Grandi scrittori ‘dimenticati’. Guido Morselli: l’emblema geniale dell’inedito per eccellenza. (*)

Guido Morselli.

Non vi è forse, nella storia della letteratura contemporanea, scrittore equiparabile a Guido Morselli per la singolarità della vicenda personale, culminata prematuramente nel suicidio, e l’accanimento dell’industria editoriale nel rifiutare ogni suo tentativo di pubblicare. Con una produzione (postuma) che merita di situarsi nell’Olimpo dei grandi scrittori del Novecento e con peculiarità stilistico-narrative che lo collocano più a livello europeo che nazionale (non è infatti assimilabile ad alcun modello italiano), Morselli rappresenta un singolare caso letterario: l’emblema dell’inedito per eccellenza.

Guido Morselli nacque a Bologna il 15 agosto 1912, da Giovanni, imprenditore chimico e farmaceutico, e da Olga Vincenzi, figlia di uno degli avvocati più in vista della città. Per i primi due anni visse a Bologna, poi il padre trasferì la famiglia a Milano. La madre, che aveva un debole per Guido e ne era ricambiata di affetto profondo, morì di febbre spagnola nel 1924 quando Guido aveva solo dodici anni: una perdita prematura, destinata a lasciare una impronta indelebile. Bambino vivacissimo, spingeva a giochi sfrenati la sorella più piccola, Maria. Lettore assai precoce del giornale, a otto anni annotò pagine di un romanzo dal titolo La mia vita. Manifestò ben presto nell’adolescenza un carattere piuttosto ribelle e scontroso. Solitario, irrequieto, non amava la scuola, preferiva seguire suoi personali interessi e percorsi di studio. Dopo il ginnasio dai gesuiti a Milano, studente al liceo classico Parini detestava costrizioni, si applicava in maniera discontinua, abile nelle materie letterarie, scarso in quelle scientifiche. Nel frattempo frequentava cinema, teatri, sale da ballo, la Società del Giardino, e scriveva i primi brevi saggi a carattere giornalistico su temi di attualità socio-politica: alcuni restarono inediti, altri uscirono nel periodico Libro e Moschetto (tra il 1933 e il 1934).

Per compiacere il padre che per lui sognava una carriera di avvocato, nel 1935 prese la laurea in giurisprudenza alla Statale di Milano e partì subito per il servizio militare. Chiuso definitivamente in un grande armadio pieno di libri anche il violino con il quale si dilettava, fra il 1936 e il 1937 fece lunghi soggiorni all’estero (Francia, Inghilterra, Scandinavia, Germania), dove perfezionò la conoscenza delle lingue straniere. Scriveva reportages giornalistici e raccontini che rimasero nel cassetto. Reduce dal Grand Tour europeo, il padre lo fece assumere presso l’industria Caffaro, a due passi da casa, con l’incarico di comunicatore e pubblicitario: Morselli, del tutto refrattario e inadatto alla vita d’ufficio, lavorò a intermittenza meno di un anno. Patteggiò la propria libertà e una modesta rendita con il padre che, uomo intelligente, comprese la sua vocazione d’artista. Risale a quel periodo anche l’inizio della stesura di un diario, privato e di lavoro, mai abbandonato sino a poche settimane prima della morte. La scrittura, insieme con lo studio e le letture onnivore, diventò attività preminente delle sue giornate (tra gli autori preferiti Manzoni, Bacchelli, Fogazzaro, Proust).

Nel marzo 1940 fu richiamato in veste di ufficiale e mandato in Sardegna, nell’isoletta di Sant’Antioco: nacque durante quel periodo il primo breve saggio Filosofia sotto la tenda sul problema del male e i fondamenti della moralità. Con l’entrata in guerra dell’Italia, la famiglia fu sfollata a Varese (il padre aveva acquistato terreni a Gavirate, poco lontano, impiantandovi dei vigneti), dove Morselli lavorò al primo saggio letterario, Proust o del sentimento, destinato a vedere la luce a spese del padre a Milano presso Garzanti, con prefazione di Antonio Banfi, mentre l’autore era già lontano da casa per la guerra (fine agosto 1943). Ben accolto dalla critica, vendette poche copie, complice la congiuntura. A Varese, nel frattempo, era avvenuto il primo incontro con Maria Bruna Bassi: sposata, più anziana di lui, accompagnò l’intera sua esistenza, non solo come la donna amata, ma anche l’unica consigliera letteraria (ne sarebbe diventata, alla morte, erede testamentaria degli scritti).

