L’Aquila del Sol Levante che scomparve in Oceano Indiano. Storia di un’impresa aeronautica inghiottita dal mistero. Di Alberto Rosselli.

Il velivolo Tachikawaki-77 utilizzato per la sfortunata impresa.

Premessa

Nel corso del Secondo Conflitto Mondiale le Forze Armate aeree e navali italiane hanno compiuto non poche missioni speciali: azioni che, per implicazioni di natura tecnica, militare e politica, hanno assunto i connotati di veri e propri record. Tuttavia, di queste operazioni – quasi tutte condotte con esito felice – poco si sa. Un po’ perché parte della documentazione top secret è andata distrutta o perduta dopo la resa dell’Italia (8 settembre 1943), un po’ perché è nell’indole degli italiani dimenticare in fretta le guerre e le sofferenze ad esse legate. Dopo l’attacco giapponese alla base Usa di Pearl Harbour (7 dicembre 1941), l’aggressivo Impero del Sol Levante si trovò di fatto, paradossalmente, isolato dai suoi partner dell’Asse. In seguito alla forzata interruzione dei normali e regolari collegamenti navali e aerei tra l’Italia, la Germania e il Giappone (ricordiamo che queste nazioni il 26 settembre 1940 avevano sottoscritto un accordo di mutua assistenza militare ed economica: il “Patto Tripartito”) sia Germania, Italia e  Giappone iniziarono ad escogitare sistemi alternativi per rompere il blocco anglo-americano che impediva ai loro mezzi di raggiungere il Far East. La necessità di forniture e di interscambio di materie prime rare (bisogno condiviso peraltro anche dai giapponesi) e quello di coordinare (attraverso scambi di consiglieri militari, piani militari e di codici cifrati) le operazioni contro le forze alleate stimolarono non poco l’immaginazione e la capacità progettuale dei tecnici dell’Asse (1).

Il pilota Kenji Tsukagoshi festeggia un suo primato (periodo prebellico).

La missione de Tachikawa Ki-77

Mattino del 7 Luglio 1943. Aeroporto giapponese di Singapore. Cinque aviatori infagottati nelle loro tute escono da una baracca e si avvicinano lentamente ad un solitario, elegante bimotore parcheggiato. La pista è vuota, ma controllata da alcune decine di soldati nipponici armati di tutto punto. Intorno all’aereo, un bimotore Tachikawa Ki-77, ricognitore speciale del Dainippon Teikoku Rikugun Kōkūbutai (l’Aviazione Imperiale Giapponese) dotato di ampi serbatoi stracolmi di carburante e oli lubrificanti, armeggiano meccanici e motoristi. Tutto si svolge in silenzio, in un clima quasi irreale. Il gruppo di aviatori in tuta, ma senza paracadute, è composto dal capo pilota Juukou Nagatomo, dal co-pilota Hajime Kawasaki, dagli ingegneri di volo Kenji Tsukagoshi (1) e Noriyoshi Nagata e dal radiooperatore Motohiko Kawashima, incontrano ad attenderli tre ufficiali dell’esercito, dell’aviazione e della marina: ognuno porta con sé soltanto una borsa in pelle ripiena di documenti segreti. I tre si mettono sull’attenti e i piloti li invitano a seguirli nella strettissima carlinga del velivolo. I motori si accendono: sta per iniziare (sono esattamente le 7.10) un’avventura aeronautica incredibile, ma destinata a svanire nel nulla. Un quarto d’ora dopo l’aereo rulla a pieno regime sulla pista in terra battuta di circa 1.000 metri, per poi decollare e sparire in direzione Ovest, verso le sterminate acque dell’Oceano Indiano. La missione dell’equipaggio e dei passeggeri giapponesi – coordinata dal colonnello Saigo – è decisamente complicata, quasi suicida: percorrere in un’unica tratta oltre 7.000 chilometri sorvolando per due tratti di Indiano (quadranti 3420, 2560 e 2510), la porzione centrale dell’India britannica, la Persia (occupata fin dal 1941 dagli anglo-sovietici), l’Irak (sotto controllo inglese), la regione del Caucaso (controllato da Mosca) e il Mar Nero, fino a raggiungere la base tedesca di Sarabus (l’odierna Hvardiiske, Crimea). La rotta ‘equatoriale’ scelta dai nipponici ha un suo perché: non essendo in stato di guerra con Mosca, Tokyo ha scelto di escluderne una più settentrionale (seppur più breve) proprio per evitare di sorvolare  i vasti territori russi. La missione è la risposta nipponica alla straordinaria e fortunata impresa compiuta, tra il 29 e il 30 giugno del 1942  lungo una rotta inversa, ma ben più settentrionale – cioè sorvolando l’Unione Sovietica e l’Asia Centrale – fino a giungere il campo di atterraggio di Pao Tow Chen (situato nella Mongolia Interna occupata dalle truppe di Tokyo) dal trimotore italiano Savoia Marchetti SM.75 “RT” (Roma-Tokyo) del comandante Antonio Moscatelli e dal suo equipaggio (2). Ma ritorniamo alla missione nipponica. Stando ai documenti e ai rapporti del Comando aeronautico di Singapore, sembra che l’ultimo segnale radiocrittografato del velivolo captato dalla base giapponese di Port Blair (Isole Andamane, Oceano Indiano) risalga alle 10.30 del 7 luglio, anche se c’è da dubitare, in quanto il capo pilota Juukou Nagatomo aveva ricevuto prima della partenza ordini tassativi circa il più assoluto silenzio radio da mantenere lungo tutto il viaggio, onde evitare di essere intercettati dal nemico. Sta di fatto che il velivolo non giunse mai a destinazione precipitando, a causa forse di guai meccanici, in Oceano Indiano, non si sa in quale punto. Alcuni ricercatori inglesi sostengono tuttavia l’ipotesi di un abbattimento del velivolo da parte di caccia britannici stanziati in qualche base indiana: ipotesi avvalorata dai rapporti degli analisti di ULTRA (UltraSecret) di Bletchley Park che farebbero riferimento all’intercettazione di un (maldestro) cifrato proveniente dalla base tedesca di Sarabus, riguardante proprio il volo e la rotta del Tachikawa Ki-77. Durante la Seconda Guerra Mondiale, Bletchley Park fu il sito dell’unità principale di crittoanalisi del Regno Unito, nonché sede della Government Code and Cypher School (GC&CS, “Scuola governativa di codici e cifrazione”), l’odierna Government Communications Headquarters. Ipotesi a parte, il destino del velivolo giapponese e del suo equipaggio rimane un mistero, e tale rimarrà forse per sempre.

