Gli Stati Uniti vinceranno il confronto con la Cina? Sì, se seguiranno la lezione storica britannica (e di Nixon…). Di Fabio Bozzo

È palese che la parte centrale del XXI secolo sarà contraddistinta da una sorta di nuova Guerra Fredda, in cui i protagonisti saranno l’Occidente, ovviamente guidato dagli Stati Uniti d’America, e la Cina. Non sarà uno scontro per la vita o per la morte come fu il confronto con l’Unione Sovietica, in cui uno dei due combattenti per forza doveva scomparire. E probabilmente la sfida non degenererà in una guerra aperta come avvenne con il Terzo Reich hitleriano.

Questo perché oggi la Cina manca di un’ideologia assoluta, quasi una religione laica, come erano il nazismo ed il comunismo per i vecchi nemici della democrazia occidentale. Al contrario Pechino desidera prendere il comando del capitalismo mondiale, arricchirsi e dettare le regole del commercio internazionale. Tutte cose che collidono con una guerra aperta.

Ciò non significa, ovviamente, che la nuova Guerra Fredda non sarà dura e che non vedrà conflitti armati a livello regionale e piccole guerre per procura in posti sperduti, nei quali USA e Cina sosterranno i propri campioni locali. La Cina resta una dittatura (anche perché realisticamente impossibilitata ad una razionale democrazia). Questo di per sé la pone su di un piano psicologico e culturale a noi estraneo ed inevitabilmente ostile.

USA e Cina. La superpotenza consolidata e quella in pectore. Due giganti in cui forze e debolezze tendono a bilanciarsi sempre più, dopo un lungo periodo storico in cui la supremazia americana era assoluta. Due identità statali fortissime, in cui l’interesse nazionale ha la priorità su tutto ed in cui le rispettive leadership vengono da una scuola geopolitica di primordine, pur con notevoli differenze filosofiche (il che complica ancor di più la comprensione reciproca).

Oggi Pechino guida la seconda economia mondiale che, malgrado il notevole rallentamento, continua a crescere a ritmi sostenuti. Tuttavia manca di un sufficiente mercato interno per i suoi prodotti. Ciò appare paradossale in un Paese avente 1 miliardo e 386 milioni di abitanti, ma non lo è. Questo a causa della terribile sperequazione economica interna al gigante orientale, in cui 200/300 milioni di persone sono benestanti o persino molto ricche, ma dove il resto non è andato molto oltre il periodo maoista. Per tale ragione la Cina necessita di mercati stranieri in cui esportare. E poiché le esportazioni cinesi sono per lo più a bassa tecnologia (malgrado oggettivi passi avanti anche nell’alta tecnologia) come rendere più competitive le proprie merci? Convincendo il Governi dei Paesi “deboli”, per esempio africani, ad attuare accordi commerciali. Da qui nasce il primo contrasto con l’Occidente, che non ha certo il desiderio di vedere mezza Africa e mezzo Sudamerica diventare un protettorato di Pechino.

Alla guerra commerciale si aggiunge il desiderio espansionista territoriale cinese. Il Dragone non fa mistero di voler allargare la sua sovranità su tutto il Mar Cinese Meridionale, per accaparrarsi i giacimenti petroliferi là dislocati ed assurgere a potenza marittima (cosa che attualmente non è). Al tempo stesso il miglioramento dei rapporti con Taiwan non cancellano il sogno di Pechino di annettere quella che nella Città Proibita viene definita “provincia ribelle”. Altri desideri, meno realistici ma sempre presenti, sono l’acquisizione di parti dell’estremo oriente russo (la Siberia è per lo più spopolata e facilmente colonizzabile dalle masse cinesi) e la vassallizzazione di Birmania ed Asia Centrale. Con la prima Pechino acquisirebbe de facto uno sbocco sull’Oceano Indiano, con la seconda il controllo di enormi riserve petrolifere.