Con la guerra venne mandato in Calabria. Vi trascorse oltre due anni, facendo vita di caserma (a Timpone Mannella) senza poter comunicare con la famiglia: smessa la divisa, si arrangiava come poteva, dando lezioni private, vivendo a Catanzaro presso una vecchietta alla quale rimase legato a lungo, salvandosi grazie ai libri portati con sé e accumulando un corpo massiccio di appunti da rielaborare al suo rientro. Negli anni di confino calabrese sperimentò la comunione con i suoi simili nella vita di caserma tra noia e refrattarietà (echi resteranno nelle pagine del primo romanzo Uomini e amori) e il valore dell’amicizia maschile, soprattutto con un ufficiale medico, la cui figura fu poi adombrata nel dottor Karpinski di Dissipatio H.G. e in parte nel dottor Newcomer del Comunista.

Nell’estate del 1945 Morselli riuscì a tornare fortunosamente a Varese su un camion militare. Mentre il padre decideva di rientrare a Milano con la famiglia, nel 1948, trascorreva il suo tempo nella villa di Via Limido: rigido, intransigente con se stesso, predestinato allo scrivere perché lettore accanito, esigente, inappagato, a 35 anni si era lasciato alle spalle intemperanze giovanili, divertimenti, balli sfrenati, viaggi per le capitali d’Europa. Nella quiete di una cittadina di provincia dove poter scomparire agli occhi del mondo, non gli restava che praticare quell’ozio intellettuale al quale aveva compreso molto presto di essere votato, salvo sporadiche gite a Milano, a consegnare personalmente i suoi lavori presso vari editori. Cominciava così un pellegrinaggio che avrebbe assunto i connotati di un rito fatale, sempre destinato al fallimento (tra orgoglio e pudore, Morselli evitò sistematicamente l’aiuto o le raccomandazioni di conoscenti e amici).

Abbozzato sulle pagine diaristiche durante il soggiorno al Sud, il primo romanzo Uomini e amori, che risente dei tempi di guerra (è infatti la storia di due coppie nella Milano degli anni Quaranta), fu composto fra il 1943 e il 1949, ma non venne mai considerato dall’autore un romanzo del tutto riuscito e compiuto («infelice romanzo» ebbe a definirlo, anche se un «Capitolo di romanzo» uscì sulla Provincia pavese nel 1948, successivamente Morselli inviò il dattiloscritto a tre editori: Mondadori, Bompiani, Rizzoli). Inserendosi nelle pause di stesura, il breve racconto Incontro col comunista (scritto tra il 1947 e il 1948) si distingue per una impronta ideologico-politica dalla quale sarebbe germinato successivamente il più maturo romanzo Il comunista, anche se qui protagonista della breve vicenda è una donna, Ilaria Delange. L’amante di Ilaria ne fu la rielaborazione in chiave di commedia, qualche anno dopo, proposta inutilmente a Giorgio Albertazzi.

Nel 1952, su un terreno donato dal padre a Gavirate, poco distante da Varese, Morselli si fece costruire una casetta dall’intonaco rosa, squadrata, a un piano, da lui stesso disegnata.

Sarebbe diventata il suo eremo, con pochi lussi, qualche comodità (si arrese all’uso di un frigorifero, non volle mai «lo scatolone» della televisione), dove condusse una vita spartana: pratiche salutistiche come temperatura al minimo, cibi assai semplici, ginnastica, lunghe camminate, equitazione con la cavalla Zeffirina, alla quale dedicava attenzioni affettuose. Nemico della civiltà tecnologica, adorava i treni, soprattutto le vecchie carrozze, e trascorreva ore presso le piccole stazioni di provincia a osservare le locomotive. Pagine bellissime sono in Divertimento 1889, dove la locomotiva fumante è assimilata a un «bestione surriscaldato» («Le macchine faticano, sudano, hanno sete, sono vive»); fra i suoi progetti vi fu una «Storia della dimensione ferroviaria nella letteratura europea dal 1870 a ieri», che non scrisse mai; prestò invece la sua passione a Walter Ferranini, protagonista del Comunista, figlio di un ferroviere.