(1) Kenji Tsukagoshi was born in Takasaki, Prefettura di Gunma. His father was Japanese and his mother was British. He gained fame as the navigator on the Kamikaze, a Mitsubishi Ki-15 Karigane aircraft, (registration J-BAAI) sponsored by the newspaper Asahi Shimbun. It became famous on April 9, 1937, as the first Japanese-built aircraft to fly from Japan to Europe. The flight from Tokyo to London took 51 hours, 17 minutes and 23 seconds and was piloted by Makasaki Linuma (1912–1941). The total elapsed time since departure from the Tachikawa Airfield was 94 hours, 17 minutes and 56 seconds, with actual flight time for the whole distance of 15,357 km of was 51 hours, 19 minutes and 23 seconds. The flight was the first Fédération Aéronautique Internationale record to have been won by Japanese aviators.

Caratteristiche generali del Tachikawa Ki-77 (volo del primo prototipo: 18 Novembre 1942)

Esemplari costruiti: 2

Equipaggio: 5 uomini

Length: 15.3 metri

Wingspan: 29.438 metri

Apertura alare: 79.56 m2

Peso a pieno carico: 16,725 kg.

Carico massimo carburante: 11,155 litri

Unità motrici: 2 Nakajima Ha-115 da 1.170 hp) ciascuno

Velocità massima: 440 km/h a 4.600 metri

Velocità di crociera: 300 km/h

Autonomia massima: 18.000 km (circa 8.000 per il volo Singapore-Sarabus)

Quota di tangenza massima: 8.700 metri

(2) Tra le varie operazioni di collegamento elaborate ed attuate per riallacciare i rapporti tra l’Europa occupata e il Giappone, un posto particolare spetta al raid aeronautico Roma-Tokyo. Nel gennaio del 1942, il Comando dell’Aeronautica Italiana – sollecitato dal Ministero della Guerra – iniziò a pianificare un progetto di volo senza scalo tra l’Italia e il Giappone. Data l’enorme distanza che separava le due nazioni, il generale Rino Corso Fourgier (comandante in capo dell’Aviazione Italiana) si rivolse ad un gruppo di specialisti di raid a lunga distanza: piloti che, in parte, nel 1940, avevano già partecipato, a bordo di speciali trimotori da trasporto Savoia Marchetti SM83, a molti voli transatlantici in direzione del Sud America e, nel 1940/41, a missioni di rifornimento alle piazzeforti italiane isolate in Africa Orientale (Gimma e Gondar). Gli uomini scelti per equipaggiare l’aereo speciale che venne scelto (una versione molto modificata del celebre trimotore da trasporto Savoia Marchetti SM75 (parente stretto dell’altrettanto famoso SM82 che aveva una maggiore capacità di carico ma un’autonomia sensibilmente inferiore). L’SM75 era un robusto monoplano, ideato prima della guerra per i trasporti civili e militari su lunghe distanze, equipaggiato con tre motori Alfa Romeo 128 RC 18 da 750 hp, pesante 11.200 chilogrammi a vuoto e oltre 22.000 a pieno carico. Autonomia (Modello ‘Roma-Tokyo’: circa 7.000 Km. di cui 6.350 effettivamente percorsi durante la missione).

  • Per approfondimenti consultare la Rivista ‘Storia Verità’: http://www.storiain.net/storia/il-raid-segreto-roma-tokyo/
Un Takikawa Ki-77A-26.
L’SM. 75 ‘Roma – Tokyo’.

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