La ex Repubblica Socialista Sovietica del Tagikistan, confinante con Afghanistan, Cina, Kirghizistan e Uzbekistan, geograficamente senza sbocco sul mare, è popolata da circa sette milioni e mezzo di persone, con capitale Dusanbe, e dal 1991 presieduta da Emomali Rahmon, il quale ha portato il Paese nell’OMC, organizzazione mondiale del Commercio.
Senza addentrarsi nelle origini millenarie della storia, il territorio è stato popolato durante la conquista di Alessandro Magno, poi fu confine del regno dei Parti, di Sasanidi e Arabi, e in seguito frammentato in sultanati indipendenti.
Il periodo fu comunque fiorente, specialmente per la leggendaria capitale Bukhara, da cui ebbe inizio la diffusione della letteratura persiana e dell’epica del poeta Ferdowsi, fra tormenti popolari e invasioni delle tribù turche, come i Selgiuchidi, che dominarono nell’11° secolo, e che dal punto di vista storico, diedero vita al connubio fra cultura turcomanna e persiana. Ovviamente anche gli antichi avevano ben presente l’importanza del Tagikistan dal punto di vista geopolitico, e infatti fu obiettivo dei Mongoli nel 13° secolo, del celebre Tamerlano e dei successivi Khanati.
Ancora a metà ‘800 quello che oggi è il Tagikistan faceva parte del Grande Impero Russo, dalla fusione dei Khanati di Bukhara e Kokland, quindi opposti all’espansione britannica nel gioco politico per ottenere il controllo dei traffici da e per l’Oriente, soprattutto nel caso dell’India, sottoposta alla corona inglese.
Una difficile stabilità interna
Dopo la Rivoluzione del 1917, il Tagikistan diventò parte dell’URSS non senza una accanita guerra di resistenza da parte della popolazione islamica dei Basmachi, sopraffatti nel 1929, con l’annessione alle Repubbliche Socialiste Sovietiche ufficialmente riconosciuta da Mosca.
Allo scopo di poterlo meglio gestire, amministrare e sfruttare, Mosca divise il territorio in diverse sfere di influenza, separando i distretti di Samarcanda e Bukhara, inglobati di fatto dall’Uzbekistan, e Dusanbe fu denominata ufficialmente capitale. Per motivi etnici e culturali, il Tagikistan rimase legato all’Islam, che generò una radicata opposizione all’occupazione sovietica, soprattutto con un substrato di confraternite caratterizzate dal Sufismo. Il Partito Islamico della Rinascita, nato in clandestinità negli anni ’70 del Novecento, avrebbe dato filo da torcere all’amministrazione sovietica, fino al crollo del 1991 e alla dichiarazione di indipendenza, che però non diede gli effetti sperati e culminò in una drammatica guerra civile, fomentata dal Partito Islamico della Rinascita e dal Partito Democratico, e degenerata in vere e proprie operazioni di pulizia etnica che causarono decine di migliaia di morti, e oltre un milione di sfollati.
Alla fine degli anni ’90 la situazione parve attenuarsi, grazie all’azione del presidente democratico Rahmonov, che trovò l’accordo con i rappresentanti islamici. Non soddisfatti, i responsabili dell’ala estremista si rifugiarono in Afghanistan senza smettere di dirigere la ribellione, e a una situazione per la quale fu necessario l’intervento dell’esercito russo per contenere le incursioni da oltreconfine. Ancora oggi, vi sono truppe russe che presidiano i valichi di frontiera, e la zona è considerata ad alto rischio, nonostante gli organi di stampa e informazione ufficiali non ne parlino.
In ogni caso, il tasso di alfabetizzazione è del 99%, su una popolazione poco inferiore agli otto milioni, islamica per il 96.7% in maggioranza sunnita, con poco più del 3% di altre confessioni religiose. Vi sono Ismailiti sciiti, una minoranza di circa 230mila cristiani ortodossi di etnia russa, e altre fedi cristiane, minoranze ebree, zoroastriane e non praticanti. Ma vi è alta disoccupazione, corruzione e diversi fenomeni endemici.
La Repubblica Presidenziale Unitaria del Tagikistan, dal 1991 indipendente, è controllata dal Partito Democratico Popolare. Il presidente Emomali Rahmon, riconfermato nel 2013, fra le altre prerogative esercita i poteri esecutivi e, come prevede la Costituzione è comandante delle forze armate e nomina i membri della Corte Suprema di Giustizia, che esercita il diritto di pena di morte. Senza scendere in particolari, secondo il Rapporto Mondiale sulla democrazia, il Tagikistan è al 160° posto come “regime autoritario”.