Galante con le donne, eccentrico, ombroso, Morselli passava per uno che tutti consideravano ‘originalone’, in paese come tra i familiari. Le minuzie di una giornata, i dettagli apparentemente insignificanti di un’esistenza isolata (la carica della pendola, il cambio dello spazzolino da denti, l’acquisto di barattoli di miele) erano annotati su piccoli taccuini, una maniacale autotraccia, mentre i quaderni diaristici venivano compilati con regolarità, mai cedendo a confessioni d’ombelico, sempre rigorosamente destinati al mestiere di scrittore, di un autentico intellettuale.

Il saggio più corposo e importante di Morselli, Realismo e fantasia, uscito nel 1947 presso i Fratelli Bocca a Milano, è un testo fondamentale, summa e anticipazione di tutti i temi che sarebbero stati sviluppati nei romanzi e nelle opere successive.

Sotto forma di Dialoghi, come recita il sottotitolo, ispirati dalle Conversazioni con Goethe di Johann Peter Eckermann lette in Calabria, si svolgono una serie di colloqui all’aria aperta fra due amici («l’ozioso fantasticare di due filosofi peripatetici»). Compendio di letture colte ma anche stravaganti, difesa a oltranza di un atteggiamento dilettantistico, che per l’intera esistenza Morselli amò contrapporre a quanti si definivano a torto o a ragione specialisti, tocca temi a lui cari: la filosofia, la funzione conoscitiva, l’autocoscienza, le sensazioni percettive, la creatività, l’amore. Brevi note autobiografiche, contenute nella «Introduzione che convien leggere» sono un presagio orgoglioso della solitudine umana e pubblica che per scelta o per destino sarebbe toccata in sorte a questo outsider delle nostre lettere: «non diventerò scrittore, visto che non lo sono mai stato: e tu lascia che i tuoi cinque lettori sappiano di me il meno possibile». E certo molto da qui apprendiamo sui livres de chevet che non mancarono mai in casa: La Bruyère, Manzoni, Rabelais, La Rochefoucault, il prediletto Stendhal, Cervantes, Stevenson, Montaigne, Flaubert. Anche in questo caso, il «ragno», come Morselli chiamava tale complesso lavoro che fu inviato tra gli altri a Benedetto Croce, era stato concepito in Calabria, ma la rielaborazione dovette occupare una buona porzione del suo tempo.

Scrivendo con ostinata perseveranza racconti, articoli su temi d’attualità, spesso legati alla tutela civile e ambientale (apparsi in vari periodici: La Prealpina, Il Tempo di Milano, il Corriere del Ticino), brevi saggi, commedie e persino un soggetto cinematografico, Morselli andava praticando un apprendistato dei generi più disparati, un vero e proprio ‘rodaggio’, in solitario. Il fatto di non poter mai avere un contatto reale e concreto con i lettori, un indice di gradimento da parte del pubblico, fu una grave mancanza, alla quale sopperì inventandosi a volte libri che assecondavano o addirittura prevenivano mode e tendenze di mercato, sulle quali si teneva costantemente aggiornato. Per esempio un curioso «Dizionarietto dietetico», compilato nel 1956 con un amico medico e proposto a una nota azienda di settore, suona oggi anticipatore di moderne teorie alimentari. Uno degli ultimi romanzi, Divertimento 1889, era stato concepito per un pubblico esclusivamente femminile: con intuito formidabile, in anticipo su quella che sarebbe diventata pratica odierna, propose alla rivista Grazia di offrirlo in allegato alle lettrici.

Nell’estate 1954, dopo un litigio con il padre, si recò in Germania e vi rimase per mesi, senza dare notizie di sé. Da Bonn mandò due corrispondenze giornalistiche a Mario Pannunzio che le pubblicò su Il Mondo da lui diretto. Nel 1956 una crisi mistica lo portò ad affrontare temi di carattere teologico-religioso (Fede e critica, Due vie della mistica) e ad abbozzare un Capitolo breve sul suicidio, costante rovello della sua mente inquieta. Nel 1958, dopo la morte del padre, affittò la villa di famiglia a Varese e si ritirò a vivere definitivamente a Santa Trìnita di Gavirate, interrompendo a volte il soggiorno con brevi vacanze in montagna o gite in Svizzera.

