Adriano Visconti, pilota ed eroe, assassinato a tradimento dai partigiani (1945). Di Luciano Garibaldi.

Adriano Visconti.

Con questo suo impegnativo e accuratissimo lavoro storico-giornalistico, dedicato ad una delle più splendide figure della storia militare del nostro Paese, Cristina Di Giorgi colma un grande vuoto e reca un contributo da noi tutti dovuto a colui che, durante la seconda guerra mondiale, salvò la vita a migliaia di uomini, donne e bambini, e fu ricompensato con una pallottola nella schiena. Parliamo di Adriano Visconti, del maggiore Adriano Visconti, assassinato all’età di 29 anni dopo avere portato a termine 600 missioni di guerra, avere abbattuto 26 aerei nemici ed avere combattuto nei cieli per oltre 1400 ore. Uno dei resti più gloriosi tra i tanti che riposano al Campo 10 del cimitero del Musocco, a Milano.

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Nato a Tripoli l’11 novembre 1915, figlio di un impiegato del ministero della Guerra, il 21 ottobre 1936 Adriano Visconti entra nel corso Rex della Regia Accademia Aeronautica di Caserta. L’11 agosto 1939 è sottotenente in servizio permanente effettivo, dapprima assegnato alla Caccia (difesa), poi, per sua scelta, al gruppo piloti assaltatori, dove, nel novembre 1940, ottiene la qualifica  di tenente. Nel giugno ’42 è promosso capitano, comandante del 54° Stormo da caccia, con base in Tunisia. Fino all’estate del 1943 combatte nei cieli dell’Africa settentrionale guadagnando 4 Medaglie d’Argento e una di Bronzo al valor militare (altre 2 Medaglie d’Argento gli verranno assegnate dalla Repubblica Sociale Italiana).

L’8 settembre lo coglie a Decimomannu. Nelle ore immediatamente seguenti alla notizia della resa italiana, la maggior parte della nostra flotta aerea (più di mille velivoli) viene catturata dai tedeschi. Erano in servizio circa 5000 piloti combattenti. Duecento aderiranno alla RSI, pochi di più alla Regia Aeronautica. La massima parte, com’era perfettamente comprensibile, alla macchia. Non però Adriano Visconti che, rimasto senza ordini, decise di partire con 3 Macchi, seguito da un pugno di ufficiali e avieri, e raggiunse Guidonia. Ciò che lo spinse a riprendere a combattere non fu l’ideale fascista ma i bombardamenti indiscriminati degli anglo-americani. Anche gli ufficiali che si riunirono attorno a Visconti aderirono alla RSI per reagire ai violenti bombardamenti che falcidiavano la popolazione civile dell’Italia Settentrionale, in particolare di Milano.

Nominato comandante del 1° Gruppo Caccia, con base a Campoformido (Veneto), sostenne, nei soli primi sei mesi di attività, durissimi combattimenti totalizzando, con i suoi uomini, 38 vittorie, abbattendo 4 «fortezze volanti» e 22 bimotori, e meritandosi anche più d’una copertina di Achille Beltrame sulla «Domenica del Corriere». Nel frattempo, anche il 2° Gruppo Caccia, che aveva perduto il 50% dei suoi piloti, veniva aggregato al 1° e affidato a Visconti, promosso maggiore. Da tempo Visconti manifestava una dura opposizione alle pretese tedesche di incorporare nella Luftwaffe l’Aeronautica Nazionale Repubblicana, ed aveva incontrato il capitano Monti, inviato dalla Regia Aeronautica in missione segreta al Nord e portatore della proposta, agli aviatori repubblicani, di passare in blocco al Sud. Visconti aveva risposto che l’ipotesi era possibile solo nel caso che i tedeschi fossero riusciti a sciogliere i reparti e ad incorporarli nella Luftwaffe. Tutti gli avieri erano con lui e i tedeschi finirono per presentare le scuse ufficiali. Anzi, dotarono Visconti dei nuovi Messerschmitt 109, con i quali prima da Thiene, e poi da Lonate Pozzolo (Malpensa), Visconti e i suoi uomini (ma il primo a levarsi in volo era sempre lui) partivano ogni volta che le squadriglie aeree alleate dirigevano su Milano, per impegnarle in duri combattimenti. Il bilancio del 1° Gruppo caccia, che aveva iniziato con una dotazione di 39 Macchi C 205 Veltro, fu di 113 aerei nemici abbattuti, 49 piloti Caduti, 55 aerei perduti in combattimento. Tutto accuratamente illustrato in modo avvincente nelle pagine dell’Autrice.