Nonostante questo, è membro dell’Organizzazione di Cooperazione Islamica, Onu, Osce, Comunità Stati Indipendenti, Organizzazione Cooperazione Economica Mondiale e del Trattato di Sicurezza Collettiva, nonché firmatario del Trattato di Non Proliferazione Nucleare e osservatore dell’Unione Economica Euroasiatica. L’asse commerciale è quasi totalmente mantenuto con la Russia, ma anche con le ex repubbliche socialiste, e sono in sensibile aumento gli accordi e il conseguente traffico con l’Europa e soprattutto con la Cina, che ne 2006 ha ratificato il confine concordato nel 2002.
Di fatto, però, il Tagikistan resta con uno dei Pil più bassi dell’area, con un alto tasso di espatrio, vi sono poche possibilità di lavoro, e solo il 7% del territorio è coltivabile, in maggior parte a cotone, ma penalizzato dalla mancanza di infrastrutture specifiche.
Il paese più preoccupato della situazione afgana è il Tagikistan, perché nelle regioni lungo i suoi confini si intensifica l’attività dello Stato Islamico in Afghanistan (ISKP) e quella repressiva del governo talebano.
Il governo del Tagikistan ha un atteggiamento conflittuale nei confronti del governo afghano, mentre Uzbekistan e Turkmenistan mantengono rapporti di collaborazione, perché pensano che i Talebani, jihadisti nazionalisti decisi a creare un emirato limitato all’Afghanistan, siano un naturale contrappeso alle ambizioni transnazionali dello Stato Islamico. Il Tagikistan condivide il timore dell’ISKP, ma considera i Talebani un pericolo più immediato.
L’influenza delle minoranze Pashtun dell’Afghanistan in Pakistan è storica ed è nota a tutti. Il Pakistan condivide un confine di 2.640 chilometri con l’Afghanistan e l’etnia Pashtun costituisce circa il 42% di tutti gli Afghani e il 18% di tutti i Pakistani. La maggior parte dei Pashtun vive su entrambi i lati del confine. Non è invece noto che anche sul versante tagiko c’è una situazione analoga. I Tagiki sono la seconda etnia dell’Afghanistan (27%) e la maggior parte di loro vive nelle regioni settentrionali, al confine con il Tagikistan, dove rappresentano l’84% della popolazione. La lingua tagica è una variante del Darai, che lega insieme le etnie afghane.
Il Tagikistan dichiarò l’indipendenza a settembre 1991, dopo il crollo dell’URSS. Mentre gruppi di ribelli islamici Afghani cercavano di rovesciare il regime comunista a Kabul. Una delle fazioni afghane più potenti era Jamiat-e-Islami, gruppo islamista di etnia tagika guidato dall’ex presidente afgano Rabbani e dall’ex comandante militare e ministro della Difesa Ahmad Shah Massoud. Questo gruppo ebbe un impatto significativo sulla politica interna del Tagikistan e sulle relazioni del paese con l’Afghanistan. Entro tre settimane dal crollo del regime comunista afghano nell’aprile 1992, il Tagikistan precipitò in una guerra civile che infuriò per cinque anni. Si ebbero così due conflitti simultanei. In Afghanistan fazioni incapaci di raggiungere un accordo per la condivisione del potere presero a combattersi a vicenda in una caotica guerra intra-islamista dalla quale alla fine i Talebani uscirono vittoriosi. In Tagikistan le proteste contro il nuovo stato indipendente dominato dalle ex élite sovietiche si trasformarono rapidamente in una guerra civile su vasta scala. L’opposizione era composta da fazioni islamiste provenienti in gran parte dalle regioni montuose del centro e del sud-est, mentre le fazioni filogovernative vivevano nella pianura del nord e di sudovest. Il Tagikistan meridionale e l’Afghanistan settentrionale divennero uno spazio di battaglia contiguo. Storicamente, queste due regioni costituivano una regione unica, il Badakhshan. Jamiat-e-Islami in Afghanistan offrì rifugio, armi, rifornimenti e addestramento all’opposizione tagika.
Nel 1994 in Afghanistan apparvero sulla scena i Talebani, che in due anni rovesciarono il governo guidato da Jamiat-e-Islami. Nel frattempo in Tagikistan il governo, guidato dalla stessa fazione ancora in carica oggi, iniziava la guerra contro l’opposizione. L’indebolimento di Jamiat-e-Islami per le gravi sconfitte sul fronte afghano permise al governo tagiko di contenere i ribelli islamisti nelle aree montane e quindi lentamente prevalere.
