L’omicidio di Maurizio Gucci. Di Chiara Crisci.

L'imprenditore Maurizio Gucci.

Focus dei fatti

Soldi, successo, potere finanziario, visibilità, rancore, gelosia e vendetta. Sono queste  componenti della “dinamite esplosiva” che hanno portato, la mattina del 27 marzo 1995, alla morte di Maurizio Gucci, l’imprenditore italiano presidente dell’omonima casa di moda di grande pregio italiano nel mondo, fino al 1993, ucciso freddamente e con crudeltà mentre entrava nello stabile di via Palestro a Milano, dove aveva lo studio.

  Omicidio che portò inevitabilmente in carcere l’ex moglie dell’imprenditore, Patrizia Reggiani,  indagata e conseguentemente accusata di essere la mandante del delitto, e altre quattro persone, tra cui gli esecutori materiali.

Quel delitto che provocò sconcerto nell’opinione pubblica e passò alla cronaca per anni come percorso storico sulle vicende omicidarie per la scalata al potere economico-finanziario, oggi diventerà un film: sono iniziate in Italia le riprese di “House of Gucci”, diretto da Ridley Scott, con protagonisti Adam Driver e Lady Gaga.

Il fatto storico

La prima ora mattina del 27 marzo 1995 Maurizio Gucci uscì dal palazzo in Corso Venezia, dove dimorava prevalentemente, per tradursi a piedi nell’attiguo stabile in via Palestro, sede della società Viersee fondata da poco. Una volta arrivato davanti al portone dell’ufficio, Gucci non si accorse di quella Clio verdastro parcheggiata nelle immediate vicinanze.. All’interno dell’abitacolo, c’era il suo killer, colui che prenderà possesso della sua vita. Raggiunte le 8.30 Gucci entrò nel palazzo,  fece appena in tempo a salire  pochi gradini che separano la portineria dall’androne che fulmineamente: un uomo entrò nello stabile, gli sparò tre colpi alla spalla sinistra e al gluteo destro, poi si avvicinò, lo finì con un ultimo colpo alla tempia e si girò per andarsene. Fu in quell’istante che vide, poco dietro la porta di ingresso, il portiere dello stabile, che quella mattina stava facendo il suo lavoro in diligendo ed in vigilando la palazzina, come di consuetudine. Il sicario esplose due colpi anche in direzione dell’uomo, ferendolo ad un braccio. Poi uscì di corsa e salì a bordo della Clio verde, guidata da un complice. Morì così Maurizio Gucci, erede della nota casa di moda. E da quel momento iniziò il caso che, tra indagini, operazioni sotto copertura e colpi di scena, ha tenuto col fiato sospeso l’Italia degli anni ’90.

L’approccio delle indagini, fu eseguire attività che si concentrarono sugli affari professionali e finanziari della vittima, che brevi anni prima aveva ceduto il marchio delle due G della denominazione societaria alla società araba Investcorp, già proprietaria al 50% del pacchetto azionario componente il capitale sociale.

 In nuce, le ricerche condussero gli investigatori in Svizzera: “Una pista precisa non c’è ancora – aveva rivelato il sostituto procuratore che si occupò del caso Carlo Nocerino, come riportò l’Unità all’epoca – anche se quella che riguarda le ultime operazioni finanziarie concluse dalla vittima sembra la più attendibile“. Per questo si iniziò a ricostruire luci e ombre degli affari di Maurizio, passando al setaccio vecchie e nuove conoscenze, per capire se qualcuno in campo finanziario potesse avere interesse a uccidere l’uomo. Ma dopo mesi di indagini in quel campo non emerse nulla. E per due anni nessuna novità scosse il caso Gucci.

Carlos, sotto copertura tra gli esecutori materiali del fatto

A segnale la svolta delle complesse indagini, nientemeno che una telefonata, arrivata alla Criminalpol la sera dell’8 gennaio 1997, circa due anni dopo la morte dell’imprenditore. All’altro capo dell’ apparecchio telefonico c’era un uomo, Gabriele Carpanese, che ​chiese di dialogare con il vicequestore Filippo Ninni, sostenendo  fermamente di avere informazioni utili sull’omicidio di Maurizio Gucci.

Dalle sue dichiarazioni espositive, dietro al delitto ci sarebbe stata la mano di Patrizia Reggiani, ex moglie della vittima, che avrebbe demandato all’amica Giuseppina Auriemma di trovarle un killer. La donna quindi si sarebbe rivolta a Ivano Savioni (con cui Carpanese era venuto in contatto, raccogliendo le sue confidenze sul caso Gucci), che avrebbe assoldato Benedetto Ceraulo e Orazio Cicala. Gli inquirenti non persero tempo e spedirono l’informatore, munito di una cimice captativa, a parlare con Savioni che, durante la conversazione, chiese a Carpanese di trovare un sicario per fare pressioni sulla Reggiani, di modo da chiederle più soldi. A quel punto si presentò agli inquirenti l’occasione da non perdere, quindi ad hoc per infiltrare un proprio uomo: così emerse il personaggio di Carlos, un colombiano senza timore, faccia da perdere né scrupoli.

 Queste le sue dichiarazioni: “Prima di incontrare Savioni, ho fatto un paio di telefonate in albergo per chiedere di Gabriele. Parlavo spagnolo“, aveva raccontato l’agente sotto copertura all’Unità. Poi avvenne il primo incontro in una saletta dell’albergo dove lavorava Savioni: “Ho avuto la sensazione che Savioni volesse mettermi alla prova – continua Carlos nell’intervista – Non ho mai detto una parola in italiano, Gabriele faceva da interprete. Quindi, mi offrono una tazzina di caffè, mi chiede se voglio lo zucchero aspettando una risposta immediata. Io non faccio una piega, guardo le altre due tazzine, avevano del latte. Rispondo in spagnolo ‘no, non prendo latte’.