Il 26 aprile 1945, Visconti ottenne dagli esponenti della Resistenza locali, in cambio di una tregua, la possibilità di riunire tutti i suoi uomini, oltre 700, nella scuola Ponti di Gallarate, trasformata in caserma. Qui, il pomeriggio del 28 aprile, si presentarono tre capi partigiani comunisti giunti da Milano, intimando la resa incondizionata, la consegna delle armi e il trasferimento del gruppo a Milano. Visconti rifiutò, esigendo di poter recarsi a Milano, seguìto dai suoi uomini armati, per trattare qui la resa con il generale Virgilio Sala, comandante della Regia Aeronautica al Nord. I tre capi partigiani avanzarono una controproposta: disarmo e liberazione dei sottufficiali e della truppa, trasferimento dei soli ufficiali, con possibilità di conservare le pistole, a Milano, dove Visconti avrebbe potuto incontrare il generale Raffale Cadorna, comandante del CVL, e arrendersi a lui. O così, o i cannoni apriranno il fuoco sulla scuola.

La mattina del 29 aprile Visconti tenne un ultimo discorso ai suoi uomini, presente il vescovo di Gallarate, al quale aveva fatto dono delle riserve alimentari per opere di assistenza. Disse tra l’altro: «Spero accetterete di servire ancora la Patria, quando avrà bisogno di voi. Grazie per l’opera prestata, e tutti i nostri pensieri vadano ai Caduti. Per il resto, ogni responsabilità è mia». Commozione generale. Dopodiché Visconti, altri 40 ufficiali e due Ausiliarie furono portati, con l’autobus del Gruppo, a Milano, alla caserma del “Savoia Cavalleria” di via Vincenzo Monti, occupata dalle formazioni comuniste. Qui furono tutti disarmati e rinchiusi in uno stanzone.

Ed ora lascio la parola a Giampaolo Pansa, «Sconosciuto 1945», pagina 78: «Poco prima delle ore 14, un partigiano si affaccia alla porta del camerone e chiede: “Chi è il maggiore?”. Visconti si fa avanti: “Sono io”. Il partigiano gli ordina di seguirlo. A quel punto si alza l’aiutante maggiore di Visconti. E’ un sottotenente di 23 anni, Valerio Stefanini, romano. Dice a Visconti: “Vi accompagno, comandante”. “Sta bene, vieni”, replica il maggiore, che pensa a un interrogatorio. Mentre attraversano il cortile della caserma, Visconti e Stefanini vengono colpiti alle spalle dalle raffiche di un fucile mitragliatore. Stefanini muore subito.  Il maggiore cade sulle ginocchia e viene finito con due colpi di rivoltella alla nuca, sparati da un commissario politico presente all’esecuzione».

Ebbene, nel fascicolo a lui intestato presso l’Archivio Centrale dello Stato, Cristina Di Giorgi ha scoperto che Visconti risulta «deceduto in seguito ad azioni belliche». Sempre Cristina ha accertato la giustificazione che fu avanzata per negare la pensione di guerra al padre dell’eroe, Galeazzo, e alla madre, Cecilia: «…spiacenti», si legge nella comunicazione del Ministero della Difesa Aeronautica datata 17 settembre 1956, «dovervi comunicare che disposizioni di legge vietano la corresponsione di trattamento economico ai congiunti del personale compromesso con la RSI».

Dall’Italia “ufficiale”, Visconti è stato completamente dimenticato. Invece, gli Stati Uniti, riconoscendolo «asso dell’Aeronautica italiana» per le 26 vittorie riportate durante la 2.a Guerra Mondiale, lo hanno immortalato con una foto nel «Museo dell’Aria e dello Spazio» di Washington unitamente al capitano Franco Bordoni Bisleri e, per la Prima Guerra Mondiale, a Francesco Baracca.

