Da Clinton a Biden: ovvero perdere il pelo ma non il vizio… La storia recente mostra come la politica dell’Alta Finanza sia il fulcro di iniziative che, a prima vista, sembrano il risultato di fenomeni sociali, ma che invece corrisponderebbero ad un evidente progetto di egemonia planetaria. Di Michele Rallo.

Il presidente Biden.

Negli anni ’90 del secolo scorso, le grandi potenze mondiali, ovvero quei Paesi che si arrogarono il diritto di essere grande potenza per il fatto di avere vinto il secondo conflitto mondiale, decisero che si poteva anche fare a meno di un avversario-schermo come l’Unione Sovietica, e decisero di fare in modo di accelerarne la dissoluzione, facendo attenzione di agire perché alla guida della nuova Russia, e dei Paesi ex-satelliti, fossero poste personalità sulle quali fare affidamento per mettere in pratica le necessarie riforme (che alcuni fecero anche in buona fede)e di amministrare la gestione della svendita dell’intera economia di quei Paesi, a vantaggio delle grandi multinazionali, soprattutto americane. 

All’epoca, dal 1992 al 1999, l’inquilino della Casa Bianca era Bill Clinton, mentre a Mosca, messo da parte il fin troppo poco malleabile Mikhail Gorbachev, dal 1992 al 1999 salì al potere Boris Eltsin. 

Sia Clinton che Eltsin, tuttavia, erano inconsapevoli di essere solo due pur importanti ingranaggi del ben più grande progetto di “governo mondiale” della lobby dell’Alta Finanza, che doveva innalzarsi sulle ceneri degli Stati nazionali, anche degli stessi Stati Uniti. 

Un progetto il cui primo passo prevedeva il crollo della potenza economica, politica e militare dell’ex Unione Sovietica, nonché la neutralizzazione delle potenzialità europee e, non a caso, la cosiddetta Unione Europea nacque nel 1992, legittimando il ruolo degli Stati Uniti come unica potenza a livello globale. Il passo successivo sarebbe stato, probabilmente, la liquidazione della stessa potenza americana, presa nella morsa di un debito pubblico al cui confronto quello italiani pare uno scherzo) e l’ufficializzazione dell’egemonia esercitata dalla Finanza. A prima vista può sembrare la trama di un film di fantapolitica, ma a un più attento esame ci si accorge che invece è la realtà. 

In quel periodo, la Russia era a sua volta funestata da un’economia al collasso, con gli oligarchi che si erano appropriati di enormi patrimoni, grazie alla privatizzazione, e le condizioni sociali erano al parossismo, con i pensionati ridotti a chiedere l’elemosina per le strade, e gli impiegati statali e i militari senza stipendio, con una logica impennata del mercato nero, nel quale venivano venduti perfino gli armamenti e la componentistica nucleare. 

In seguito, verso la fine del 1999, uno di quelli che si chiamano “accidenti della storia”, spalancò le porte del Cremlino a un ex funzionario del KGB, tale Vladimir Vladimiroviç Putin, e la musica cambiò drasticamente. In poco tempo, quella che era vista come una vera e propria “macelleria sociale” diventò un ricordo, i pensionati poterono nuovamente arrivare alla fine del mese, il governo pagava regolarmente i salari sia ai dipendenti statali che ai militari, e nessuno osò più contrabbandare merci pericolose come le testate nucleari. La Russia risalì la china e si guadagnò nuovamente il proprio posto fra le superpotenze mondiali, impedendo agli Stati Uniti di mantenere l’egemonia globale, e frenando ancora una volta il progetto della creazione del governo dell’Alta Finanza. 

Di fronte a un tale delitto di “lesa maestà” (la maestà del denaro), alcuni settori della politica e della finanza mondialista, hanno reagito nel modo peggiore: alzando il livello dello scontro e moltiplicando le provocazioni, con il dichiarato obiettivo di “contenere” il rinnovato attivismo di Mosca. 

L’obiettivo reale divenne quindi provocare una reazione russa che potesse giustificare una risposta (militare) della NATO, che ormai altro non è che il paravento del colonialismo americano in Europa. 

I più attenti lettori ricorderanno certo un articolo scritto per “La Risacca”, dell’ottobre 2011, intitolato “Qualcuno prepara la terza guerra mondiale”, nel quale avevo scritto, fra l’altro: “Secondo alcuni analisti, l’unico mezzo che gli USA hanno per sovvertire questa situazione è di provocare una guerra di vaste proporzioni, che possa portare a un generale rimescolamento di carte, in alcune zone di particolare interesse strategico. Anzitutto il Medio Oriente, confine fra Asia e Africa; poi il Mediterraneo, confine fra Europa e Africa; infine il Caucaso, zona periferica della sempre temibile Russia. Al centro del mirino, al momento, c’è la Siria (…) ma il vero obiettivo è l’Iran (…). A quel punto si aprirebbero scenari pericolosi: Russia e Cina, infatti, non potrebbero assistere passivamente alla distruzione dell’Iran, preziosissimo partner commerciale, per cui potrebbero essere spunte all’intervento diretto. Uno scenario non troppo ipotetico, che potrebbe essere preludio a una terza guerra mondiale”. 

