Quando re Zog di Albania spalanco’ le porte all’invasione italiana. Di Alberto Rosselli.

Re Zog di Albania, in uniforme, e assieme alla moglie, la regina Géraldine.

Dopo un lungo periodo (ci riferiamo al tardo Medioevo e all’inizio dell’Era Moderna) caratterizzato da stretti rapporti di amicizia e colleganza, soprattutto in funzione anti ottomana, tra il popolo albanese e taluni potentati italiani meridionali, nel corso del XX secolo tale sodalizio ebbe, per ragioni geopolitiche ed economiche, a modificarsi, inducendo il Regno d’Italia, impegnato tra il 1915 e il 1918, nella disputa con gli Imperi Centrali, ad effettuare penetrazioni armate in terra di Albania. Ricordiamo, a questo proposito, la missione del Corpo di spedizione italiano in Albania (19141920) inviato da Roma con lo scopo di contrastare le forze austro-ungariche (1).Sconfitta l’Austria, il 2 agosto 1920, l’Italia, stipulò con il governo provvisorio albanese il “protocollo di Tirana“, con il quale, si riconosceva – in cambio della cessione dell’isola di Saseno – la totale autonomia del Paese balcanico. Tuttavia, appena due anni più tardi, con la presa del potere da parte di Benito Mussolini, la politica estera italiana iniziò nuovamente a puntare gli occhi sull’Albania, grazie anche all’operato del giovane gerarca Alessandro Lessona (18911991), uomo indubbiamente capace e lungimirante. L’elezione, avvenuta nel 1925, di Ahmed Zog (Ahmet Lekë Bej Zog) (18951961) – uomo destinato a lasciare, in ambito diplomatico e storico internazionale, un ricordo indelebile circa le sue capacità intellettive – quale presidente della Repubblica albanese pose di fatto le basi per la penetrazione italiana nella regione, in funzione anti-jugoslava. Non a caso, lo stesso anno – pur in dissenso con il parere del Segretario Generale del Ministero degli Esteri Salvatore Contarini, favorevole ad un’alleanza con la Jugoslavia – vennero stipulati accordi tra i due Paesi grazie alla sagacia diplomatica del citato Lessona. Con la ratifica di questi accordi suicidi, Zog assecondò quindi a tutte le richieste italiane (una clausola segreta di tale intesa così riportava: “L’Albania mette a disposizione dell’Italia il suo territorio nell’eventualità di una guerra con la Jugoslavia; […] concessioni di zone petrolifere […] concessioni agricole in zone da definirsi, […] e consente la costituzione di una banca di emissione albanese con capitali italiani. Successivamente il governo albanese promulgò la “Legge del riordinamento monetario dell’Albania”, ponendo le basi per la nascita, il 12 settembre 1925, della “Banca Nazionale d’Albania” (avente l’esclusività dell’emissione della carta moneta) e di lì a poco della Società per lo Sviluppo Economico dell’Albania (SVEA), che operando un investimento di 50 milioni di franchi oro, sanzionò il totale controllo italiano del settore economico-finanziario nel paese.Il 26 giugno 1926, inoltre, venne siglato l’accordo con il quale l’Azienda Italiana Petroli Albanesi (AIPA) assunse, in concessione esclusiva, la gestione delle risorse petrolifere della regione del Devoli. Nel 1928, Ahmed Zog si proclamò monarca, ma tale atto, ad eccezione dell’Italia, non venne riconosciuto dalla comunità internazionale. Tutto ciò portò, ovviamente, ad un’intesificazione dei rapporti tra Roma e Tirana, tanto che il 30 agosto 1933, in Albania l’insegnamento della lingua italiana divenne obbligatorio. Nel marzo 1939, Mussolini propose a Zog un nuovo trattato articolato in otto punti: alleanza militare tra i due paesi (art.1); integrità territoriale dell’Albania riconosciuta dall’Italia (art.2); opportunità per l’Italia di intervenire in caso di disordini interni o di aggressione esterna al territorio albanese (art.3); più una serie di intese per lo sfruttamento delle risorse e delle infrastrutture albanesi da parte italiana (artt. 4-5-6-7); ed infine l’articolo 8, che di fatto avrebbe permesso l’espansionismo demografico italiano in Albania: articolo, questo, che, tuttavia, perfino re Zog – sempre prono ad accogliere ogni richiesta di Roma – si rifiutò di accettare, scatenando le ire di Mussolini. Il 1° aprile, l’Italia invase dunque, l’Albania (per la cronaca, poco prima dell’invasione l’ambasciatore albanese Zef Seregi, in transito a Bari, si accorse della concentrazione di soldati pronti ad imbarcarsi). Il preponderante Corpo di Spedizione Italiano (composto da 22 mila tra ufficiali e soldati agli ordini del generale Alfredo Guzzoni) non ebbe difficoltà a sbarcare a Durazzo, Santi Quaranta, S. Giovanni di Medua e Valona (località scarsamente presidiate dal debole esercito albanese agli ordini del generale Mujo Ulqinaku, che aveva il suo quartiere generale in Durazzo), occupando l’intero territorio nell’arco di appena una settimana, a fronte di perdite irrisorie (12 morti e 53 feriti). Va ricordato che poche ore prima dello sbarco italiano, i capi anti monarchici delle fise della Mirdizia e del Dukagjini erano scesi dalle loro montagne per accogliere le truppe tricolori e dare loro man forte.