 Ed ancora:” Poi parliamo della Colombia. Gabriele gli presenta il mio curriculum di pericoloso killer legato alla mafia di Medellin“. Di seguito l’occasione: Savioni diede a Carpanese le chiavi della sua auto, inviandolo al ristorante insieme al colombiano. Il fortunato avvenimento permise agli inquirenti di piazzare sulla macchina le microspie necessarie a carpire informazioni. L’incontro successivo avvenne dopo una settimana: “Savioni mi aveva fatto sapere tramite Gabriele che gli serviva aiuto per spillare nuovi soldi a Patrizia Reggiani“. Conversazioni registrate, rivelazioni raccolte e passi falsi fecero arrivare gli investigatori a una conclusione del tutto distante dagli affari finanziari dell’imprenditore, che erano stati al centro delle indagini subito dopo l’omicidio. E per i componenti della associazione a delinquere che ha organizzato e portato a termine il delitto scattarono le manette, il 31 gennaio del 1997: l’imputazione era quella di omicidio premeditato e tentato omicidio.

Le condanne Benedetto Ceraulo venne accusato di aver premuto materialmente il grilletto quella mattina del marzo 1995, mentre Orazio Cicala lo aspettava alla guida della Clio verde. I due, secondo i giudici, erano stati assoldati dal portiere d’albergo Ivano Savioni, che a sua volta era stato contattato da Giuseppina Auriemma, una “maga”, come la definì la stampa del tempo. La Auriemma era in illo tempore, amica intima e consigliera di Patrizia Reggiani: a lei l’ex signora Gucci rivelava pensieri, confidenze e desideri, tra cui anche quello di sbarazzarsi di Maurizio. “Io credo che il ruolo di Pina Auriemma sia stato determinante nella vita della Reggiani – ha rivelato a IlGiornale.it la criminologa e psicoterapeuta Margherita Carlini – lei stessa disse che nell’Auriemma aveva trovato la persona con cui confidarsi e forse senza di lei la Reggiani non sarebbe riuscita a esternare questi aspetti così negativi come la volontà di uccidere”. Secondo la procura, il piano per l’omicidio dell’ex marito costò alla Reggiani 600 milioni di lire.

Il 2 giugno 1998 prese vita il processo:  vi erano cinque persone rinviate a giudizio con l’accusa di aver organizzato e messo in atto il piano che portò all’evento morte di Maurizio Gucci.

 In data 3 novembre dello stesso anno, la Corte d’Assise di Milano dichiarò tutti gli imputati “colpevoli dei reati a loro ascritti“, condannando la Reggiani a 29 anni di carcere quale mandante dell’omicidio e la Sig.ra Auriemma, furono comminati 25 anni, riconoscendola come intermediaria. A Savioni e Cicala venne riconosciuta una pena pari rispettivamente a 26 e 29 anni di reclusione, mentre per Ceraulo che aveva sparato il giudice decise di applicare l’ergastolo. I giudici di secondo grado, di fatto, confermarono la colpevolezza di tutto il gruppo, ma la sentenza della Corte d’Appello di Milano del 17 marzo 2000 ridusse le condanne: 26 anni per Patrizia Reggiani, 19 anni e 6 mesi per Pina Auriemma, 28 anni 11 mesi e 20 giorni a Ceraulo, 26 a Cicala e 20 a Savioni. L’ex signora Gucci fece ricorso in Cassazione, che il 19 febbraio 2001 confermò la sentenza di secondo grado, riconoscendo la donna come mandante dell’omicidio.

 Il movente a detta dell’accusa, era stato un insieme tra l’aspetto emotivo- passionale e quello economico: “Quello che i giudici riportano – spiega la criminologa Carlini – è una sorta di miscela esplosiva, cioè una serie di variabili che hanno influito sulla decisione di compiere il delitto. Si tratta di tre elementi: in primo luogo il rancore dovuto alla percezione di un’estromissione da un certo status, in seconda battuta il timore di perdere l’eredità e l’avidità legata all’assegno di mantenimento che la Reggiani si vedeva diminuire e infine una componente importante è stata quella emotiva e passionale”. Nonostante le perizie Patrizia Reggiani non venne mai dichiarata incapace di intendere e di volere, ma secondo i giudici di primo grado la donna soffriva di un disturbo della personalità di tipo istrionico-narcisistico. Ma cosa significa? “la persona istrionica è caratterizzata anche dalla manifestazione esasperata di determinati vissuti – spiega la criminologa – e con narcisistica si intende una personalità che può avere difficoltà ad accettare e gestire il rifiuto. Nel corso del processo la difesa aveva provato a istanziare il vizio di mente,- collegandolo come nesso causale- alla patologia tumorale che aveva colpito il cervello per cui la Reggiani era stata operata, ma poi la capacità di intendere e di volere senza alcuna alterazione, venne dichiarata integra, perché venne riconosciuta un’organizzazione nelle fasi precedenti e successive all’evento”.