Nel suo buen retiro, difeso a oltranza, spesso minacciato da rumori e curiosi, alla fine da bande di motocrossisti che avrebbero seriamente compromesso la sua tranquillità, e dallo spettro di una pedemontana che avrebbe tagliato a mezza costa il prato (mandò lettere e diffide a sindaci e assessori per difendere il territorio), Morselli era capace di lavorare anche 18 ore al giorno, dopo camminate e ginnastica all’alba, pur consapevole che il lavoro era un inganno, un pretesto, forse un antidoto alla infelicità. Per altro, la pratica quotidiana della scrittura sarebbe sempre stata rigorosamente mantenuta segreta non solo a familiari e amici: con stravaganza si definiva «agricoltore» sul documento d’identità.

Sul finire degli anni Cinquanta l’interesse per la scienza produsse saggi tuttora inediti, L’astrazione scientifica e Scienza e astrazione, nonché una «Corrispondenza con teologi su problemi religiosi» (la cartellina reca il commento: «fatica inutile, non rispondono»). Nei suoi studi procedeva con percorsi non sistematici, ma sempre cercando se stesso e seguendo «l’istinto come unica norma», così ebbe a confidare in una lettera all’amico filosofo Guido Calogero.

Tra il 1961 e il 1962, a distanza di oltre una decina d’anni da Uomini e amori, tornò al romanzo con Un dramma borghese, storia di un rapporto morboso tra padre e figlia, lui maturo cinquantenne, lei diciottenne, i quali, dopo la morte di Carla, moglie e madre, si ritrovano in Svizzera, entrambi in forzato riposo di convalescenza.

Ossessivamente statico, claustrofobico, percorso dagli umori grigi di un lago sullo sfondo (quasi sempre il paesaggio è in Morselli sensibile allegoria del destino, metafora di stati interiori), dal senso della malattia, della morte, il racconto focalizza un corpo a corpo delle passioni, dove il padre, giornalista e scrittore, per cercare di resistere alle seduzioni della ragazza, una sorta di Lolita incapace di decenza nei suoi maldestri approcci amorosi, si attacca alle piccole cose di una quotidianità non esaltante, gli stessi oggetti cari all’autore com’è evidente nella elencazione autoreferenziale: la macchina da scrivere portatile, il registratore, i libri da comodino, Stendhal, Montaigne, Lucrezio, la Browning calibro 7 e 65.

Due, tre anni dopo, Il comunista è un deciso salto di qualità, un libro che fa da capofila alla stagione più felice dalla narrativa morselliana, quella appunto degli anni Sessanta, caratterizzata da romanzi di ampio respiro, eterogenei e distanti fra loro, per ambientazione, temi, personaggi e registri stilistici, ma nei quali la progettualità, la regia, l’architettura, in una parola il piacere di raccontare e di padroneggiare la storia, mostrano uno scrittore maturo che sa stare al passo con modelli europei.

Walter Ferranini, deputato comunista che approda al dissenso dopo una crisi esistenziale e ideologica, eroe senza qualità, uomo di partito incapace di emergere, vittima delle proprie debolezze umane, si imprime nella mente del lettore con la sola forza della grande illusione marxista, che Morselli mostra di aver studiato alla perfezione (passò un intero anno sui testi di regime, sui grandi classici sovietici e non solo), addirittura entrando con sguardo documentatissimo nel mondo delle cellule comuniste, delle riunioni di partito – pregiudizi e censure non esclusi – come se vi avesse da sempre fatto parte. Giuseppe Pontiggia ha parlato di mimetismo e non c’è termine che esprima al meglio l’abilità con la quale un uomo che ha vissuto ai margini della vita, che si è formato letteralmente sui libri, sofisticato consultatore di giornali e di archivi (ritagli e citazioni, annotazioni, costituivano l’humus sul quale far germinare idee, spunti), è riuscito a ricreare mondi attraverso intuizione, immaginazione e formidabili doti affabulatorie.

