La guerra privata del legionario Bottai. Di Enzo Natta.

Giuseppe Bottai.

Il mio nome? La risposta a questa domanda me la fornisce lui con il titolo del suo libro. ‘Legione è il mio nome’. E io aggiungo: la mia famiglia, la mia Patria”.

Il vecchio legionario è un vrai des vrais, un “vero dei veri”, uno di quegli anziani ospiti della casa di riposo “Centre Capitain Danjou” di Puyloubier, a pochi chilometri da Aix en Provence, ai piedi del massiccio di Sainte-Victoire. Qui, circondati da foreste di pini, campi di ulivi e vigneti, trascorrono gli ultimi anni della loro vita circa duecento pensionati e invalidi della Legione Straniera. Il vrai des vrais si ferma un attimo. Giusto il tempo per ricaricare la pipa. “Se le dicessi come mi chiamo mi caccerebbero da Puyloubier e mi toglierebbero la pensione. Dalla fine del 1944 sono vincolato al segreto militare e l’ordine di tacere non è mai stato revocato. D’altra parte il mio nome vero l’ho dimenticato e dopo più di sessant’anni non ricordo nemmeno come si scrive, tanto era complicato con tutte quelle k e quelle h. Se proprio vuole un nome, allora mi chiami come mi chiamava lui, Poussin, Pulcino. Mi chiamava così perché ero il più giovane del plotone. Avevo 16 anni quando mi arruolai e per tutti i vieilles moustaches, i “vecchi baffi”, gli anziani; io ero una Marie-Luise, nomignolo ereditato dalle guerre napoleoniche, con il quale, usando il nome della giovane moglie dell’imperatore, venivano presi in giro i soldati adolescenti. Per me è stato come un padre. Mi voleva bene come a un figlio. Forse gli ricordavo il suo, Bruno, che aveva dovuto abbandonare fuggendo dall’Italia…”

Poussin non sa trattenere un moto di commozione, che cerca di nascondere accendendo la pipa. Poi, davanti a una bottiglia di vin de sable fresco al punto giusto si lascia andare e svela quel top-scret che resiste da più di sessant’anni e si aggiunge alla lista di tanti archivi politici e militari. Inviolati e inviolabili.

A proposito di nomi, mon ami, lei sa che lui si faceva chiamare Andrea Battaglia? Arrivò ad Algeri nell’estate del 1944. Non ci fu bisogno di  istruzione militare perché ne sapeva più di tutti gli altri. Si capiva da lontano che doveva essere un ufficiale e alto in grado per giunta. Per questo fu subito aggregato al nostro reparto, che sbarcò proprio qui, in Provenza, nel settembre del 1944.”

Andrea Battaglia era lo pseudonimo sotto il quale Giuseppe Bottai si arruolò nella Legione Straniera per combattere la sua guerra privata, per rimuovere vistose macchie dalla coscienza e ritrovare l’identità perduta.

Nella notte fra il 24 e il 25 luglio 1943, Bottai aveva partecipato alla storica seduta del Gran Consiglio del Fascismo, contribuendo a redigere l’ordine del giorno Grandi che provocò la caduta del regime e l’arresto di Mussolini. A fine agosto fu inopinatamente arrestato e tradotto al carcere di Regina Coeli per ordine del governo Badoglio, senza alcun mandato di cattura ma soprattutto senza una comprensibile motivazione politica: ulteriore sintomo della confusione e degli intrighi di quei giorni che precedettero l’armistizio. Ne uscì grazie a un ordine emanato all’ultimo momento dal capo della polizia, Carmine Senise, mentre i tedeschi già si stavano insediando a Roma. I tedeschi si misero, infatti, subito alla sua ricerca, seguiti più tardi, nel disordine generale, dalla polizia della nascente Repubblica Sociale Italiana. Aiutato dal Vaticano, Bottai fu accolto via via presso diversi istituti religiosi. Seguivano personalmente la sua vicenda il cardinale Giuseppe Pizzardo, che molto lo stimava, e monsignor Montini, il futuro papa Paolo VI.

Nel gennaio del 1944, il Tribunale speciale di Verona lo aveva condannato a morte per alto tradimento, insieme a Galeazzo Ciano e a tutti coloro che avevano votato l’ordine del giorno contro Mussolini. Era chiaro comunque che la liberazione di Roma – mentre nel Nord occupato dai tedeschi si affrontavano i partigiani e le milizie repubblicane – non poteva preludere a una pacificazione degli animi. A Bottai sembrava quindi non rimanere che la via dell’esilio. Scelse invece quella del riscatto. L’amica e collaboratrice Annita Ferrari, figura di educatrice cattolica di grande rilievo morale e culturale, con legami diretti e riservati negli ambienti cattolici francesi vicini alla Resistenza, gli propose una via d’uscita coraggiosa, subito accettata: la partenza clandestina da Roma e l’arruolamento immediato nella Legione Straniera, grazie all’aiuto dei servizi segreti francesi.  