Patrizia Reggiani post delictum

La Signora Gucci Patrizia Reggiani, ex moglie di Maurizio Gucci, mandante dell’omicidio, fu condannata inizialmente a 29 anni, che furono poi ridotti a 26. Il 9 novembre 2000 ha tentato il suicidio in carcere impiccandosi con le lenzuola in dotazione alle sbarre della sua cella ma venendo fortunatamente salvata dalle guardie penitenziarie. Alla detenuta Reggiani, fu  proposta la semilibertà, ma per sua volontaria scelta, decise di rinunciarvi poiché, come da lei dichiarato, non aveva mai lavorato in vita sua e preferiva quindi rimanere in cella, piuttosto che prodigarsi per cercare occupazioni al fine di sostenere la vita quotidiana. Il 20 febbraio 2017, dopo 20 anni, riottiene la libertà. Patrizia Reggiani non ha mai confessato di essere la mandante dell’omicidio del marito Gucci, ma ha reiteratamente senza indigi, sostenuto che l’amica Pina Auremma abbia agito di sua sola intenzione e iniziativa. Ancora oggi vive del vitalizio lasciato dell’imprenditore Gucci di quasi un miliardo di vecchie lire l’anno, pare non abbia alcun rapporto se non tramite legali con le figlie a causa dell’eredità contesa aspramente. Chissà quale versione della Signora Gucci Patrizia Reggiani verrà proposta dal film con Lady Gaga. Restate aggiornati con DonnaPOP per scoprire in anteprima tutte le news sull’attesissimo film House of Gucci: tutte le curiosità, i look di Lady Gaga, cast e foto dal backstage!

Patrizia Reggiani “contemporanea”

Patrizia Reggiani ha colpito l’opinione pubblica che l’ ha conosciuta per qualche comparsa su testate di cronaca scritta e televisiva e ampiamente sul set del documentario.  Ha un carisma particolare ed emana luce, anche avendo un passato piena di ombre: sembra pattinare sulla vita».Questa vicenda ha davvero dell’incredibile e più che un fatto di cronaca nera assomiglia alla sceneggiatura di una serie tv. Una sorta di soap di intrighi con giallo.  Una donna certamente complessa con profili psicologici profondi, con  mille sfaccettature, così particolare dovrebbe essere studiata a fondo anche come profilo esecutivo giudiziario.

Patrizia Gucci omonima e donna di vera stirpe

V’è un’altra donna che, suo malgrado, è legata a Patrizia Reggiani e da anni combatte una battaglia per difendere il suo nome: è Patrizia Gucci, «quella vera». «Il mio nome è Patrizia Gucci, sono figlia di Paolo e pronipote del fondatore della maison – specifica -. La signora Reggiani non può più usare il cognome Gucci per legge, da quando ha divorziato ma invece continua a farlo ledendo il mio diritto all’immagine, il diritto al mio nome». La vera Patrizia Gucci è stremata da questo scambio di persona, «una confusione che mi perseguita da anni e anni ormai». Qualche esempio? «La signora Reggiani va nelle boutique di Milano e lascia ancora il cognome Gucci con il risultato che io vengo chiamata dai negozi: “Signora, il suo vestito è pronto”. Ma io non ho comprato alcun abito! È accaduto anche con il parrucchiere per un appuntamento». Patrizia Gucci ribadisce che questa omonimia con l’ex moglie di Maurizio «porta a una violazione costante della mia privacy, vorrei che fosse chiaro una volta per tutte che la vera e unica Patrizia Gucci sono io.»

Riabilitazione sociale effettiva

 Per una effettiva risocializzazione si tiene o meglio si dovrebbe tener conto del pentiménto s. m. [der. di pentire (cfr. pentirsi)]. Quel sentimento di rimorso, dolore, rammarico per aver fatto cosa che si vorrebbe non aver fatto (sia perché male in sé o tale considerata, sia perché dannosa, offensiva o spiacevole nei rapporti con altre persone, sia perché in contrasto con una norma di natura giuridica o morale), o al contrario per avere omesso di fare ciò che sarebbe stato doveroso o giusto fare; in partic., sentimento di dolore per le colpe e i peccati commessi in trasgressione delle leggi divine, dei comandamenti e precetti religiosi, della fondamentale legge dell’amore verso Dio e verso gli altri (in questo senso, è meno preciso di contrizione, termine a sua volta contrapposto ad attrizione, che è il pentimento determinato dalla paura della pena): avere, provare, sentire, mostrare pentimento; p. sincero; un p. improvviso.  Più genericam., dispiacere o disappunto per avere fatto o non fatto una cosa, per avere seguito un comportamento diverso da quello che si giudica sarebbe stato opportuno o conveniente o comunque preferibile: nella mia vita, ho sempre deciso seguendo la ragione e la coscienza, senza pentimenti. c. Nella dottrina del diritto penale, ogni forma di ravvedimento e di collaborazione con la giustizia da parte di criminali politici e comuni, che per determinati reati (sequestro di persona, associazione sovversiva, banda armata, ecc.), al pari di una circostanza attenuante, può comportare una notevole riduzione di pena. 2. estens. a. Mutamento di opinione, di parere: una decisione che non ammette pentimenti; un sì o un no senza pentimenti. b. Correzione che si apporta a un proprio scritto: scrivere, comporre di getto, senza incertezze o pentimenti; in partic., soprattutto al plur., le correzioni che un autore ha portato alla sua opera, già compiuta, in edizioni o rielaborazioni successive. c. Analogam., nella critica delle arti figurative, ogni mutamento che l’artista apporti in qualche parte già eseguita dell’opera, e che talora (spec. nelle pitture antiche) può essere scoperto per il riaffiorare, col passar del tempo, della prima soluzione dagli strati più profondi del colore, o usando speciali tecniche con i raggi X.  Dim. pentimentùccio, non com., lieve pentimento o mutamento d’opinione, cambiamento di volontà (per lo più scherz.): se in questo tempo vi fosse nato qualche dubbio, qualche pentimentuccio, grilli di gioventù, avreste dovuto spiegarvi (Manzoni).

Pentimento operoso (d. pen.): Circostanza attenuante comune [vedi Attenuanti], di cui all’art. 62, n. 6 seconda parte c.p., che opera a favore dell’agente che si sia adoperato, prima del giudizio, in modo spontaneo ed efficace per elidere o attenuare le conseguenze del reato.