Un alleato naturale dei cinesi, sebbene privo di guida centralizzata, sarà l’islam. Pechino sa bene che la debolezza maggiore dell’Europa è l’immigrazione musulmana, che già ha reso interi quartieri di molte città europee luoghi di guerriglia. Inoltre l’endemica instabilità del mondo maomettano costringe gli USA a logoranti interventi per mantenere la situazione sotto controllo. Questo malgrado la Cina abbia al suo interno una discreta minoranza islamica e che la leadership di Pechino, erede di quella imperiale, mal sopporti questa presenza antropica, il cui modo di vedere il mondo è incompatibile con quello della civiltà dell’Impero di Mezzo. Pertanto è assai probabile che nei prossimi decenni la Cina terrà con l’islam una condotta simile a quella che il cardinale Richelieu adottò con i protestanti durante le guerre di religione europee: sostenere quelli stranieri per indebolire i nemici della Francia e convertire, espellere o massacrare quelli interni per aumentare la coesione nazionale francese. La storia, del resto, dimostra che i vari Governi cinesi succedutisi in duemila anni non hanno mai avuto problemi ad attuare eccidi di massa.

Di fronte a tutto questo gli USA non sono certo rimasti a guardare. Con Trump hanno iniziato a tutelare i propri produttori (i quali devono rispettare norme ambientali e diritti dei lavoratori come si fa in un Paese civile), ponendo così la Cina di fronte all’incubo della fine della sua concorrenza sleale a buon mercato. Inoltre negli ultimi decenni hanno perfezionato la loro alleanza di contenimento, che circonda la Cina di medie potenze (dal Giappone al Vietnam), aventi tutte per l’espansionismo cinese un atavico terrore ben più antico degli Stati Uniti stessi.

Questa alleanza ha tuttavia due punti deboli. Il primo è di natura commerciale, poiché le economie di tutte le Nazioni dell’Estremo Oriente dipendono moltissimo dagli scambi con la Cina. Non è detto perciò che in caso di necessità il fronte comune debba necessariamente restare compatto. La seconda debolezza è prettamente militare. I due Stati più esposti ad un potenziale confronto bellico con Pechino sono Taiwan e Vietnam. Entrambi possiedono forze armate di prim’ordine e molto motivate, ma che in uno scontro totale convenzionale contro la Cina sarebbero destinati alla sconfitta, pur dopo aver inflitto perdite agghiaccianti al Dragone giallo. A salvare la Nazione attaccata (difficilmente Pechino rischierebbe una doppia avventura) sarebbe solo l’intervento dell’alleanza. In ultima analisi l’intervento degli Stati Uniti, verso i quali i cinesi hanno un sano timore militare. Ma gli USA interverrebbero? Oggi sicuramente sì, tuttavia la volubilità delle democrazie è ben nota. Chi garantisce che un giorno alla Casa Bianca non subentri un novello Carter, per il quale il sostegno a medie Nazioni non democratiche (o non del tutto democratiche) sarà meno importante del blocco dell’imperialismo sinico? Da questo punto di vista la leadership della Città Proibita deve solo aspettare il momento giusto e tenersi pronta a dare un colpo nella direzione voluta, avendo solo cura di cogliere la stagione politica americana adatta.

Quale è dunque la chiave con cui gli USA possono castrare sul nascere eventuali avventurismi cinesi? In sostanza un allargamento delle alleanze, nello spirito di quello che fu il balance of power britannico. Dal 1700 al 1945 la Gran Bretagna costruì e conservò la sua leadership, divenendo a tutti gli effetti la prima superpotenza mondiale. La vicinanza dell’Inghilterra all’Europa fece sì che le minacce maggiori arrivassero sempre da quella direzione. Pertanto Londra fu abilissima ad impedire che sul continente si affermasse una singola potenza egemone, la quale dopo il dominio sull’Europa avrebbe inevitabilmente rivolto il suo sguardo alla Gran Bretagna. Gli inglesi quindi ricorrentemente si allearono alla seconda Nazione continentale più forte e con questa combatterono la prima, onde bloccarne l’espansione. In tal modo i britannici prima sconfissero la Spagna, poi la Francia ed infine la Germania. Con la Seconda Guerra Mondiale lo scettro di superpotenza occidentale è passato agli Stati Uniti, niente di meno che una Nazione sorella del Regno Unito. Questo ha reso la decadenza inglese più dolce e ne ha mantenuta intatta la sicurezza internazionale.