Bottai si arruolò nella Legione a Sidi-Bel-Abbes, in Algeria. Aveva 49 anni, già troppi per la Legione. Ne dichiarò 44 e il furiere commentò: “Come d’abitudine ci si ringiovanisce”.

Ufficiale degli Arditi durante la Prima guerra mondiale, combattente nella guerra d’Etiopia nel 1935-36, colonnello degli alpini sul fronte greco-albanese nel ’41, per il suo grado di preparazione militare Bottai stupì gli istruttori che lo assegnarono immediatamente al 1° REC, Régiment étranger de cavalerie (Reggimento straniero di cavalleria), in partenza per il fronte. Il suo compito: addetto alle due mitragliatrici abbinate su una vettura veloce per ricognizioni avanzate.

Ai primi di settembre del 1944 il 1° REC sbarca sulla spiaggia di Saint-Raphael, dando inizio a una vera e propria corsa verso il confine tedesco, che i legionari varcano dopo la liberazione di Colmar (27 gennaio 1945) e che – dopo violenti combattimenti a Karlsruhe, Pforzheim e Stoccarda – si concludono il 7 maggio oltre il confine austriaco, sotto le balze del Vorarlberg. Lo sbarco in Provenza è dettato da finalità politiche più che militari. Nella zona le truppe tedesche sono scarse, intanto perché impegnate a contrastare le forze alleate che si sono ormai saldamente attestate nel nord della Francia dopo lo sbarco in Normandia, e poi perché la Provenza e la Costa Azzurra hanno un peso di poco conto nello scacchiere sud, bloccato dalle Alpi che, come un bastione naturale, difendono il passaggio verso est e verso nord-est. Ciò nonostante le Forze Francesi Libere sbarcano lo stesso. Da Londra il generale De Gaulle ha insistito a lungo perché all’attacco alleato in Normandia facesse seguito anche un intervento tutto di marca francese. Anche se si tratterebbe di un’azione poco più che simbolica, il suo peso morale e politico avrebbe un effetto di straordinaria portata sull’opinione pubblica francese. Convinti del suo insuccesso ma soprattutto della sua inutilità, anche se a malincuore gli Alleati approvano l’operazione e l’appoggiano con la Settima armata americana del generale Alexander Patch.

Contrariamente alle previsioni le operazioni di sbarco non trovano che un debole contrasto da parte di sparute e demotivate unità della Wehrmacht composte prevalentemente di riservisti. La mancata resistenza della 19ma armata tedesca costringe però gli Alleati a modificare completamente i loro piani e di procedere con una manovra a tenaglia: le truppe americane a nord, quelle francesi a ovest. Invece di un attacco a largo raggio, che rischia di esporre le sue unità a un contrattacco e a un accerchiamento, l’Alto Comando francese decide di consolidare le posizioni conquistate e di agire in profondità inviando in avanscoperta veloci pattuglie motorizzate. Si tratta di una missione improvvisata, al buio e perciò estremamente pericolosa, ai cui rischi l’Alto Comando non intende esporre soldati francesi. La scelta cade, di conseguenza, sulla Legione Straniera. L’incarico esplorativo è affidato a un commando di una quarantina di uomini montato su jeep e camionette, scout-car forniti dagli americani, mezzi blindati leggeri dotati di mitragliatrici e mortai. Il mitragliere Andrea Battaglia fa parte del gruppo, il cui compito è quello di intercettare le retroguardie tedesche in fuga. Poiché la ricognizione aerea non ha fornito alcun utile riferimento, si teme che, mimetizzando le sue posizioni, il nemico possa essere facilmente sfuggito all’osservazione. L’unica soluzione resta perciò quella di agganciare i tedeschi. Il contatto potrebbe essere imminente e verificarsi da un momento all’altro. L’operazione esige la massima cautela. Come procedere? Indeciso, l’adjudant (grado che corrisponde al nostro maresciallo) che comanda il gruppo si consulta con le professeur, “il professore”, così i legionari hanno soprannominato quello strano tipo di Andrea Battaglia, soldataccio incallito, che ne sa più di tutti gli altri messi assieme e va a far la guerra portandosi due o tre libri nello zaino. Il “professore” ha già elaborato un piano e consiglia l’adjudant sul da farsi: mandare in avanscoperta una jeep per uno-due chilometri al massimo. A ogni traguardo stabilito, se la strada è sgombra la jeep di testa segnala il via libera alle altre rimaste in attesa e così via, evitando in tal modo che l’intero commando possa cadere in eventuali imboscate. L’adjudant rimane favorevolmente sorpreso dalla proposta, che rivela un’adeguata conoscenza di tattica militare, e la condivide in pieno. Con questo sistema il commando avanza senza difficoltà, penetrando sempre più in profondità nel cuore del territorio occupato dal nemico e liberando un paese dopo l’altro. A questo punto l’Alto Comando francese si rende conto che un’operazione dove si è fatto ricorso all’impiego della Legione per evitare il sacrificio di soldati francesi rischia di diventare un boomerang e di trasformarsi in una beffa. Poiché è ormai chiaro che la Wehrmacht si sta ritirando su tutto il saliente e che un pugno di legionari sta liberando la Provenza, se il commando non viene bloccato immediatamente il merito dell’operazione spetterà tutto a una manciata di stranieri di dubbia reputazione. E di conseguenza, chiunque – dagli Alleati alla propaganda nemica – potrà dire che il sud della Francia è stato liberato da mercenari.