Denominato anche ravvedimento post delictum, il Pentimento operoso presuppone non solo la volontarietà ma anche la spontaneità del comportamento riparatore in quanto deve essere determinato da motivi interni e non da ragioni meramente opportunistiche.

 Il giudizio morale

Filosofi, psicologi e uomini di varie scienze cognitive hanno recentemente proposto diverse analisi del giudizio morale. Per esempio Marc Hauser, psicologo di Harvard assai noto, ha escogitato un raffinato esperimento condotto su Internet. Un vagone ferroviario privo di freni corre a ruota libera su un binario sul quale si trovano, ignare, cinque persone. Il soggetto può, se vuole, azionare uno scambio e dirottare il vagone su un diverso binario, sul quale si trova, anche lui ignaro, un grosso ciccione. Il povero ciccione morirà, ma le altre cinque persone saranno salve. In un caso diverso, il ciccione non si trova già sul binario, ma può esservi fatto precipitare spingendolo giù da un ponte sovrastante. Lui morirà, e bloccherà il vagone, e le altre cinque persone si salveranno. Dopo aver ricevuto decine di migliaia di risposte dai quattro angoli della terra, Hauser ha concluso che le intuizioni morali sono universali e innate, indipendenti da età, sesso, credenze religiose e fattori culturali, mentre le giustificazioni per tali intuizioni variano moltissimo.

Questo contraddice l’opinione che le intuizioni morali siano il frutto delle nostre giustificazioni morali. Per esempio, è un’intuizione universale che causare attivamente la morte di una persona (spingere il ciccione sul binario), seppur per buoni motivi (salvando la vita di cinque altre persone) è moralmente più straziante che non sfruttare una situazione di pericolo nella quale una persona già si trova, indipendentemente da noi (azionare lo scambio ferroviario). Un gruppo di teppisti che ha picchiato selvaggiamente un povero fattorino è più riprovevole di un gruppo di astanti che ha assistito senza intervenire a quel pestaggio. Eppure il loro intervento, magari, avrebbe potuto impedire o mitigare il pestaggio.

Osserviamo chiaramente che fattori cognitivi e fattori etici si intrecciano intimamente e vi sono, in questo settore, curiose asimmetrie. Se una persona non è stata la causa di un danno o di un misfatto, non la si può moralmente condannare, ma risulta spesso arduo decidere chi o che cosa è stata la causa. Per esempio, se un alto dirigente decide di eseguire un progetto finanziariamente per lui vantaggioso, ma che prevedibilmente inquinerà l’ambiente, verrà da noi moralmente condannato e la sua decisione verrà da noi considerata causa dell’inquinamento. Però, un simile dirigente che, invece, decide di non procedere non viene da noi lodato come meritorio protettore ecologico e la sua decisione non viene da noi considerata la causa della qualità dell’ambiente.

Da ciò, i concetti di causa e di conseguenze, per quanto importanti, non bastano a spiegare la diversità di intuizioni morali in casi come questi. Intervengono anche altri fattori cognitivi, come quelli di azione e di omissione, di cosa è normale e di cosa è eccezionale. Tutti questi fattori e i loro intrecci hanno spinto filosofi, psicologi e scienziati cognitivi a vederci più chiaro. Interessanti nuovi dati e modelli matematici, ancora non pubblicati, sono stati recentemente presentati al VI Convegno internazionale di psicologia del pensiero, tenuto a Venezia, dai cognitivisti americani Steven A. Sloman, Philip Fernbach e Scott Ewing della Brown University (Providence, Rhode Island).

Sulla base di esperimenti, modelli formali e dati di imaging delle attivazioni cerebrali, essi sostengono che esistono due distinti momenti: prima noi effettuiamo rapidamente e istintivamente una valutazione (appraisal) morale della situazione, poi intervengono considerazioni soppesate, un ragionamento. E infine formuliamo il vero e proprio giudizio morale. Il conduttore di un’auto che investe un passante è più responsabile se aveva freni inefficienti e lo sapeva che non un conduttore che non ha potuto frenare perché c’era imprevedibile ghiaccio sulla strada. La connessione causale tra freni difettosi e incidente è diversa, nella nostra mente, da quella tra slittamento sul ghiaccio e incidente.

Esistono modelli matematici e programmi di calcolatore che possono ben simulare e far variare a piacere tali connessioni causali, così come la nostra mente se le rappresenta. Si chiamano reti Bayesiane, dal nome del celebre matematico e sacerdote inglese Thomas Bayes, che formulò le leggi probabilistiche delle dipendenze causali intorno al 1760. Sloman e collaboratori le hanno usate per inquadrare esattamente le relazioni psicologiche tra cause, attribuzioni di meriti e colpe e giudizi morali. Una banda di bulli attaccabrighe entra in un villaggio. Un padre mingherlino e un figlioletto attraversano la strada. Un robusto bullo, fissando con arroganza il padre negli occhi, dà un pugno in faccia al figlioletto. Poi dice al padre, con tracotanza: «E adesso, che pensi di fare?».

La nostra reazione immediata, sarà di disprezzo per il comportamento del bullo (prima fase). La seconda fase, probabilmente, sarà di condanna, revulsione morale e rabbia. Una reazione morale ed emotiva. Ma la reazione emotiva non può essere la causa del disprezzo, perché non ci sarebbe stata, se il disprezzo non fosse venuto prima. Nel loro denso e ben argomentato lavoro, Sloman, Fernbach e Ewing considerano fattori cognitivi come azione/omissione, causa diretta e causa indiretta, conseguente prevedibili e imprevedibili, equità (fairness) e iniquità (unfairness), intento e involontarietà, prossimità fisica alla vittima o contatto remoto, lungo complicate reti di connessioni e con connessioni tra queste reti e i giudizi morali.