Nel caso di questo romanzo, così lontano dal racconto Incontro col comunista (lo separano anche vent’anni), la ricerca di un editore si fece più impellente. Nell’ottobre 1965 entrò in corrispondenza epistolare con Italo Calvino, direttore editoriale all’Einaudi, il quale, pur apprezzando la figura del protagonista, che «persuade», e l’impianto del romanzo «gremito di fatti e di cose», concludeva con un giudizio di tendenziosità e di scarsa conoscenza delle dinamiche di partito. Nel 1966 la Rizzoli non solo accettò di pubblicare ma mise il testo in bozza: fu l’unico caso in cui Morselli sfiorò da vicino il miraggio di una pubblicazione. La beffa fu tanto più feroce: un cambio di direzione annullò tutti i programmi, e la fatica della correzione andò vanificata. Tuttavia non si arrese e, tra il 1966 e il 1967, mise in cantiere altri due lavori: il romanzo-inchiesta Brave borghesi e il divertissement fantateologico Roma senza papa, ovvero «Cronache romane di fine ventesimo secolo», storia ricca di trovate, surreale e divertente.

In una Roma futuribile, Giovanni XXIV, il «papa del trasloco», dal sorriso amabile, ha trasferito a Zagarolo, a 30 km da Roma, la sua sede e una corte bizzarra composta da donne (è fidanzato con una indiana), preti, suore, bambini, rettili, non disdegna il buddismo zen, non rinuncia allo sport, ammette l’uso di tabacco e persino di droghe, e pratica ogni attività ispirata al sano gusto della vita terrena. Roma senza papa fu proprio il romanzo con il quale la casa editrice Adelphi dette inizio alla pubblicazione, postuma, dell’intera opera morselliana: nel 1974, a un anno dalla morte di Morselli, Luciano Foà, su consiglio di Dante Isella e Vittorio Sereni, con i quali si era ritrovato a commentare questo strano caso umano, decise di esordire con un libro in anticipo sulle celebrazioni dell’Anno Santo 1975. «È nato un Gattopardo del Nord»: così lo avrebbe salutato dalle pagine del Corriere della sera Giulio Nascimbeni (a lui dobbiamo anche l’acuta analisi sull’approdo tardivo dello scrittore al romanzo, «traguardo di lenta maturazione. Le date dimostrano che Morselli non ebbe giovanili folgorazioni»). Fu il primo di una serie di eccellenti giudizi critici (Geno Pampaloni, Giancarlo Vigorelli, Giancarlo Marabini, Vittorio Spinazzola, Giuseppe Pontiggia, Mario Pomilio, Giorgio Manganelli), che accompagnarono ogni nuova pubblicazione, con immancabile elenco di modelli colti europei: da Joseph Roth a Hermann Broch, da André Gide a Robert Musil, ad Aldous Huxley.

Attento alle polemiche di quel periodo sulla cosiddetta «fine del romanzo», che vedevano i nostri opinionisti e scrittori dividersi il campo quasi a metà, Morselli continuava a credere con fiducia e tenacia nella narrazione di lungo corso.

Dalla politica alla religione o fantareligione, alla Storia con la S maiuscola: scritto fra il 1969 e il 1970 il romanzo Contro-passato prossimo, forse il risultato più riuscito di quel genere misto di storia e di invenzione, di realismo e fantasia, cifra peculiare dello scrittore, è una felice «ipotesi retrospettiva» che ribalta le sorti della prima guerra mondiale con la vittoria di Austria e Germania, grazie a un tunnel scavato nelle Alpi con astuzia degna di Ulisse. «Se la politica è l’arte del possibile, la storia è scienza del probabile»: da questo incipit la fantasia di Morselli dà vita a un grandioso affresco dove accanto ai veri protagonisti (Lenin e Rathenau, Guglielmo II, Nitti e Giolitti, Einstein, Marinetti, Freud, D’Annunzio e persino Mistinguett), personaggi immaginari anche più vivacemente ritratti popolano una trama densissima, ricca di colpi di scena. Morselli muove i fili di un teatrino con abilità inventiva straordinaria, che trova la sua plausibile giustificazione teorica, anzi un autentico manifesto di poetica (la contro-storia), nell’«Intermezzo critico», ovvero Dialogo tra l’Autore e il suo Editore, risultato delle conversazioni sul progetto e di una lunga trattativa condotta con Vittorio Sereni e Alcide Paolini di Mondadori. Neppure tale espediente gli valse il meritato «visto si stampi»: il romanzo aveva un inizio sfolgorante, come ebbe a dire Carlo Fruttero, una buona prima parte, ma la seconda non convinceva.