Un’analisi ormai datata, perché dagli ultimi dieci anni, il pericolo iraniano è considerato una minaccia più lontana, ma in compenso è stato accesso un altro inquietante focolaio in Ucraina, dove gli Stati Uniti hanno finanziato una rivolta armata che ha causato l’allontanamento del presidente filorusso, democraticamente eletto, per portare al potere un gruppo di “democratici” marcatamente filoamericani. Poi c’è stata la Libia, e infine, come colpo di grazia, un altro tentativo in Siria, anche a costo di favorire la creazione di un califfato terrorista (Isis, Daesh o Stato Islamico) che si ritagliasse una generosa porzione di territorio, esteso anche a parte dell’Iraq. Ancora una volta, però, la Russia ha messo i bastoni fra le ruote al grande progetto, intervenendo a sostegno del governo del presidente siriano Bashar Al Assad, costringendo gli americani a scendere in campo a loro volta, per abbattere i fondamentalisti islamici dell’Isis. Salvo, naturalmente, alcuni spiacevoli “sbagli”, come il bombardamento a danno dei siriani, favorendo le potenzialità difensive dell’Isis. 

In questo quadro, lo sfortunato Barak Obama, 44° presidente degli Stati Uniti e primo afroamericano a sedere nello Studio Ovale (nonché, incredibilmente, vincitore del Premio Nobel per la Pace) chiudeva il proprio debole mandato con la sconfitta americana in Siria e con l’affronto della Brexit e la bocciatura del progetto di imporre all’Unione Europea un trattato-capestro basato, a parole, sul libero scambio. Tanto che la prestigiosa rivista “Forbes”, una vera e propria bibbia in materia di ricchi e famosi, lo scalzò dal gradino più alto del podio della graduatoria dei “più potenti del mondo”, sostituendolo al primo posto con Vladimir Putin, ponendo Angela Merkel al secondo posto, e riservandogli un poco gratificante terzo posto. 

E’ questo, in sintesi, il clima in cui è maturata l’ultima grave provocazione, cioè quella dell’annuncio di una “guerra cibernetica” contro la Russia, e con la conseguente risposta di Mosca secondo cui “Washington scherza con il fuoco”. Tutti si auguravano che ci si fermasse agli scherzi, e che Putin mantenesse la caratteristica flemma tutta russa e non cadesse nella trappola, ma non è stato così. Per questi motivi, molti vedono nuovamente innalzarsi lo spauracchio di una guerra nucleare, la cui linea di fuoco è sempre di più l’Europa, Italia compresa, che dimostra di essere solo un vergognoso paravento e manda i soldati a partecipare alle esercitazioni NATO ai confini della Russia. 

“Ragion di Mercato” batte “ragion di Stato” 

Ma non è tutto. Ulteriore provocazione è poi stata quella delle elezioni per il Parlamento ucraino, nel quale sono stati ammessi tre cittadini non ucraini, ai quali il presidente ha prontamente concesso la cittadinanza ucraina. 

La maggior parte dell’opinione pubblica non ha colto il vero significato di questa notizia, e la stampa italiana ha relegato la notizia fra le pieghe della politica internazionale, salvo poche eccezioni come “La Stampa” e “Il Sole 24 Ore”. Da queste fonti ho appreso notizie (condite poi con personali opinioni e riflessioni quanto mai “eretiche”) che ritengo possano essere utili a comprendere qualcosa di più sulla spinosa vicenda ucraina e non solo, ma anche su alcuni fatti di un recente passato tutto italiano e forse – spero di sbagliare – su certi scenari che determinati ambienti altolocati vorrebbero riproporre anche in Italia. 

In sostanza, i tre ministri non ucraini erano Natalie Jarescko (americana) alle Finanze; Aivaras Abromavicius (lituano e già dipendente del Dipartimento di Stato USA) all’Economia; e Aleksandr Kvitashvili (georgiano manifestamente filo-americano) alla Sanità. E almeno altri venti persone non ucraine, sono stati collocati nei vari ministeri, e in posizioni di alta responsabilità e posizioni chiave. Il che fa quanto meno pensare al fatto che molte decisioni di prima importanza, e il tracciamento delle linee guida della politica ucraina, possano venire prese da soggetti estranei. Il tutto considerando che la rapida formazione del governo ucraino è stata pesantemente sollecitata dall’allora vicepresidente di Barak Obama, Joe Biden, il cui figlio Hunter ha trovato anche il modo di infiltrarsi nel consiglio di amministrazione della società petrolifera Burisma Holding, proprietaria dei diritti di sfruttamento dei giacimenti di gas scisto del Donbass, che però potranno essere riscossi solo in caso che la regione venga sottratta al controllo dei filorussi. Non è poi strano che alle pressanti insistenze del vicepresidente Biden, si sia aggiunto anche il Fondo Monetario Internazionale (organismo nominalmente internazionale, ma chiaramente a controllo maggioritario americano), i cui prestiti hanno consentito alla nuova Ucraina di sopravvivere, ma che dovrebbe allargare ulteriormente i cordini della borsa per non far fallire una Ucraina senza “soccorso invernale” russo. 