L’invasione americana dopo l’attentato dell’11 settembre isolò l’Afghanistan e mise in difficoltà i Talebani. Il pilastro dell’opposizione ai Talebani fu l’etnia tagika del nord, che trovava nelle retrovie tagike rinforzi e sostegno. I Talebani perciò iniziarono a espandere la loro insurrezione e la loro influenza politica al nord, approfittando dell’insoddisfazione pubblica per i signori della guerra, la faziosità e la corruzione emerse tra la vecchia élite tagika afghana durante l’occupazione americana. Quando i Talebani si impossessarono di Kabul nell’estate del 2021, avevano già preso possesso della maggior parte del nord, dopo aver esautorato e sconfitto l’élite tagika.
La posizione dei Talebani nei confronti del Tagikistan è simile a quella nei confronti del Pakistan. Non prendono iniziative contro i vicini, ma le dinamiche transfrontaliere sono tali che i Talebani usano le etnie a cavallo dei confini per costituire zone cuscinetto a protezione del loro regime, esautorando di fatto l’autorità dei governi dei Paesi confinanti.
Tagikistan e Afghanistan
Un aspetto decisamente fondamentale nella Regione, è il ruolo del Tagikistan nel processo afghano. Dal 2021, dopo l’Accordo di Doha, la posizione dei Paesi dell’Asia centrale non ha avuto la debita attenzione nell’informazione internazionale. Fra le ex repubbliche socialiste sovietiche, il Tagikistan è stato il più coinvolto a livello diretto nei negoziati, e principalmente in ragione di un confine di circa 1.ooo km. Fra i due Paesi, le relazioni erano abbastanza intense, e la posizione tagika è sempre stata determinata nel sostenere un Afghanistan stabile, obiettivo di non poco conto. In questo quadro, da Dusanbe è stato confermato l’appoggio agli organismi internazionali, come il Consiglio di Pacificazione presieduto da Abdullah Andullah e l’ex presidente afghano Ghani. Non è tuttavia una posizione scontata, perché a livello di relazioni con i confinanti, il Turkmenistan ad esempio, ha ricevuto una delegazione ufficiale dei Talebani, e ciò potrebbe indurre a pensare che il Paese sia orientato dove soffia il vento, ma non è così. Il Tagikistan può giustificare l’atteggiamento con le condizioni interne, derivate dalla lotta al terrorismo. Le forze di sicurezza afghane hanno più volte segnalato la presenza di formazioni tagike nel nord, in cooperazione con i Talebani. Soldati tagiki sono stati schierati lungo il confine, contro eventuali incursioni.
Molte quindi sono le formazioni definite “terroriste”. In Asia centrale la categoria può riguardare qualunque movimento di opposizione a un potere costituito. Formazioni come il Partito della Rinascita Islamica del Tagikistan (IRPT), sono state dichiarate terroriste e inserite nella Black List, a pochi mesi dalla diffusione ufficiale dello Stato Islamico o Daesh, e da un considerevole aumento del transito di Foreign Fighters diretti in Siria. Equilibri mutevoli a seconda dell’orientamento geopolitico internazionale, visto che fino a poco prima, l’IRPT era considerato sotto bel altro aspetto, come firmatario dell’accordo che pose fine alla guerra civile nel 1997, con il presidente Rahmon, accusato poi di sostenere nel contempo un certo tipo di terrorismo, in buona parte di ricatto economico, per rafforzare la propria posizione interna. Da considerare inoltre, la oggettiva posizione economica del Tagikistan come esportatore o transito di energia elettrica, specialmente con l’Uzbekistan oltre che con l’Afghanistan, ma il problema è continuamente in sospeso a causa dell’insicurezza per le infrastrutture, parte delle quali raggiunge anche Kabul. Ci sono accordi stabiliti dalla Regional Transmission Line Project, grande rete import-export di energia estesa dal Tagikistan al Pakistan, all’Afghanistan, finalizzati alla normalizzazione, e l’Afghanistan gioca un ruolo fondamentale in questo, in quanto transito e destinatario. L’obiettivo ultimo del presidente Rahmon è diventare un giocatore di primo piano nella partita sull’energia, e se i Talebani dovessero aumentare il proprio peso politico nell’area, rischio da calcolare visto che la firma dell’accordo di Doha con gli Stati Uniti ne ha riconosciuto lo status, il Tagikistan potrebbe perdere una fonte di guadagno alternativa, ma basilare nell’economia nazionale.
