Alaska, Groenlandia e “America First”. Di Roberto Roggero.

Quando gli Usa acquisirono l'Alaska.

Verso la metà del XIX secolo, con l’acquisto dell’Alaska dalla Russia zarista, gli Stati Uniti conclusero un eccellente affare. Attualmente, gli USA (sempre a caccia di risorse e nuovi investimenti), vorrebbero ripetere il ‘colpo’ acquisendo la Groenlandia.

Gli Stati Uniti sono arrivati ad essere la prima potenza mondiale grazie alle loro immense risorse e alla sostanziale supremazia del dollaro sul mercato globale. In quest’ottica, la storia americana è stata caratterizzata da diverse “acquisizioni” territoriali che sono andate ad aggiungere una stella alla bandiera nazionale. L’acquisizione dell’Alaska,  fu il risultato dell’accordo concluso fra governo americano e impero russo nel 1867, su iniziativa dello Zar Alessandro II, ma fu l’allora segretario di Stato William Seward, l’artefice primo di questo colpo magistrale.

Il territorio in questione, venne colonizzato intorno al 1725, quando Pietro il Grande inviò Johannes Bering nella esplorazione delle coste, in quella che è storicamente nota come “seconda spedizione della Kamchatka”. Circa quindici anni dopo ebbero inizio i collegamenti commerciali, per i quali fu necessario costruire i primi insediamenti.

Lo Zar Paolo I diede ufficialmente inizio all’annessione nel 1799 con un Decreto Imperiale, rivendicando anche i territori dov’erano presenti avamposti americani. Nella seconda metà dell’Ottocento, l’Alaska era popolata da circa 10mila persone, fra russi, meticci, nativi, più almeno 80mila eschimesi e, di certo, non si aveva ancora sospetto delle enormi risorse naturali che possedeva.

A causa della distanza e della difficoltà dei collegamenti, l’Alaska rimaneva comunque una colonia molto poco difendibile, e gli Zar erano convinti che, presto o tardi, sarebbero stati costretti a lasciare il territorio. Tanto valeva trarne guadagno, piuttosto che rimanere con un pugno di mosche, anche perché le casse dell’impero russo non erano in buone condizioni, per le spese sostenute con la guerra di Crimea. Il primo “acquirente” prescelto fu naturalmente l’Inghilterra, che di fatto era padrona del confinante Canada, tuttavia lo Zar Alessandro II decise di offrire l’Alaska agli Stati Uniti, perché li considerava una potenza meno politicamente ingombrante del potente impero britannico.

L’ambasciatore russo, Eduard de Stoeckl, allacciò i primi contatti con il segretario di Stato, William Seward, e dopo una serie di riunioni, il 30 marzo 1867 venne firmato il trattato, per un prezzo di acquisto di 7 milioni e 200mila dollari, che corrispondono a circa 200 milioni di dollari di oggi. Una vera inezia che, per altro, non incontrò il favore dell’opinione pubblica, che manifestò disapprovazione definendo l’affare “la follia della ghiacciaia di Seward” o “il nuovo zoo del presidente Andrew Johnson”.

I motivi politici che spinsero il governo americano a concludere l’affare erano anche di natura politica, in quanto la Russia aveva sostenuto la causa unionista, rispetto all’Inghilterra che invece era schierata con i confederati del Sud, nella appena conclusa Guerra Civile, e per Washington era vantaggioso strappare un vasto possedimento all’espansione britannica in Nord America. Dal punto di vista del prestigio internazionale, appariva oltremodo vantaggioso come rafforzamento della cosiddetta “Dottrina Monroe” che già allora propugnava la supremazia americana nel mondo.

Questa la cronaca, che però non trova l’accordo unanime degli storici, fra i quali non pochi sostengono che l’Alaska sia stata sottratta illegalmente alla Russia, e che sarebbe stata solo ceduta in prestito per un periodo di 99 anni, che sarebbe scaduto nel 1967, ma da Mosca non sarebbe giunta alcuna richiesta. Fra l’altro è recente la notizia che nel 2014, sulla pagina web ufficiale della Casa Bianca, è stata pubblicata una petizione per invitare l’amministrazione presidenziale a restituire la regione ai legittimi proprietari, che avrebbe anche raccolto oltre 20mila firme, ma non ha avuto alcun seguito. Il cono d’ombra rivela che, a monte, ci sarebbe stato un tacito accordo non ufficiale, concluso fra Stalin e Truman alla Conferenza di Yalta, in base al quale l’URSS non avrebbe avanzato pretese sull’Alaska come parte del risarcimento per il determinante contributo industriale che gli USA hanno dato alla Grande Guerra Patriottica contro il Terzo Reich, e perché di fatto non aveva diritti sul continente nordamericano. Esistono poi altri storici e ricercatori che affermano che la Russia non avrebbe mai ricevuto alcun pagamento per la vendita dell’Alaska, perché i 7,2 milioni di dollari in oro, sarebbero affondati con la nave “Orkney” nei pressi della costa baltica nel luglio 1868, a causa di un complotto ordito dall’armatore, che voleva riscuotere dalla assicurazione il risarcimento per i beni imbarcati. Versione smontata dal fatto che il pagamento doveva essere concluso, come da contratto, il 1° agosto 1868 e la nave in questione non avrebbe potuto imbarcare il quantitativo corrispondente in oro prima di quella data, oltre al fatto che in quel periodo si trovava nelle acque del Sud America e non diretta a San Pietroburgo.