La scappatella Oltralpe di re Umberto I lungo la ferrovia del Gottardo, frutto di un tradimento amoroso vissuto in totale allegria sulle note di Offenbach, maestro della Belle Époque, è il tema di Divertimento 1889 (1971), un «piccolo libro che consuma e gode l’evasione intenzionalmente», dedicato non a caso a un pubblico femminile.

Qui davvero il M. si dimostra più che altrove «maestro del dialogo narrativo» (la definizione è di Giuseppe Pontiggia). Ancora una volta la ricerca di un «ventaglio dei possibili» fra i più gustosi nelle briciole della storia vuole smentire l’assurda presunzione del fatto realmente accaduto. Ma il re mostra anche un risvolto malinconico («il tempo se lo sentiva scorrere nei nervi. Nei nervi, malignamente veloce, inconsistente»), una sorta di ripiegamento su se stesso («mettere piede dentro una nube e scomparirvi»), e tratti che paiono spie autobiografiche dell’autore. 

Non rimaneva che l’«ipotesi stravagante» di Dissipatio H.G., l’ultimo romanzo compiuto, ovvero la scomparsa del genere umano in un mondo desolatamente deserto, dove il protagonista che dice io resta solo, alla vana ricerca di voci, tracce umane. Ma la trovata potrebbe leggersi all’incontrario: non è forse il suicidio, l’autoannientamento di sé (così ha inizio il romanzo, con un fallito suicidio), un modo per eliminare il mondo e gli esseri che lo popolano?

Il racconto fu scritto fra il 1972 e il 1973, a brevissima distanza dal gesto vero che l’autore di lì a poco avrebbe compiuto. Il solipsista feroce, «fobantropo per danno e fastidio», che si aggira tra telescriventi che continuano forsennatamente a battere, coltivava – come Morselli – il gioco di parentesizzare l’esistenza dei suoi simili («Il mondo sono io, e io sono stanco di questo mondo, di questo io»), e qui non si può fare a meno di ricordare quanto alla fine lo scrittore si sentisse disturbato, braccato nel suo eremo. In aggiunta a ciò, di ritorno dall’ultima vacanza trascorsa a Macugnaga, Morselli trovò respinta al mittente proprio una copia dattiloscritta di Dissipatio H.G.  Si sbaglierebbe tuttavia a cercare nella disperazione per l’ennesimo rifiuto editoriale il senso di quell’abbandono volontario della vita, culminato con un colpo di pistola («la ragazza dall’occhio nero»): Morselli si uccise la notte del 31 luglio 1973, a Varese.

Già in un ritaglio di giornale, datato 8 gennaio 1955, aveva sottolineato una coincidenza fatale: «Per il suo capolavoro Proust non trovava editori». «Etiam omnes, ego non» recitava l’epitaffio, citato a braccio e appeso sulla parete dietro la scrivania: la stessa frase, tratta dal Vangelo di Matteo («Etsi omnes, non ego»), era incisa nel cimitero genovese di Staglieno sulla lapide del filosofo Giuseppe Rensi amato da Morselli. Suona profetico, emblematico, e ha certamente connotato di romanticismo la storia di un intellettuale per un verso sfortunato, per altro orgoglioso e di carattere tutt’altro che facile, ma soprattutto in anticipo rispetto a mode e tendenze editoriali dei suoi tempi, tragicamente condannato a una sorta di sfasatura anacronistica. «Non è un romanzo, non è un saggio, non è un pamphlet… dove lo metto? In quale collana ?», ebbe a scrivergli Vittorio Sereni nel 1968 a proposito di Roma senza papa. È qui il senso di uno scarto dalla norma che di fatto non fu compreso sino in fondo: non si colse l’avanguardia di questo scrittore, che si scostava ampiamente dalla linea tradizionale del romanzo italiano. Forse fu la varietà sorprendente di tematiche, la versatilità così eterogenea e multiforme, la straordinaria inventiva, a confondere le carte interpretative: «uno scrittore che non si è ripetuto mai», scrisse Nascimbeni.