Di fatto, la sicurezza dell’Asia centrale è stata per anni influenzata dalla politica americana, poi il Movimento Islamico dell’Uzbekistan non riuscì a rovesciare il presidente Karimov, e gli attacchi islamisti in Tagikistan non ebbero conseguenze sull’assetto politico. I governi di Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan hanno più volte annunciato la cattura di militanti del Movimento Islamico Uzbeko, i cui capi storici sono stati uccisi, e il gruppo si è diviso in fazioni ideologiche, strategiche ed etniche.
Certo il ritiro delle forze americane e la perdita dell’influenza, e dei finanziamenti statunitensi nella Regione, hanno determinato un cambio di direzione fondamentale, sia dal punto di vista politico, sia per quanto riguarda la sicurezza. Probabilmente i Talebani riconquisteranno una posizione dominante in Asia centrale, i cui Paesi sono comunque preoccupati per il futuro dell’Afghanistan nel contesto regionale, né si può negare che i leader locali abbiano l’esperienza per prevedere certe situazioni, e si confida siano in grado di arginare l’attività dei gruppi ribelli. Russia, Iran, Turchia, Cina e Occidente contribuiscono ad arginare il flusso di militanti e il traffico di stupefacenti in Asia centrale, cercando di evitare possibili escalation. Inoltre i Talebani, almeno a parole, hanno assicurato che non offriranno più rifugio a militanti ostili. È possibile, comunque, che in Uzbekistan, Tagikistan e Kirghizistan si accendano lotte per il potere, come è probabile che i confini regionali continueranno a essere una sorta di “terra di nessuno”, attraversata da formazioni armate, merci, e traffici di ogni tipo.
Proprio in questa situazione, il Tagikistan dovrebbe essere la parte maggiormente preoccupata, poiché le province di confine sono ancora in buona parte controllate dallo ISKP (Stato Islamico in Afghanistan), con conseguente attività repressiva dei Talebani.
Lo scacchiere geopolitico
Il Tagikistan mantiene un atteggiamento alterno con i Paesi confinanti. Di sicuro è conflittuale con l’Afghanistan, mentre con Turkmenistan e Uzbekistan vi è una certa collaborazione formale, a parte le questioni locali interne.
In genere, i tre Paesi non vedono ufficialmente bene i Talebani, perché li considerano intenzionati alla creazione di un emirato che potrebbe non limitarsi al solo Afghanistan. Voce in capitolo hanno anche le minoranze Pashtun, distribuite lungo un confine condiviso di oltre 2.600 km, senza dimenticare che l’etnia Pashtun riguarda il 42% degli Afghani e il 18% dei Pakistani. Anche da parte del Tagikistan vi è la seconda etnia della popolazione Afghana per circa il 30%, distribuita prevalentemente nelle regioni settentrionali confinanti, e parte della nazione Darai che raggruppa le etnie della regione afghana. Dalla dichiarazione di indipendenza, in Tagikistan hanno agito i gruppi ribelli islamici che tentavano di rovesciare il regime filocomunista di Kabul, con la fazione Jamat-e-Islam dell’ex presidente afghano Rabbani e Ahmad Shah Massoud, che influì in parte delle decisioni interne del governo tagiko.
Dopo tre settimane dal crollo del regime afghano, nell’aprile 1992, il Tagikistan precipitò in una guerra civile per cinque anni, e in due conflitti simultanei. In Afghanistan fazioni incapaci di raggiungere un accordo per la condivisione del potere, presero a combattersi a vicenda, in una caotica guerra islamista, nella qual prevalsero i Talebani. In Tagikistan le proteste contro il nuovo stato indipendente dominato dalla élite sovietica si trasformarono in guerra civile su vasta scala. Il Tagikistan meridionale e l’Afghanistan settentrionale divennero uno spazio di battaglia continuo, per il fatto che una volta le due regioni costituivano la provincia unita del Badakhshan.
Nel ‘94 i Talebani sorsero in Afghanistan, in due anni rovesciarono il governo di Jamiat-e-Islami, e in Tagikistan il governo della stessa fazione ancora oggi al potere, iniziava la guerra contro l’opposizione. L’indebolimento di Jamiat-e-Islami in Afghanistan permise al governo tagiko di contenere i ribelli islamisti nelle aree montane e quindi prevalere.