Con la Guerra Fredda gli USA si sono trovati di fronte al gigante sovietico, in cui il nazionalismo russo si miscelava all’ideologia comunista. Nei primi anni ’70 del Novecento, con il trauma vietnamita in fase di conclusione, era chiaro che il blocco marxista avrebbe avuto per qualche anno gioco facile ad espandersi nel Terzo Mondo. Il popolo americano per un po’ non avrebbe voluto sentir parlare di interventi all’estero e gli eserciti europei erano poca cosa. In breve la Guerra Fredda rischiava di prendere una brutta piega. Tuttavia, per fortuna del mondo libero, in quel momento alla Casa Bianca sedeva Richard Nixon. Nixon, buon conoscitore della Storia, bilanciò l’espansione militare e geopolitica sovietica con l’apertura alla Cina. Russia e Cina, detto in breve, si sono sempre odiate. La comune fede comunista garantì dieci anni di alleanza, ma le radici profonde etno-imperiali riemersero presto. Cogliendo la palla al balzo Nixon si alleò informalmente con Pechino in funzione anti sovietica. Questo pose l’URSS in una situazione impossibile: qualunque confronto militare contro la NATO avrebbe fatto nascere un secondo fronte contro Pechino e, al tempo stesso, un’eventuale guerra contro la Cina l’avrebbe costretta a sguarnire l’Europa Orientale. L’unica opzione rimasta ai sovietici era un attacco nucleare contro i suoi nemici, ma questa era una “non opzione”, poiché probabilmente avrebbe significato la fine del mondo. E al Cremlino, ieri come oggi, hanno sempre seduto leader spietati, ma anche intelligenti. Pertanto Nixon, con un magistrale colpo diplomatico di scuola britannica, aveva per metà vinto la Guerra Fredda. Reagan avrebbe completato l’opera.

Oggi lo scenario è cambiato. La Russia è decaduta a media potenza, pur conservando una capacità militare di tutto rispetto. Di fronte agli Stati Uniti non vi è più il comunismo sovietico, ma il neo imperialismo confuciano e statalista cinese. Abbiamo visto quali sono i punti deboli della pur corretta strategia americana contro Pechino. Se Washington vuole bloccare definitivamente le velleità mondiali del suo avversario dovrà attuare una riedizione della politica britannica del balance of power, con tanto di machiavellismo diplomatico in stile Nixon.

E gli USA dove dovranno rivolgere lo sguardo? Verso la Russia e verso l’India. Mosca mantiene più che mai il secolare odio/timore verso la Cina, al punto che i fin troppi screzi con l’Occidente potranno essere accomodati, in cambio ovviamente di una sicurezza comune contro il Dragone giallo. Al tempo stesso l’India ha incandescenti questioni di confine con la Cina e teme non poco il suo espansionismo soft verso la Birmania e l’amicizia sino-pakistana (ricordate il suddetto rapporto Cina-islam?). Pertanto, se gli Stati Uniti intensificheranno le loro relazioni con Nuova Delhi, anche a costo di perdere la cosiddetta amicizia col Pakistan (Paese prima o poi destinato al collasso), l’alleanza con l’India sarà quasi certa. Questo incastrerebbe per lungo tempo la Cina dentro i suoi confini (che comunque non sono piccoli!) e metterebbe in sicurezza tanto l’Occidente quanto i suoi alleati: anche a Pechino la leadership è tutt’altro che sciocca, pertanto mai oserebbe un’avventura avendo di fronte un’alleanza enormemente più forte di lei.

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