«Sono orgoglioso di sentirmi un riepilogo di uomini», ebbe ad annotare Morselli nel suo Diario: ecco, nella capacità di vivere, sperimentare e raccontare una molteplicità di esperienze e di individui, nella possibilità di viaggiare nel passato e nel futuro, di spostarsi lungo l’arco del tempo, è il marchio di fabbrica della scrittura morselliana: pulita, trasparente, dalla parola pertinente, ma lieve, mai disadorna. Scrittura che non valse a salvargli la vita; in una nota del Diario datata 6 novembre 1959, il bilancio era già ampiamente negativo: «Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella identica maniera. Ho pregato, non ho ottenuto nulla; ho bestemmiato, non ho ottenuto nulla. Sono stato egoista sino a dimenticarmi dell’esistenza degli altri; nulla è cambiato né in me né intorno a me. Ho amato, sino a dimenticarmi di me stesso; nulla è cambiato in me né intorno a me. Ho fatto qualche poco di bene, non sono stato compensato; ho fatto del male, non sono stato punito. Tutto è ugualmente inutile».

«Non ho rancori», precisò in una lettera indirizzata alla Questura di Varese. Lasciò precise indicazioni per la tomba: una semplice lastra di cemento, solo fiori di campo, nessuna fotografia. Di lì a poco, a Ferragosto, avrebbe compiuto sessantun’anni. Sulle pagine di un calendario, gli appunti fitti di un progetto rimasto incompiuto, ma ricco di trovate e dalla trama assai complessa: un romanzo dal titolo Uonna (uomo-donna), storia di un ermafrodito dalla voce d’angelo.

Opere: Proust o del sentimento (Milano 1943; Torino 2007); Realismo e fantasia (Milano 1947; Varese 2009); Roma senza papa (Milano 1974); Contro-passato prossimo (ibid. 1975); Divertimento 1889 (ibid. 1975); Il comunista (ibid. 1976); Dissipatio H.G. (ibid. 1977); Fede e critica (ibid. 1977); Un dramma borghese (ibid. 1978); Incontro col comunista (ibid. 1980); Diario, testo e note a cura di V. Fortichiari, prefazione di G. Pontiggia (ibid. 1988); La felicità non è un lusso,  a cura di V. Fortichiari (ibid. 1994); Uomini e amori, a cura di P. Fazio, con un saggio di V. Fortichiari (ibid. 1998); Una missione fortunata e altri racconti, con un saggio di V. Fortichiari (Varese 1999); Romanzi, I  (contiene Uomini e amori, Incontrocol comunista, Un dramma borghese, Il comunista, Brave borghesi), a cura di E. Borsa – S. D’Arienzo, con la collab. di P. Fazio, introduzione e cronologia di V. Fortichiari (Milano 2002); Il suicidio e Capitolo breve sul suicidio (Pistoia 2004); Lettere ritrovate, a cura di L. Terziroli (Varese 2009).

Dal romanzo Un dramma borghese  è stato ricavato un film per la regia di Florestano Vancini (1979). Nella città di Varese è nato di recente e si svolge annualmente il premio Morselli, dedicato a opere inedite.