Naturalmente la situazione è cambiata con l’11 settembre 2001, che ha isolato l’Afghanistan in previsione dell’invasione americana, terminata recentemente dopo essere stata la più lunga guerra mai combattuta dagli Stati Uniti, e come il Vietnam conclusa vergognosamente, quando i Talebani sono tornati al potere nell’estate del 2021, e avevano già preso possesso della maggior parte del nord, dopo aver estromesso l’élite tagika. Oggi, la posizione dei Talebani nei confronti del Tagikistan è simile a quella nei confronti del Pakistan. Sembra che non siano previste iniziative nei confronti dei Paesi confinanti, ma i delicati equilibri transfrontalieri pare siano disturbati dalle formazioni tribali di confine al servizio del governo talebano, che tentano di espandere le zone cuscinetto a protezione del loro regime.
L’ombra del Dragone e il “terrorismo uighuro”
Oltre a bilanciarsi fra i Paesi confinanti, il Tagikistan si è rivolto alla Cina, che non ha certo rigettato la richiesta, a cominciare dalla costruzione di basi militari e punti di osservazione armati alla frontiera Tagikistan-Afghanistan, per monitorare e prevenire le infiltrazioni delle formazioni fondamentaliste islamiche, in particolare nel cosiddetto corridoio di Wakhan, nella provincia di Badakhshan. Uno spigolo fra Cina e Pakistan esteso circa 260km, largo non oltre 70km, fino al confine cino-afghano per altri 80km circa. Ovviamente, sono cinesi gli istruttori delle forze di confine dell’esercito tagiko, con il principale centro di addestramento che sarebbe stato localizzato in uno dei principali avamposti dell’ex Unione Sovietica, a ridosso della regione montuosa. Torri di osservazione e altre strutture difensive sarebbero operative, anche se sia il governo tagiko che quello cinese hanno ufficialmente negato la cooperazione militare, ma esisterebbero prove certe della presenza di presidi militari cinesi in Tagikistan.
Pechino è intenzionata a stabilire presidi lungo il confine occidentale, soprattutto in funzione della questione interna degli Uighuri dello Kinjiang, di cui diversi esponenti avrebbero trovato rifugio, via Tagikistan, nell’Afghanistan oggi in mano ai Talebani, i quali pare mantengano rapporti con le organizzazioni uighure, e se il Tagikistan deve stare attento a non sbilanciare i difficili rapporti con Pechino, deve fare altrettanto con la attuale leadership di Kabul.
Per altro, le organizzazioni e i media internazionali non parlano del fatto che il corridoio di Wakham sia fra le zone più controllate da droni e satelliti, e sono state presentate prove della presenza di soldati cinesi insieme a tagiki e afghani, mentre si tenta un approccio alla trattativa, poi non risolto. Provata anche la presenza di forze russe, circa settemila soldati che presidiano un settore del confine con l’Afghanistan e intorno alla capitale Dusanbe.
Fra alterne vicende, pare che cosiddetti terroristi Uighuri del Partito Islamico del Turkestan non siano poi così graditi ai Talebani, oltre ad essere nemici dichiarati di Pechino, pur se dagli anni ’90 del secolo scorso hanno sempre trovato ospitalità, o quanto meno tolleranza, in Afghanistan. Nei fatti, l’espulsione di diversi esponenti Uighuri, e il rifiuto di accoglienza di altri Paesi confinanti per non compromettere i rapporti con la Cina, ne ha comportato l’automatica consegna a Pechino. Il rischio è che le formazioni di combattenti Uighuri possano avvicinarsi ai miliziani dello Stato Islamico, presenti nella provincia orientale afghana di Nangharar. Per questo motivo il corridoio di Wakhan è altamente importante a livello strategico e geopolitico, e per i futuri rapporti diplomatici, politici e commerciali fra Cina, Afghanistan, Tagikistan e Uzbekistan, nuova frontiera cinese della Belt & Road Initiative, la Via della Seta del futuro.
Cui prodest?
In generale al processo di pace sostenuto dalla comunità internazionale, è utile al Tagikistan per garantirsi una fonte economica che sia allo stesso tempo strategica e fruibile per tutta l’economia nazionale e tentare di mantenere la stabilità politica al proprio interno. Ma quello che fa del Tagikistan un Paese che desta non pochi interessi, sono le risorse principalmente del sottosuolo, fra cui alcune miniere d’oro, tungsteno, uranio, argento, impianti per la lavorazione dell’alluminio, e centrali idroelettriche obiettivo della guerra commerciale per il controllo dell’oro blu, l’acqua.