Tutto questo Giuseppe Bottai l’aveva intuito fin dalle prime battute, tant’è che dopo un po’ aveva preso in disparte l’adjudant e gli aveva confidato: “Prima o poi arriverà l’ordine di fermarci e allora i casi sono due: ubbidire oppure far finta che la radio sia fuori uso e andare avanti lo stesso”. “Sono proprio curioso di vedere come andrà a finire questa storia” rispose l’adjudant e comandò alla colonna di proseguire.

Mantenendo il silenzio radio e fingendo di non ricevere i continui messaggi che lo bombardano, il commando va avanti. Tutti gli uomini del plotone sono consapevoli che a questo punto soltanto il buon esito dell’operazione potrà evitare loro guai maggiori. Perciò bisogna fare in fretta e avanzare più che sia possibile. L’incitamento ricorrente è “gasez! gasez!”, che nel gergo del Resé (come i legionari chiamano familiarmente il Régiment étranger de cavalerie) significa “date gas, pigiate sull’acceleratore, andate più svelti”.   In ogni centro abitato gruppetti di partigiani premono per poter aggregarsi agli uomini della Legione. Bottai intuisce che anche quell’eventualità potrebbe diventare un altro punto di forza e consiglia l’adjudant di acconsentire alla loro richiesta. A patto che gli uomini del maquis accettino di sottostare alla disciplina che vige nella Legione e agli ordini dell’adjudant, che in quel momento rappresenta la più alta autorità militare del luogo. Ma anche questo sviluppo della situazione ha un suo peso politico da non sottovalutare. Se è vero che nella liberazione del Midi è presente l’esercito regolare, è altrettanto vero che nessun ufficiale francese sta guidando l’operazione. Bottai ha un’altra idea. Sempre fingendo che la radio abbia ripreso a trasmettere, ma non a ricevere, viene contattata la base operativa e inoltrata la richiesta che un ufficiale alto in grado sia paracadutato nella zona per poter prendere in mano il comando delle operazioni. L’Alto Comando francese, pur se a malincuore, non può far altro che abbozzare. Anche perché l’avanguardia del 1° REC ha saltato le sparute difese tedesche e, sfruttando l’effetto sorpresa, affonda come un coltello nel burro. Sulle prime c’è soltanto il sospetto su chi abbia preso in mano il pallino del gioco, sulla mente che, contravvenendo agli ordini, abbia ideato quel piano. Ben presto, però, il sospetto si fa certezza. Ma, a questo punto, non rimane che far finta di niente e, per il momento, chiudere un occhio. Poi, si vedrà.  

La Storia non si fa con i se. Tuttavia c’è da chiedersi: che cosa sarebbe successo se Giuseppe Bottai non avesse consigliato di avanzare con la tattica del “salto del ranocchio”, prima un passo e l’altro soltanto quando il primo è ben saldo in terra; se non si fosse inventato il trucco della radio; se non avesse richiesto la “tutela” di un ufficiale francese alto in grado? La Provenza sarebbe stata liberata in così breve tempo e con altrettanta facilità? Oppure si sarebbe verificato il bis dello sbarco di Anzio, quando, nonostante le avanguardie americane fossero arrivate alla periferia di Roma senza incontrare resistenza, il grosso delle forze alleate non si mosse temendo una trappola e dando così ai tedeschi tutto il tempo per organizzare la difesa? Allo stesso modo c’è da chiedersi: se un delizioso vin de sable non avesse sciolto la lingua di un veterano della Legione vittima del cafard, la cupa malinconia del legionario, probabilmente l’unico sopravvissuto del commando del 1° REC che come una punta di diamante tagliò in due la Provenza facendo spuntare le ali ai piedi dei tedeschi, oggi saremmo a conoscenza di un episodio sul quale grava ancora il segreto militare motivato da ragioni di gelosia, superbia e orgoglio nazionalistico?