Un inserviente ignaro lascia sbadatamente su un bancone una polverina venefica che sembra zucchero. Uno studente poi la usa come zucchero e muore. Stesso caso, ma ora chi l’ha lasciata sbadatamente è un biochimico esperto. La differenza morale salta agli occhi. Nel caso del grassone e del vagone, spingerlo noi fisicamente giù dal ponte ci appare moralmente più ripugnante che non azionare a distanza una leva che lo fa cadere sul binario. Curiosa differenza psicologica e morale, difficile da giustificare razionalmente. Cosa si può concludere? Fattori psicologici, per così dire, di pura pelle e poco razionali (spingere giù contro azionare una leva) influenzano le nostre intuizioni morali, che ci piaccia o meno. I giudizi morali sono qualcosa di più della nostra prima e immediata valutazione istintiva, ma emozioni e reazioni viscerali intervengono anche in questi. Infine, fattori cognitivi «puri», come la causalità e la similitudine tra il caso attuale e altri casi già visti, sono necessari, ma non sufficienti, a spiegare i giudizi morali.

Terminerò con un esperimento esemplare e inquietante, dovuto al premio Nobel Daniel Kahneman. In due stanze distinte a due gruppi distinti di soggetti viene chiesto di immaginarsi di esser membri di una giuria che deve decidere quale somma monetaria accordare per risarcimento a una vittima ferita in una rapina a mano armata in un supermercato. Ai soggetti nella prima stanza viene detto che la vittima «si era recata come al solito al supermercato dietro l’angolo». A quelli nella seconda stanza che «la vittima si era recata eccezionalmente in un supermercato fuori zona». Stessa ferita, stesso incidente. Ma, in media, la vittima del supermercato fuori zona riceve dai finti giurati una somma superiore a quella accordata alla vittima nel supermercato consueto. Irrazionale, eppur molto reale. Una di quelle intuizioni a fior di pelle con conseguenze morali. Difficile giustificarla, ma impossibile ignorarla.

Possibili atti “riparatori”

L’ Ordinamento Italiano, oltre a prestare attenzione alle condotte delittuose cd. “consumate”, si è concentrato su quegli episodi in cui il reo, per motivi di coscienza o di ripensamento, interrompa la propria condotta criminosa.Per analizzare questa ipotesi, occorre distinguere le fasi in cui si sviscera la condotta criminosa, che sono: l’ideazione; la preparazione; l’esecuzione; la perfezione del reato e, infine, la consumazione.E’ proprio in quest’ultima fase che si può inserire la condotta operosa del reo, che decida di non portare più a termine il reato.A tenore dell’art. 56, co. 2 e 3, c. p., l’ipotesi di “dietrofront” è duplice: quella in cui il colpevole desista volontariamente dall’azione e quella in cui impedisca volontariamente l’evento. Le stesse vanno rispettivamente sotto il nome di “desistenza volontaria” e “recesso attivo” (o ravvedimento/pentimento operoso).In ambo i casi, da parte dell’Ordinamento, c’è un atteggiamento premiale, che si traduce in uno sconto di pena per il reo:Nel primo caso il colpevole soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso;nel secondo, invece, il colpevole soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà.Qualche problema applicativo lo ha dato il concorso di persone, dove il soggetto concorrente, per andare esente da pena, oltre a neutralizzare il contributo personalmente arrecato alla realizzazione del fatto collettivo, dovrebbe anche impedire la consumazione del reato da parte degli altri correi (se il soggetto riveste la posizione di “esecutore” nulla questio, ma se è un semplice compartecipe l’impedimento della consumazione potrebbe diventare un’ipotesi residuale, quasi remota).A prescindere dai casi limite, la regola generale è la seguente: colui che decida di commettere un reato può sino all’ultimo desistere e avere un ripensamento. Questo atteggiamento, degno di nota, è sicuramente riconosciuto e premiato dal nostro Ordinamento penale con uno sconto importante di pena.

La mancanza di responsabilità o la negazione di quanto successo. Questa caratteristica è molto comune tra gli adolescenti. Ci dicono di essere molto pentiti di quello che hanno fatto, ma non riusciamo mai a percepire la sincerità di questo pentimento e, ovviamente, dal loro comportamento futuro non si percepisce alcun cambiamento.

Pentirsi implica essere responsabili dell’errore commesso o dell’atto realizzato e, inoltre, sentire questo malessere in modo reale, autentico.

Ci sono persone che preferiscono negare quanto successo, pensare che ciò che è avvenuto non ha alcuna importanza. Questo è, senza dubbio, un chiaro esempio di immaturità.

Leggete anche: Se ami, non tradire. Se non provi niente, non dare speranze

Il rifiuto del cambiamento

“So che ho fatto del male, so che ho sbagliato, ma non voglio che le cose cambino e preferisco comportarmi allo stesso modo”. Questo atteggiamento è purtroppo molto comune tra le personalità egoiste e con schemi di comportamento molto ferrei.

Se ci rifiutiamo di cambiare, non saremo mai capaci di adattarci al flusso della vita, al suo scorrere e alle complesse vicissitudini verso cui, a volte, il destino ci porta.

Chi non si pente di nulla nell’arco della sua vita forse non è cosciente del fatto che, in qualche momento, ha ferito qualcuno.

Leggete anche: Solo voi sapete ciò che avete superato e ciò che avete “lasciato andare”

Non intuirlo è anche un modo di rifiutarsi di riconoscere che ci sono aspetti di noi stessi che dovremmo cambiare per vivere in equilibrio, senza fare del male a nessuno. Perché non basta essere spiacenti, non basta piangere. Chi si pente davvero cambia.