Si può dire che, in occasione dell’ ‘invasione italiana’, la popolazione albanese – in grande misura avversa a re Zog, tenne ovunque un atteggiamento abbastanza cordiale nei confronti degli italiani. Nello specifico, salvo qualche eccezione, la popolazione di Tirana se ne stette chiusa in casa, felice dell’imminente caduta del disprezzato regime zoghista; quello di averlo sostenuto era infatti il solo rimprovero che veniva mosso all’Italia fascista. Prima di fuggire, attraverso Elbassan e Korcça, verso la Grecia (Zog non temeva tanto gli italiani, ma l’ira del popolo albanese), con un lungo corteo di macchine e camion carichi di beni, il re mandò al generale Alfredo Guzzoni il suo ministro dell’Economia Nazionale Brok Gera e il colonnello di Stato Maggiore Samih Koka, accompagnati dal colonnello Manlio Gabrielli (addetto militare italiano a Tirana), in apparenza per trattare, di fatto per prendere tempo. a Tirana, intanto, alcune bande si abbandonarono al saccheggio del Palazzo Reale e a quello della residenza delle principesse sorelle del re. Mentre nell’ambasciata italiana rimasero asserragliati il ministro Francesco Jacomoni di San Savino, i funzionari e pochi connazionali, pronti, nel caso, a difendersi. Preoccupazione del tutto inutile in quanto ben presto tutto si placò. Vi fu un incontro tra Jacomini e l’Ispettore Generale di, Xhafer Ypi, personalità di primo piano (era stato Reggente dello Stato albanese subito dopo la proclamazione dell’indipendenza del Paese e più volte Presidente del Consiglio dei Ministri) che portò subito ad una pacificazione. Con il placet italiano, fu stabilito di costituire un Governo Provvisorio (presieduto dallo stesso Ypi) composto dal capo della comunità musulmana sunnita, il Gran Muftì Shapati, dal leader della comunità alevita dei Bektashi Baba Dedé e dal responsabile della Chiesa Ortodossa autocefala Monsignore Kissi. Alle ore 9,30 del 7 aprile, Jacomoni poté telegrafare a Roma: “Truppe italiane attese da popolazione con entusiasmo. Grande adunata popolo piazza Skanderbeg accoglierà truppe al loro ingresso città. Segretario generale questo ministero Interno telefona però pregando vivamente accelerare massimo possibile arrivo a Tirana primo contingente timore che elementi turbolenti ancora circolanti città provochino nuovi disordini”. 12 aprile, a Tirana, venne proclamata una nuova costituzione che di fatto trasformò il Paese in Protettorato Italiano del Regno d’Albania. Successivamente, il 16 aprile, l’ex trono di Zog venne assunto dal Re d’Italia Vittorio Emanuele III. Per governare l’Albania venne istituita la figura di un Luogotenente generale albanese, nominato formalmente da Vittorio Emanuele III e posto sotto la diretta dipendenza del Ministero degli Esteri italiano tramite il sottosegretario di Stato per gli Affari albanesi. Finiva così, grazie alla politica ambigua e piuttosto demenziale di re Zog, l’indipendenza albanese.