Inoltre, perché l’elemento più interessante dell’intera vicenda è che la composizione del nuovo governo di Kiev, così tanto voluto da oltreoceano, era stata probabilmente commissionata dal presidente-magnate Poroshenko a due società specializzate in “caccia alle teste”, terminologia che, al di fuori dell’ambiante degli “addetti ai lavori”, significa “ricerca capillare di manager ai quali affidare particolari incombenze”. Attenzione però: non individuare candidati all’interno dei partiti ucraini, ma fra gli ucraini residenti all’estero o fra gli stranieri residenti in Ucraina, o cittadini non ucraini che possano vantare un qualche legame con l’Ucraina. 

Un intricato gioco dell’oca, nel quale sembra che la parcella per questa speciale ricerca di “personale specializzato” non sia stata pagata dalla Presidenza della Repubblica, ma dalla International  Renaissance Foundation, organizzazione non governativa ufficialmente ucraina ma in realtà eterodiretta, e costola della Open Society Foundation, organizzazione di George Soros che opera in diversi ambiti e molti Paesi, per promuovere governi ispirati al principio americano di democrazia e, naturalmente, libertà del mercato. 

George Soros (ed è qui il primo aggancio alle vicende italiane) è un ebreo ungherese diventato cittadino americano, che si è distinto per la spregiudicatezza nella speculazione finanziaria. A noi italiani, questa spregiudicatezza (“come operatore del mercato non mi preoccupo delle conseguenze delle mie operazioni finanziarie” – Cit.) ha fatto molto male nel 1992, quando le sue manovre causarono una perdita valutaria intorno ai 48 miliardi di dollari, e all’origine della successiva svalutazione della lira di ben il 30%. 

Tornando al governo ucraino, la sua particolare composizione non deve sorprendere, perché è semplicemente la certificazione che questo sia espressione di quei poteri forti che ho sempre sostenuto essere all’origine della rivolta “spontanea” detta Euromaidan. 

C’è poi un aspetto delle vicende ucraine che inquieta in modo particolare: la sensazione che si tratti solo di un assaggio, un “ballon d’essai” per dirla alla francese. Insomma, che si sia voluto fare passare il messaggio, diretto in particolare all’Europa, secondo il quale non sempre i popoli debbano essere governati da persone provenienti dal loro seno, ma anche da elementi stranieri che possono essere anche più competenti, dove per “competenza” si deve intendere disponibilità a massacrare le popolazioni in nome della libertà del mercato. 

Anche il recente declassamento decretato da Standard & Poors nei confronti dei titoli italiani (ridotti ad appena un gradino più su dei “titoli spazzatura”) pare essere compatibile con un disegno di ben più ampio respiro che potrebbe comprendere un commissariamento dell’Italia da parte del Fondo Monetario Internazionale e dei suoi reggicoda europei. Ecco che, in un contesto del genere, il governo italiano potrebbe essere “affiancato” da uno staff di competenti esperti Made in USA, cui spetterebbe il compito di adottare le misure più drastiche. 

Intanto – come ha scritto Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa “ – il giulivo cinguettatore fiorentino ha annunciato che manager stranieri hanno ricevuto l’incarico di sovrintendere ai nostri principali beni culturali. L’Italia, che esporta “cervelli” in tutto il mondo e nei più svariati campi dello scibile umano, non avrebbe qualche decina di elementi in grado di occuparsi dei propri siti archeologici, monumenti e istituzioni culturali e artistiche. Magari questi “super manager” avranno altre particolari capacità, probabilmente nel campo delle privatizzazioni… 

Certo non siamo ancora ai livelli del brutale colonialismo americano dell’Ucraina, ma nel nostro piccolo facciamo la nostra porca figura! 

D’altro canto, noi italiani siamo stato così bravi che, dopo essere stati affossati da George Soros, gli abbiamo conferito anche una Laurea Honoris Causa in Scienze Politiche. E pensare che, per comportamenti analoghi (cioè per avere speculato contro le rispettive valute nazionali) in Indonesia George Soros è stato condannato all’ergastolo in contumacia, e il Malesia condannato a morte. 

Noi invece gli abbiamo dato una laurea, e quindi possiamo tranquillamente concederci il lusso di assumere esperti stranieri per un settore in cui siamo maestri. E speriamo che ci si fermi qui. 

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