Possibilità concreta di riabilitazione

La logica alla base della riabilitazione neuropsicologica del criminale impulsivo è quella di trattare le manifestazioni comportamentali di questi individui come il prodotto di una vera e propria sindrome pre-frontale in grado di causare deficit nella progettazione del comportamento, nell’autoregolazione, nell’inibizione dell’impulsività e più in generale nelle competenze sociali ed interpersonali. Con il termine prefrontal workout, letteralmente “allenamento prefrontale” Eagleman (2011) si riferisce ad una vera e propria forma di riabilitazione destinata ai soggetti caratterizzati da forti tendenze impulsive. L’allenamento in questione può essere considerato una forma di biofeedback. Il biofeedback prevede che una specifica funzione fisiologica come ad esempio il battito cardiaco, la tensione muscolare o la sudorazione, venga monitorata tramite dei sensori, generalmente degli elettrodi. I segnati fisiologici captati vengono amplificati e convertiti in segnali acustici o in rappresentazioni grafiche, come ad esempio un suono che cresce o cala in termini di tonalità o un aereoplano che cambia di quota in base all’attività rilevata. Grazie a questa tecnica il paziente può sviluppare strategie mentali per controllare volontariamente la funzione monitorata, imparando a modulare e ridurre i sintomi associati ad un vasto numero di condizioni cliniche tra cui ansia, cefalee e problemi respiratori.. Nel caso dell’allenamento prefrontale il feedback in tempo reale proviene dal funzionamento cerebrale misurato, e pertanto possiamo considerare la tecnica come una forma di neurofeedback. Questa si serve principalmente dell’elettroencefalografia (EEG) e della risonanza magnetica funzionale (fMRI) come indicatori della funzionalità cerebrale. Il presupposto dell’allenamento prefrontale è che tramite la riabilitazione, e quindi la pratica ripetuta, le aree frontali del nostro cervello possano essere allenate in modo da migliorare il “controllo” dei circuiti sottocorticali e delle aree limbiche responsabili delle spinte comportamentali impulsive e 8 potenzialmente distruttive. Per testare questa ipotesi Chiu e colleghi (2009) hanno reclutato un campione di fumatori cronici. Durante l’esperimento ai partecipanti veniva chiesto di osservare un pacchetto di sigarette durante una scansione tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI). Gli sperimentatori potevano osservare quali aree cerebrali erano attive durante il craving, ovvero nel momento in cui si originava il desiderio e l’intenzione di usufruire della sostanza verso il quale si è dipendenti. Successivamente, ai soggetti veniva mostrata sul monitor di un computer una barra verticale che rappresentava l’attività in tempo reale delle aree cerebrali implicate nei meccanismi di craving: se i network cerebrali legati alla dipendenza erano molto attivi, la barra si posizionava in alto, mentre, nel caso di soppressione del craving, e quindi di autocontrollo, la barra si posizionava in basso. Il movimento della barra si configurava come il feedback in tempo reale sull’attività cerebrale del soggetto: tramite questo il partecipante poteva modulare consapevolmente il suo comportamento ed ottenere un riscontro grafico in tempo reale. Compito del soggetto era di far scendere la barra il più possibile in basso cercando di resistere, con varie strategie mentali, al desiderio delle sigarette. La posizione della barra diventava quindi indice dell’abilità del soggetto nel reclutare i circuiti frontali che, in questo caso, modulavano la tendenza al craving e riducevano la tendenza a ricercare la sostanza. Inserito in un programma riabilitativo a lungo termine, questo esercizio permette di allenarsi a mitigare il craving e rafforzare i circuiti frontali, e quindi a ridurre la dipendenza dal fumo. Alla base del prefrontal workout troviamo il concetto di maturazione frontale: tra tutte le aree cerebrali, quelle frontali, e in particolare la corteccia prefrontale, sono quelle che maturano più tardivamente. La letteratura più recente ritiene che la corteccia prefrontale umana continui a maturare fino, e talvolta oltre, i 20 anni di età (Johnson et al., 2009). Questo questo spiegherebbe la maggiore tendenza degli adolescenti e dei giovani adulti a comportamenti impulsivi e finalizzati alla ricerca di situazioni a rischio. In quest’ottica, tale tecnica può essere considerata come una vera e propria forma di allenamento delle aree frontali, e quindi un incentivo alla loro sviluppo e alla loro maturazione. Il neurofeedback sarebbe in grado di produrre cambiamenti strutturali tanto nella sostanza grigia (strato che comprende il corpo dei neuroni) quanto nella sostanza bianca (tessuto connettivo che comprende gli assoni dei neuroni riuniti in fasci) del cervello, rafforzando non solo le connessioni esistenti ma anche creandone di nuove, e innescando quindi dei meccanismi del tutto analoghi a quello che si manifestano nei processi di apprendimento. I risultati provenienti dallo studio di Chiu sono stato confermati dalla ricerca di Dong-Youl Kim e collaboratori (2015), che hanno utilizzato il neurofeedback al fine di migliorare le capacità di controllo dei fumatori cronici. Grazie a questa tecnica il soggetto impara a monitorare e regolare l’attività delle singole aree cerebrali associate al desiderio di fumare (tra cui la corteccia cingolata anteriore, la corteccia orbitofrontale e il precuneo), migliorando la loro connettività 9 funzionale. Anche in questo studio l’accoppiata fMRI- neurofeedback ha permesso di migliorare il controllo volitivo nei confronti della dipendenza da sigarette, sviluppando la connettività cerebrale e generando dei benefici in grado di persistere per mesi. Sebbene questa proposta riabilitativa non riguardi specificatamente degli individui devianti, ha come destinatari dei soggetti con tendenze impulsive e difficoltà a reprimere un comportamento di ricerca dello stimolo, abilità che rientrano all’interno della categoria delle funzioni frontali. È possibile che delle strategie simili possano essere utilizzate efficacemente anche nei confronti dei soggetti devianti, lavorando al fine di migliorare la loro capacità di inibire una tendenza comportamentale e rinforzando il tutto con un feedback in tempo reale.