Da non sottovalutare la posizione geografica per quanto riguarda il traffico illecito, con il più alto volume al mondo per gli stupefacenti, poiché zona chiave per la produzione proveniente dall’Afghanistan e il mercato russo in particolare, e quindi con la conseguente voce registrata come maggiore introito illegale del Paese.
Tale aspetto, così come per l’Afghanistan e non solo, è stato fra le cause della guerra civile dal 1992 al ’97, che ha influito molto negativamente sulle già deboli condizioni generali del Paese, ancora oggi riconosciute in mancanza di precise norme strutturali, diffusa corruzione, disoccupazione, e un consistente debito estero che solo con la Russia ammontava a oltre 300 milioni di dollari, 250 dei quali abbuonati in seguito a trattati commerciali, ovviamente a titolo di riparazione…
Il “Cui Prodest?” quanto mai attuale riguarda poi le risorse idriche e idroelettriche del Tagikistan. In proposito, con investimenti pubblici russi, e privati di altro genere, è stata avviata la fase operativa del progetto Rogun, con le dighe Idro-1 e Idro-2 di Sangtuda, affidato all’azienda italiana WeBuild, ex Impregilo, che cura fra le altre cose, anche la realizzazione del Progetto GERD in Etiopia. Quello in Tagikistan, quando ultimato, sarà un sistema con dighe di oltre 300 metri, le più alte del mondo.
Da non dimenticare quindi i finanziamenti provenienti dalla Cina, che hanno sostenuto parte dei costi per la crisi economica del 2008, e dovevano essere impiegati per risolvere lo sviluppo delle infrastrutture come la distribuzione di energia o le trasmissioni. Attualmente, i 2/3 della popolazione sono sulla soglia o al di sotto del livello di povertà, il che si traduce in “per molti, ma non per tutti…”.
La questione del controllo idrico assume ogni giorno maggiore importanza nello scenario “oro nero-oro bianco-oro blu”, tanto quanto il petrolio, il gas naturale e altri elementi fondamentali. Nonostante l’opposizione del governo uzbeko, è stato approvato il progetto sul fiume Vakhsh che influirebbe molto negativamente sui trasporti ferroviari e altri settori primari. In campo anche l’Iran, che fornisce via aerea al Tagikistan materiali da costruzione “Made in Sangob” (l’azienda iraniana produttrice) e attrezzature elettroniche destinate a completare l’impianto idroelettrico a un centinaio di chilometri da Dusambe. La rivalità Iran-Uzbekistan per il traffico commerciale è abbastanza accanita, anche perché le turbine destinate al progetto Sangtuda-2, da 140 tonnellate ciascuna, sono state prodotte in Cina, portate a Bandar Abbas, nell’Iran meridionale, e per via aerea in Tagikistan, con un investimento di oltre 45 milioni di dollari da parte tagika e di 180 milioni di dollari da Teheran, che in cambio ha ottenuto i diritti di gestione della diga per i primi 12 anni. Il tutto è spiegabile con la bassa presenza di giacimenti di petrolio e gas naturale rispetto al fabbisogno nazionale, a parte i diritti di passaggio per oleodotti e gasdotti, quindi la ricchezza maggiore deriva dall’idroelettrico, che ne fa un Paese notevolmente ricco di energia, venduta a caro prezzo, e a costo di accese rivalità perché i fiumi principali coinvolgono anche Paesi confinanti come il Kirghizistan, che ha manifestato forti timori per l’afflusso delle acque e il vitale settore dell’agricoltura, e l’Uzbekistan, il cui presidente Islam Karimov ha definito il Progetto Rogun “catastrofe economica e ambientale”. Nell’equilibrio del mercato energetico, non deve poi sorprendere che oltre l’80% della distribuzione dell’energia del Tagikistan, sia controllato dall’Uzbekistan, che invece è ricco di gas naturale. In sostanza, Dusambe ha accumulato debiti esteri per circa 2 miliardi di dollari, di cui buona parte verso la Banca Mondiale, la Banca Asiatica, e diversi istituti finanziari cinesi. In questo scenario, i contrasti internazionali sono incentrarti sullo sfruttamento del bacino del fiume Vakhsh, dal nord del Tagikistan, con le dighe Rogun, Nurek Sangtuda 1 e 2, quindi interessa in parte l’Afghanistan, e i grandi impianti di Tigrovaya Balka, Baipaza, Nurek, Bochtar, Golovnaja. Per la cronaca, il Tagikistan ha due siti nella lista Unesco: la zona archeologica di Sarazm e il Parco Nazionale del Pamir.
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