In ogni caso, il nuovo possedimento risultò, com’è noto, un affare estremamente vantaggioso per gli Stati Uniti, in quanto, pochi anni dopo, in Alaska vennero scoperti i giacimenti che diedero inizio alla famosa “Corsa all’Oro” nelle regioni del Klondike e dello Yukon, che attirarò cercatori da tutto il mondo e diede inizio allo sviluppo della regione. Oltre all’oro, oggi in Alaska si trovano alcuni fra i giacimenti di petrolio più redditizi del pianeta, altra risorsa che ha contribuito a ribaltare completamente l’opinione sull’iniziativa del tanto dileggiato segretario di Stato William Seward e del presidente Andrew Johnson.

Non bisogna dimenticare che gli Stati Uniti hanno una lunga tradizione di “convenienti acquisti”. L’espansione geografica, e di riflesso economica e politica degli USA, si deve, oltre all’Alaska, all’acquisto di ben 15 Stati e due province, “comprati” dalla Francia, a partire dalla Louisiana, seguita da Missouri, Iowa, Oklahoma, Kansas, Nebraska, Nord e Sud Dakota, vaste aree del Montana, Wyoming, Colorado, la parte settentrionale del New Mexico, oltre a Texas e New Orleans. Le due province erano le canadesi Alberta e Saskatchewan. Da non dimenticare le isole Hawaii (1959), e i territori a ovest del Rio Grande (California, Nevada, Utah e Arizona), acquistati dal Messico. Tra il 1857 e il 1898 gli Stati Uniti si espandono anche oltremare, comprando le isole Baker, Howland e Jarvis nel Pacifico, le isole Midway che diventeranno base di sosta per i voli della Pan-American, Guam e Portorico, con il trattato di Parigi del 1898, dalla Spagna, a cui gli USA versarono 20 milioni di dollari per compensarli delle perdite. E per finire, nel 1947, le isole Marshall in Micronesia. Il discorso Guantamano è un caso particolare e meriterebbe un discorso a parte.

La Groenlandia nelle mire di Trump.

Sull’onda del successo dell’acquisto dell’Alaska, l’attuale amministrazione americana ha voluto tentare un altro “colpo gobbo”, con la proposta di acquisto della Groenlandia e perfino dell’Islanda, fantasiosa non più di tanto, in quanto basata su un ben ponderato calcolo politico ed economico. Non è infatti una provocazione in linea con il carattere “istrionico” del presidente Trump, ma il risultato di una precisa strategia, che risponde a determinate necessità anche strategiche, in funzione anti-russa e anti-cinese. E non è la prima volta, perché l’iniziativa fu già di Harry Truman sul finire della seconda guerra mondiale, il quale ne aveva ben compreso l’importanza strategica e aveva offerto alla Danimarca 100 milioni di dollari, ricevendo un educato ma netto rifiuto.

Oggi, a parte l’Islanda, la Groenlandia, dove vivono 56mila Inuit (in costante disaccordo con il governo danese), torna all’attenzione della Casa Bianca, grazie soprattutto al cambiamento climatico che ha reso l’isola più grande del mondo, decisamente più vivibile e sfruttabile economicamente, dal punto di vista minerario e in particolare per le immense riserve di quello che oggi è considerato l’oro bianco, cioè l’acqua potabile, oltre a uno dei tratti di mare più pescosi del mondo, alle fonti di energia rinnovabile, e giacimenti di petrolio e gas naturale già localizzati.

Per altro, gli USA hanno già messo piede in Groenlandia, e hanno già una notevole influenza territoriale per la presenza di un grande avamposto, la Thule Air Base. Sull’isola è anche già iniziata la corsa alle risorse, perché la Cina ha ottenuto la concessione di alcune miniere di fondamentale importanza, come quella di Kvanefjeld, non lontano da Narsaq, che è il più grande sito del mondo per l’estrazione di uranio, e quella di Citronefjord, all’estremo nord. Inoltre era prevista la costruzione, da parte cinese, di tre aeroporti, che è stata bloccata sotto forti pressioni di Washington, e anche da Mosca, che a sua volta ha notevoli interessi in gioco, fra cui la operatività di oltre una quarantina di navi rompighiaccio, mentre la Cina ne ha sei e gli USA due. In gioco ci sono le rotte artiche, in alternativa al Canale di Suez, che l’innalzamento della temperatura globale ha ormai reso percorribili.

Dal 1979 la Groenlandia è ufficialmente uno stato autonomo, benché appartenga formalmente alla Danimarca (che spende ogni anno circa 700 milioni di dollari per il mantenimento), e dal 2009 ha acquisito ampi poteri in ambito legislativo, giudiziario e su un tema molto delicato come la ripartizione delle rendite petrolifere.

Quanto può valere la Groenlandia? La Casa Bianca non azzarda cifre, ma nel frattempo Trump, che ha costruito il suo impero sulle acquisizioni immobiliari, ha fiutato l’affare, allineandosi alla tradizione dei Padri fondatori, ispirati dal principio “se non puoi conquistare, compra”.

Bibliografia:

“The Alaska Purchase” – Congress Library of United States

“Il trattato Russo-Americano per l’acquisto dell’Alaska” – bartleby.com

“The Alaska Purchase and Russian-American Relations“ Ronald J Jensen, 1975

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