Fonti e Bibl.: Le carte di Morselli, donate dagli eredi, sono conservate presso il Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia; i libri della raccolta morselliana sono consultabili presso la Biblioteca civica di Varese (Il Fondo Morselli, Catalogo, San Vittore Olona 1984). G. Vigorelli, G. M., in Il Settimanale, 26 aprile 1975; G. Manganelli, in Il Mondo, 5 giugno 1975; D. Porzio, Il grande rifiutato, in Epoca, 26 luglio 1975; A. Porta, Il rifiuto di M., in Il Giorno, 6 settembre 1975; V. Spinazzola, Lo scatto della fantasia, in l’Unità, 8 ottobre 1975; N. Aspesi, in la Repubblica, 11 febbraio 1976; O. Ripa, Apriamo il caso M.: chi era, perché si è ucciso, in Gente (3 puntate) , 9-16-23 aprile 1976; N. Sapegno, in Il Giorno, 31 marzo 1977; D. Isella – G.Pampaloni – G. Pontiggia, convegno a Cortina d’Ampezzo su G. M. scrittore postumo, 24 agosto 1978 (e G. Pontiggia, in Corriere della sera, 26 agosto 1978); V. Coletti, G. M., in Otto-Novecento, II (1978), pp. 89-115; V. Fortichiari, La gloria a prezzo del suicidio, in Uomini e Libri, marzo 1980; S. Costa, G. M., Firenze 1981; G. Nascimbeni, Un gesto venuto da lontano (con pagine antologiche dal Diario), in Corriere della sera, 27 luglio 1983; G. Pontiggia, Scoprii M. leggendo quel manoscritto, in Tuttolibri/la Stampa, 22 ottobre 1983; G. Giuliani, Prima giornata di lavori al Convegno di Gavirate sullo scrittore scomparso dieci anni fa, in La Prealpina, 23 ottobre 1983; V. Fortichiari, Invito alla lettura di G. M., Milano 1984; G. M.: dieci anni dopo (1973-1983), Atti del Convegno… 1983, Gavirate 1984 (con interventi di G. Pontiggia, C. Segre, V. Coletti, C. Martignoni, F. Ravazzoli, V. Fortichiari, G. Belli); C. Mariani, G. M., in Studi novecenteschi, 1991, n. 41; Il Fondo G. M., a cura di E. Borsa – S. D’Arienzo, in Autografo, 1996, n. 33, pp. 93-141; F. Pierangeli, G. M.: l’impronta umana e i trascorsi eruditi, in La Scrittura, 1996-97, n. 4; Ipotesi su M., in Autografo, 1998, n. 37 (numero speciale); M.L. Fasano, G. M.: un inspegabile caso letterario, Napoli 1998; G. M.: i percorsi sommersi. Inediti, immagini, documenti, a cura di E. Borsa – S. D’Arienzo, presentazione di A. Stella, Novara 1998 (con testi inediti di G. M.); P. Villani, Il caso M.: il registro letterario-filosofico, Napoli 1998; B. Pischedda, M.: una «Dissipatio» molto postmoderna, in Filologia antica e moderna, 2000, n. 19, pp. 163-189; F. Pierangeli, G. M. e l’uomo carità, in Sincronie, 2000, n. 7, pp. 208-216; G. M.: immagini di una vita, a cura di V. Fortichiari, con uno scritto di G. Pontiggia, Milano 2001; F. Parmeggiani, M. e il tempo, in Annali d’Italianistica, 2001, n. 9, pp. 269-284; M. Fiorentino, G. M. tra critica e narrativa, Napoli 2002; V. Fortichiari, G. M.: Marx, rottura verso l’uomo, in Sincronie, 2003, n. 14, pp. 45-48 (a proposito del carteggio M. – Gassman sulla commedia); S. D’Arienzo, Il Marx. Conferme morselliane, ibid., pp. 49-53; P. Mattei, Una lettura del «Il Comunista», ibid., pp. 55-76; F. Pierangeli, Cesare, la storia, la piccola Afrodite nera, ibid., pp. 77-87 (a proposito della commedia Cesare e i pirati); A. Baldini, Le ragioni dell’inattualità. «Il Comunista» di M. e «La giornata di uno scrutatore» di Calvino, in Allegoria, 2005, nn. 50-51, pp. 191-203; A. Gaudio, In partibus infidelium. G. M. uomo di fiction e di precisione, in Filologia antica e moderna, 2007, n. 32; F. Tuccillo, L’infelicità del vivere e la felicità della scrittura: i saggi di G. M., in Riscontri, 2007, nn. 2-3, pp. 47-55; D. Mezzina, Dalla chiaroveggenza intellettuale alla frana morale: «Un dramma borghese» di G. M., in Critica letteraria, 2008, n. 3, pp. 493-534; Morselliana, numero monografico online di Rivista di studi italiani, dicembre 2009, n. 2, a cura di A. Gaudio; A. Gaudio, Tre incroci morselliani, in Incroci, 2010, n. 21 (gennaio-giugno).(*) Fonte primaria: https://www.treccani.it/enciclopedia/guido-mor

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