NOTE

1) Nel settembre del 1914, il governo italiano, ancora neutrale, aveva deliberato di occupare il porto di Valona con un reggimento di fanteria rinforzato da una batteria da montagna, onde evitare eventuali sconfinamenti serbi o greci. Ma il 27 dello stesso mese il generale Cadorna aveva manifestato la sua opposizione ritenendo, a ragione, come del tutto inutile questa operazione dietro la quale, probabilmente, si celava da parte del governo la volontà di assicurasi facilmente alcuni pegni territoriali. Il 14 e il 22 ottobre, dopo due ulteriori rifiuti di Cadorna, intervenne l’onorevole Sonnino (che aveva sostituito al Ministero degli Esteri il defunto marchese di San Giuliano) sostenendo invece la necessità di un’immediata occupazione del piccolo porto albanese e dell’isola di Saseno. E fu così che tra il 30 ottobre e il 29 dicembre 1914, la flotta italiana sbarcò sulla costa orientale adriatica il 10mo reggimento bersaglieri e la 18ma batteria someggiata.

Il 14 novembre 1915, a Roma, al termine di lunghi colloqui intercorsi tra Cadorna, i vertici di governo e il rappresentante militare francese, generale Gourand (giunto in Italia per richiedere all’alleato l’invio a Salonicco di ben 100.000 soldati), il governo italiano fu infine costretta a siglare una specie compromesso che, non tenendo conto dell’impegno italiano in Albania, costringeva egualmente l’Italia ad impegnarsi in Macedonia, anche se con un contingente ridotto rispetto a quello richiesto dalla Francia. Sfortunatamente, poche settimane più tardi, in seguito al crollo e alla ritirata verso l’Adriatico dell’armata serba, l’Italia dovette garantire il rafforzamento del suo corpo di spedizione in Albania per proteggere l’arretramento delle truppe di Belgrado: decisione che Cadorna fu costretto ad accettare seppur a malincuore. E fu così che il contingente italiano di stanza a Valona, al comando del generale Bertotti, formato dal comando brigata Savona e 15mo fanteria; dal comando brigata Verona, 85mo e 86mo fanteria; da uno squadrone di cavalleria; tre batterie someggiate; due batterie di obici Skoda; sette batterie campali; il 47mo e il 48mo reggimento di milizia territoriale dovette essere giocoforza rinforzato. In buona sostanza, dunque, grazie alle incertezze e agli errori di valutazione del governo, l’Italia che, come si è visto, aveva voluto tutelare la propria sicurezza ma anche i propri interessi (Sonnino, contrariamente a Cadorna, aveva sempre sperato in una estensione dell’occupazione italiana in Albania per motivi di prestigio) non dispiacendo nel contempo ai suoi alleati, dovette alla fin fine pagare un doppio pegno. Anche se, ad onore del vero, l’intervento dell’esercito, e soprattutto quello della marina, a Valona e in seguito anche a Durazzo e ad alcune località del retroterra albanese, permise la realizzazione di quel miracolo di logistica che si tradusse nel reimbarco e nel salvataggio di buona parte dell’esercito serbo: operazione che venne ultimata il 9 febbraio 1916.

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