Il libro di Cristina Di Giorgi «Adriano Visconti. Chi per la Patria muor vissuto è assai», che viene ad aggiungersi ad apprezzati e validi volumi dedicati al grande eroe (Gianni Bianchi, «Adriano Visconti eroe e martire»; Giulio Lazzati, «Ali nella tragedia»; Giovanni Massimello, «Adriano Visconti, l’aviatore di Tripoli»; Franco Pagliano, «Aviatori Italiani»; S. Laiolo – P. Schifano, «Volando all’ala di Visconti») ha il pregio di essere arricchito da una avvincente appendice di testimonianze, ricordi, documenti inediti: tutto ciò che di più importante è stato manifestato, nel ricordo di Adriano Visconti, in questi oltre settant’anni dalla sua tragica, ingiusta e feroce morte.

Tra queste carte, assolutamente da non perdere le bellissime lettere della mamma dell’eroe, Cecilia Visconti, che non smise mai di battersi per l’onore e il ricordo dell’amato figlio. Particolarmente toccante quella in cui ricorda la testimonianza che ricevette da due aviatori, Egeo Fiorani e Giuseppe Roletto, i quali le raccontarono come e quante volte Visconti rifiutò sempre le richieste di alzarsi in volo per mitragliare colonne di partigiani. «Non volle  mai farlo», sottolinearono i due testimoni.

Un plauso speciale va riconosciuto al nipote del grande eroe, Gianni Tripodi, che ha consentito a Cristina Di Giorgi di “sfogliare l’album di famiglia” mettendola così nella condizione, grazie alle sue doti di ricercatrice storica e di narratrice, di scrivere una pagina importante della nostra storia.

Impossibile, poi, non fermarsi a riflettere, leggendo due delle tante lettere che mamma Cecilia inviò alle “autorità” aeronautiche per conoscere la verità sulla sorte toccata all’amato figlio.

Ecco un brano della lettera indirizzata al colonnello Aldo Remondino, sottocapo di S.M. dell’Aeronautica Militare:

«Non creda, Signor Colonnello, ch’io chieda giustizia. Avrei il diritto di farlo, come madre e come italiana. Ma le tristi leggi che vigono attualmente nel nostro sfortunato Paese assicurano l’impunità agli assassini e il chiedere giustizia è quindi vano. Ma oso sperare che non sia vano chiederLe di avere almeno una comunicazione ufficiale sulla fine di mio figlio, comunicazione che mi consenta di credere che chi è stato valoroso in guerra non teme in pace di assumersi la responsabilità dell’apertura di un’inchiesta su un delitto che, se pur mascherato con l’attributo di “politico”, non cessa d’essere un delitto».

In attesa di risposta, ecco un brano di una seconda lettera inviata da Cecilia Visconti al generale Fernando Raffaelli, capo di S.M. dell’Aeronautica, poche settimane dopo, il 30 giugno 1955:

«So che la legge assicura l’impunità agli assassini di mio figlio, quindi so di non poter chiedere giustizia. Ma credo di avere almeno il diritto di chiedere che l’Arma alla quale Egli ha appartenuto mi dica come e perché è morto. Da oltre dieci anni, Signor Generale, io vado invece chiedendo invano, per iscritto e a voce, una comunicazione ufficiale della Sua morte. […]. Non so: tento di attribuire al mio comportamento l’indifferenza dimostrata dai Suoi predecessori, perché mi rifiuto di credere che nell’Arma per la quale mio figlio è vissuto ed è morto con tanti valorosi compagni, possa aver preso il sopravvento una degradante pusillanimità. La ringrazio, Signor Generale. E mi auguro che Lei riesca a farmi ancora credere nell’esistenza, tra gli aviatori sopravvissuti alla bufera della guerra, di sentimenti di umanità e di onore».

Il Generale non rispose personalmente, ma fece rispondere dal Capo della 3.a Divisione, colonnello pilota Mario Di Stefano. Nella lettera, datata 14 luglio 1955, si legge che «il Capitano Visconti è stato giustiziato dai partigiani nel cortile della caserma Vincenzo Monti di Milano il giorno 29/04/1945 (dalle informazioni fornite dal S.I.O.S.). Il Capitano Visconti è stato discriminato con il seguente giudizio: “1° categoria con sanzione disciplinare senza stabilirne l’entità perché deceduto”».

Ai posteri l’ardua sentenza. Per il momento, inviterei il lettore a leggere quanto riportato nella nota 394, con riferimento al lavoro di S. Laiolo e P. Schifano «Volando all’ala di Visconti», edizioni Saratosta. Nel loro libro si legge: «…quanto restava della cassa del 1° Gruppo caccia era contenuto in una valigetta che Visconti sembra abbia avuto con sé quando venne ucciso». Sembra.

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