Di questa pagina di Storia non c’è traccia nel libro di Giuseppe Bottai Legione è il mio nome (rieditato dalla ex Gianni Iuculano, Pavia), né in Giuseppe Bottai fascista di Giordano Bruno Guerri (Mondadori). E non poteva essere diversamente perché Bottai mantenne fede al giuramento del silenzio anche quando il suo ingaggio nella Legione scadde nel luglio 1948 e poté rientrare in Italia beneficiando dell’amnistia del novembre 1947. Questo spiega perché nel suo libro e nelle sue lettere la Provenza non viene neppure nominata. Si parla delle operazioni in Alsazia, sul Reno e sul Danubio, c’è addirittura una cartina geografica sulla quale sono segnati tutti i movimenti del 1° REC, ma dei fatti verificatisi in Provenza neanche un cenno. Quale fosse il suo stato d’animo di fronte a quegli eventi lo si può arguire quando in Legione è il mio nome parla di “vittoria in accomandita” o quando riferisce l’episodio di un alzabandiera ad Altheim, un paesino tedesco sopra il lago di Costanza. Nel reparto che presentava le armi non c’era neppure un francese e il legionario al suo fianco non poté trattenere un: “Che scandalo!”.

D’altra parte Bottai non cercava encomi né medaglie ma soltanto “espiazione” e “riscatto”. “La mia storia, vera o falsa che l’avessi raccontata, era una storia come un’altra, la storia di un uomo che ricomincia da capo” scrive in Legione è il mio nome. Storia vera o falsa? Gli storici militari hanno raccontato la liberazione della Provenza in  sintonia con la versione ufficiale dell’Alto Comando, dando credito ai rapporti forniti dallo Stato Maggiore. Les vieux des vieux, i “vecchi dei vecchi”, i lascars, i grognards, i duri della Legione, sanno che le cose sono andate in un altro modo e che a dirigere l’orchestra era stato Andrea Battaglia. Che alla fine della guerra era stato promosso sergente e aveva cambiato un’altra volta identità. Il suo nome era diventato André Jacquier. Ma les vieux des vieux gli avevano già affibbiato un altro soprannome: Sun Tzu, il generale cinese entrato nella leggenda perché vinceva le battaglie senza perdere un solo uomo.

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IL PERSONAGGIO

Giuseppe Bottai nasce a Roma da genitori toscani il 3 settembre 1895. Volontario nella Prima Guerra Mondiale, subito dopo la fine del conflitto collabora con la rivista “Roma Futurista”. Nel 1921 si laurea in Giurisprudenza, sposa Cornelia Ciocca, assume la direzione dell’ufficio romano del “Popolo d’Italia”, il quotidiano fondato da Benito Mussolini, e viene eletto alla Camera.

Nel 1922 partecipa alla Marcia su Roma e nel giugno del 1923 fonda la rivista “Critica Fascista”, che per vent’anni sarà l’organo di informazione e di dibattito più importante del regime. Nel 1926 è nominato sottosegretario alle Corporazioni, nel 1929 ne diventa ministro ed entra a far parte del Gran Consiglio del Fascismo. Nello stesso periodo vara la Carta del Lavoro.

 Nel 1935 è nominato Governatore di Roma e prende parte alla campagna d’Etiopia. Dal 1936 al 1943 è ministro dell’Educazione Nazionale: carica che gli consente di introdurre importanti modifiche nell’ordinamento scolastico e di promuovere leggi in difesa dei beni artistici e delle bellezze paesaggistiche. Nel 1939 vara la Carta della Scuola e fonda la rivista “Le Arti”. Nel 1940 crea il quindicinale “Primato”, che costituirà la voce più vivace e più autorevole nel dibattito sull’arte italiana e che, secondo il parere dello storico Giordano Bruno Guerri, difenderà la cultura dall’ortodossia del regime. Nel 1941 partecipa alla campagna d’Albania al comando di un battaglione di alpini. Il 25 luglio 1943, durante la storica seduta del Gran Consiglio del Fascismo, vota a favore dell’ordine del giorno Grandi e mette in minoranza Mussolini, che il giorno dopo è destituito da Vittorio Emanuele III. Nell’agosto dello stesso anno Giuseppe Bottai è fatto arrestare dal maresciallo Badoglio, capo del nuovo governo. Scarcerato dopo l’8 settembre, condannato a morte in contumacia da un tribunale della Repubblica Sociale Italiana, vive in clandestinità a Roma fino all’arrivo degli alleati. Nell’agosto del 1944 si arruola nella Legione Straniera, dove rimarrà fino al 1948. Muore a Roma il 9 gennaio 1959.

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