel 301 d.C., in concomitanza con l’inizio della decadenza dell’impero d’Occidente, il popolo armeno abbracciò il cristianesimo. Dopo essere passata sotto il dominio dei parti (428), la regione venne inglobata nell’impero bizantino per poi essere occupata dagli arabi. Nell’XI secolo il sopraggiungere da oriente dei turchi selgiuchidi mise in ginocchio la porzione orientale del paese (la “Grande Armenia”), costringendo buona parte della popolazione ad emigrare in Cilicia o “Piccola Armenia”, regno creato nel 1080 dal principe Ruben, che nel 1375 venne però sottomesso dai Mamelucchi d’Egitto. A partire dal XIV secolo fino ad arrivare al 1918, i turchi rimarranno padroni quasi incontrastati dell’Armenia, anche se in seguito alla guerra con la Russia del 1828-1829, essi dovranno cedere agli zar un piccola parte di questo territorio. Nel 1453, Mehmed II aveva conquistato Costantinopoli, abbattendo definitivamente l’impero bizantino, trasformando la città nella capitale dell’impero ottomano e invitando l’arcivescovo cristiano armeno a stabilire un patriarcato a Costantinopoli. La comunità armena di Costantinopoli — ma anche quelle residenti in altre città anatoliche — crebbe rapidamente sotto il profilo numerico, diventando ben presto una delle componenti etnico-religiose più ricche e progredite della Mezzaluna musulmana e contribuendo in maniera determinante alla sopravvivenza dell’impero, almeno fino all’ultimo scorcio del XIX, quando con la nomina a sultano di Abdul Hamid II le cose cambiarono.

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