Il soggetto che ha commesso un reato è sanzionato in quanto il fatto illecito da questi commesso ha varie conseguenze giuridiche inevitabili. Al reato però, corrispondono delle sanzioni non sempre applicate concretamente o che comunque non hanno carattere perpetuo. Le ragioni della cessazione degli effetti sanzionatori della sentenza penale sono varie: ciò avviene, ad esempio, quando intervengono cause di estinzione del reato o della pena. Fra le prime si ricorda il procedimento di messa alla prova, fra le seconde, oggetto di questa trattazione, l’istituto della riabilitazione penale.

Cos’è la riabilitazione nel diritto penale?

La riabilitazione nel diritto penale è una causa di estinzione della pena definita dall’articolo 178 del codice penale.

Ai sensi di tale norma “La riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti”. 

Si distingue dalle altre ipotesi di estinzione della pena poiché estingue le pene accessorie e gli altri effetti residui della condanna che non sono stati estinti in altro modo.

È un procedimento che consente al soggetto condannato, manifestamente pentito del reato commesso, di riacquistare le capacità perdute per effetto della condanna.

Il legislatore ha inserito tale procedimento fra le norme sull’estinzione delle pene per evitare che una condanna segni irrimediabilmente le sorti di un soggetto che ha diritto ad essere reinserito nella vita sociale e rieducato alla stessa.

Il Ravvedimento

ravvedimento post delictum: consiste in una condotta volontaria dell’autore del reato, tale da elidere od attenuare le conseguenze del reato stesso. Due specifiche ipotesi di ravvedimento sono previste dall’art. 62 n. 6 c.p.. La prima si configura allorche´ l’agente, prima del giudizio, abbia interamente riparato il danno, mediante il risarcimento di esso, o le restituzioni. La seconda consiste nell’adoperarsi da parte dell’agente, in modo spontaneo ed efficace, per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato. In quest’ultimo caso, è richiesta non solo la volontà , ma anche la spontaneità, che implica un atteggiamento interiore dell’agente rivolto seriamente al ravvedimento ravvedimento; è necessario l’ottenimento di un risultato concreto, ossia l’eliminazione o attenuazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, anche di natura non patrimoniale. Si tratta di circostanze attenuanti (v. circostanze del reato; recesso attivopentimento). Altra ipotesi di ravvedimento è costituita dal fatto del concorrente nel reato di sequestro di persona a scopo di estorsione (v.) che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, ovvero aiuta l’autorità giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti (art. 630, comma 5o, c.p.). Essa determina l’attenuazione della pena. Talora, colui che, dopo il delitto, si ravvede diviene non punibile (v. punibilità ), come nel caso della ritrattazione (v. art. 376 c.p.). Il ravvedimento si distingue dal recesso attivo per il fatto che non è richiesto l’impedimento dell’evento, ma soltanto una collaborazione post delictum.

Il carcere di San Vittore a Milano le piaceva chiamarlo “Saint Victor”, in ricordo degli anni d’oro passati tra Sankt Moritz e Saint Tropez. E così l’ha vissuto, come se la prigione fosse il paradiso felice dove riposarsi dalle ostilità e dalla cattiveria del mondo fuori. Dopo 19 anni in quella cella, oggi Patrizia Martinelli Reggiani ha espiato la sua pena e torna, da donna libera, in quella Milano da bere di cui è la figlia reietta. Una condanna ormai consumata, che, a suo avviso, era  legittima per i tribunali che l’hanno riconosciuta colpevole di essere la mandante dell’omicidio di Maurizio Gucci, suo marito adorato, suo ex tanto odiato. Ma non legittima per lei che, invece di innocente, ha preferito definirsi “non colpevole”, rifiutando l’accusa di una concreta commissione (sotto lauta ricompensa) dei colpi di pistola sparati dal sicario che, il 27 marzo del 1995, ha servito la morte all’erede del marchio delle doppie G sulle scale di marmo di quel palazzo di via Palestro. 

Una donna bulimica di esaltazione.

Al compimento dei 67 anni Lady Gucci è sempre lei, definita dalla stampa locale italiana “bella come Liz Taylor”, come l’aveva definita Maurizio la prima volta che la incontrò, all’alba degli Anni Settanta ad un party dell’alta società meneghina, mentre si muoveva sinuosa tra gli invitati, avvolta in un abito rosso intenso. Sono i dettagli che Patrizia non dimentica. Ogni particolare di quell’amore da favola è inciso a fuoco nella sua mente, un incantesimo divampato in incendio, quando nel 1985, dopo 13 anni di matrimonio, Maurizio la lascia per dedicarsi a quella vita più leggera ed effimera (e anche a molte altre donne) che in giovinezza gli era stata negata dal padre Rodolfo Gucci, educatore troppo austero, scomparso due anni prima.

Che Patrizia l’avesse sposato solo per arrampicarsi ostinatamente verso i vertici, per entrare a pieno titolo in quel circolo ristretto di scialacquatori di ricchezze e per occupare le copertine patinate dei rotocalchi, non possiamo dirlo. Solo il suo cuore lo sa. Quello che è certo, nella verità giudiziaria, è che la fine di quell’amore non l’ha accettata mai, fino a perdere ogni controllo del pudore e straparlare di lui e delle sue “cattiverie” con chiunque ne avesse occasione. “Lo voglio morto” andava ripetendo in un peregrinare tra amici e conoscenti, “Se lo faccio fuori cosa mi succede?”, si era informata presso il suo avvocato. Aveva persino offerto un miliardo di lire a due membri della sua servitù se avessero fatto il lavoro sporco, senza però trovare sponda nelle coscienze degli incaricati.

Per dodici lunghi interminabili anni di sofferenza, la Gucci ha covato il rancore più nero. Il suo principe azzurro era diventato un orco abietto che, con la separazione, non solo le aveva portato via quei beni di lusso, tra cui numerosi immobili in Italia e all’estero (come l’adorata casa di New York), ma rifiutava persino i rapporti con le figlie per le quali ormai era diventato solo una voce al telefono con cadenza trimestrale e l’aveva lasciata sola anche nella sofferenza di un tumore al cervello. E’ in quel momento di malata ossessione, che in questa storia d’amore e odio, degna di una sceneggiatura di Hitchcock, interviene l’elemento magico: Pina Auriemma, cartomante partenopea, che lentamente si insinua nella vita di Patrizia, offrendole una spalla per piangere prima e una pistola per sparare dopo. 

Ma andiamo per gradi. Auriemma e Reggiani si incontrano grazie ad un’amica in comune durante un soggiorno ristorativo alle terme napoletane. C’è feeling tra le due, che in seguito si scambiano telefonate di cortesia e s’incontrano saltuariamente. Fino a quando l’Auriemma invoca l’intermediazione della Reggiani per avere (in dono o sotto legittimo pagamento, non è chiaro) la benedizione di Maurizio per l’apertura di un punto vendita Gucci a Napoli. L’avventura da imprenditrice della cartomante naufraga dopo poco. Pina, stretta dai debiti, fugge dal sud per rifugiarsi a Milano, in quell’albergo pagato dall’amica, che le elargiva denaro in cambio di sostegno morale nell’atroce sofferenza di una donna abbandonata. Trasferimenti bancari che, ad un certo punto, secondo gli atti del processo, diventano la testimonianza più solida della taglia che Reggiani aveva fissato sulla morte del marito. Aveva chiesto a tutti, Patrizia, la “cortesia” di eliminare Maurizio Gucci dal mondo dei vivi e solo nell’Auriemma aveva trovato sostegno. La cartomante rintraccia Ivano Savion, organizzatore dell’omicidio, che ingaggia Orazio Cicala e Benedetto Ceraulo per l’esecuzione materiale del delitto. Gli spari, quel giorno di marzo, portano via Maurizio a 47 anni. Ma, se non fosse stato per l’intervento di un fortuito informatore della polizia, mai si sarebbe giunti a quelle intercettazioni che, in una scalata piramidale, hanno condotto a lei, Patrizia, l’ex moglie committente di morte. 

Ora che la pena è scontata, Patrizia Reggiani resta sempre lei, donna  di cultura e galateo, adornata in abiti d’alta sartoria e decorata da un trucco impeccabile. Torna dalle sue figlie, che non hanno mai smesso d’amarla. Si è lasciata fotografare un paio d’anni fa in via Monte Napoleone, quando con la libertà vigilata si è messa a lavorare (esperienza a lei fino a quel momento sconosciuta) come designer della linea di borse Bozart. “Non vivo nel passato: la vita deve ancora concludersi, dobbiamo aspettarci sempre cose nuove”, ha dichiarato.  Come se la detenzione l’avesse messa finalmente in pace con i suoi tormenti.

Conclusioni

Secondo le neuroscienze della vendetta, esistono persone che, piuttosto che voltare pagina dopo una delusione, un rifiuto o una presunta ingiustizia, alimentano l’odio fino al punto di pianificare un contrattacco. Invece di tenere sotto controllo la rabbia, razionalizzarla o adottare appropriate strategie per gestirla, permettono che tale malessere diventi cronico.

Parlare di vendetta, come ben sappiamo, è estremamente complicato ed è quasi impossibile non sconfinare in aspetti etici, morali e persino legali. Alcune azioni, naturalmente, necessitano di una reazione, ma spetterà ai tribunali applicare la giustizia e non bisognerà mai ricorrere alla violenza. In questo articolo, tuttavia, approfondiremo gli aspetti neurologici e psicologici della questione.

Facciamo un esempio. Gli amanti dei romanzi criminali ricorderanno senza dubbio il nome di Ted Bundy, uno dei più spietati serial killer della storia. Non si conosce ancora il numero esatto delle sue vittime. Dopo una serie di colloqui, test psicologici e neurologici, si scoprì che possedeva più di una personalità psicopatica.

Bundy uccise un gran numero di giovani donne, mosso da un desiderio di vendetta alimentato negli anni. All’origine (fattore scatenante del suo comportamento) vi era l’abbandono da parte della partner. Tale rifiuto alimentò in lui una rabbia smisurata e quasi selvaggia che lo spinse a scegliere vittime con le stesse caratteristiche fisiche della ragazza che lo aveva lasciato.

La vendetta, come si può vedere, agisce in alcuni soggetti come un meccanismo aggressivo e brutale. I neuroscienziati hanno individuato i meccanismi e le aree che regolano questa pulsione. Si tratta di un argomento tanto interessante quanto illuminante. Vediamo cosa dicono le neuroscienze della vendetta al riguardo.

«Addio bontà, addio umanità, addio riconoscenza… addio a tutti quei sentimenti che inteneriscono il cuore. Mi sono fatto sostituto della Provvidenza per ricompensare i buoni…  Che Dio mi faccia ministro della sua vendetta per punire i cattivi.»

–Il Conte di Montecristo, Alexandre Dumas-

«Le persone deboli si vendicano. Le persone forti perdonano. Quelle intelligenti ignorano.»

-Albert Einstein-

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