L’invasione cinese del Tibet, di Alberto Rosselli.

L’INVASIONE CINESE DEL TIBET

di Alberto Rosselli

Dopo la parentesi della Seconda Guerra Mondiale e la fine della  Guerra Civile cinese, il nuovo governo comunista di Pechino iniziò a palesare evidenti mire espansionistiche in direzione del Tibet, stato teocratico che per molti secoli aveva goduto di una quasi totale autonomia. Nell’ottobre del 1949, in occasione delle manifestazioni per la vittoria sulle forze nazionaliste di Chang Khai Shek, Mao Tze Tung pronunciò a Pechino un lungo discorso affermando tra l’altro  che il Tibet, in quanto parte integrante della Cina, sarebbe stato ben presto inglobato nella grande nazione comunista e “sottratto una volta per tutte allo sfruttamento da parte dei monaci e alle mire delle nazioni imperialiste”. A Lhasa le affermazioni del leader marxista non suscitarono eccessivo stupore  in quanto sia il giovanissimo Tensing Gyatso (che il 22 febbraio 1940 era stato nominato 14° Dalai Lama) sia i bonzi avevano già avuto sentore delle mire della nuova classe dirigente cinese.

Non potendo trovare appoggi diretti né dalla Gran Bretagna, ormai esclusa dal continente indiano né dall’India il cui primo ministro Nehru tutto aveva in mente tranne che guastare i rapporti con la Repubblica Popolare Cinese e la neonata ONU, il governo di Lhasa dovette, suo malgrado, prepararsi ad un imminente attacco cinese che, infatti, non tardò a verificarsi. Il 7 ottobre 1950, circa 40/45.000 soldati cinesi agli ordini del Commissario politico Wang Qiemi attaccarono da otto direzioni la città orientale di Chamdo, travolgendo il piccolo esercito tibetano, composto da appena 7.000 tra soldati autoctoni e volontari nepalesi e buthanesi, molto male armati ed equipaggiati (1). Due giorni più tardi Chamdo fu conquistata e il Kalon (ministro) Ngapo Ngawang Jigme, governatore regionale, venne catturato dai cinesi. Successivamente, le truppe comuniste occuparono con facilità tutti gli altri principali centri tibetani, tra cui Ruthok, Gartok, Gyangtse e Shigatse. Negli scontri oltre 4.000 tibetani caddero sul campo, mentre i cinesi ebbero circa un migliaio tra morti e feriti. Ai primi di novembre, sotto l’incalzare degli eventi, i capi religiosi e politici dello stato himalayano conferirono, nonostante la sua tenera età,  pieni poteri al Dalai Lama.

Nell’arduo tentativo di trovare un accordo con l’occupante, nel 1954 il Dalai Lama compì una lunga visita di cortesia a Pechino dove ebbe diversi incontri con Mao Tsetung e Ciu En Lai. Ma nonostante le assicurazioni ricevute, al suo rientro in patria il Dalai Lama trovò in Tibet una situazione estremamente deteriorata. Alle innumerevoli angherie e violenze compiute dai cinesi ai danni della popolazione e dei monasteri, i tibetani risposero dando vita a un vasto movimento di resistenza attivo in pratica in tutta la parte nord-orientale del Paese. Il Gushi Gangdruk, letteralmente “Quattro fiumi e sei catene di montagne”, che in seguito, come vedremo, verrà spalleggiato dagli Stati Uniti (2). Secondo stime attendibili alla fine del 1957 circa 10.000 guerriglieri risultavano in armi. Ma  la disparità delle forze in campo non lasciava alcuna possibilità di successo al movimento di resistenza. I cinesi infatti potevano contare su di un esercito modernamente armato ed equipaggiato, forte di ben 14 divisioni per un totale di oltre 140.000 uomini, appoggiati da almeno 10.000 autoveicoli, 500 tra mezzi corazzati e blindati, mille tra cannoni e mortai e circa 250 aerei di tutti i tipi (3).

Durante tutto il 1957 e il 1958 alle incursione dei guerriglieri l’esercito cino-comunista rispose colpendo indiscriminatamente la popolazione civile, bombardando villaggi, distruggendo monasteri e passando per le armi tutti coloro che, a torto o a ragione, erano accusati di aver aiutato i partigiani. Ad ogni azione dei guerriglieri seguivano immancabilmente sanguinose rappresaglie. Dalle regioni dell’Amdo e del Kham, sconvolte dalla repressione, cominciarono ad affluire nelle province centrali di U-Tsang lunghe colonne di profughi e gruppi di ribelli in ritirata. Contestualmente, i cinesi aumentarono a dismisura le pressioni psicologiche nei confronti del Dalai Lama che vide di giorno in giorno restringersi il suo già limitato e residuo potere. Tanto è vero che alla fine egli s ritrovò nelle condizioni di non potere più governare neppure formalmente il suo paese ormai saldamente nelle mani dei generali dell’Armata Rossa. All’inizio del marzo 1959 mentre nella capitale tibetana si celebrava il Monlam Chenmo, la festa della Grande Preghiera, il Dalai Lama venne invitato (o meglio, fu costretto) dal Comando cinese a partecipare  da solo e senza alcuna scorta ad uno spettacolo che si sarebbe svolto presso il quartiere generale. Nonostante il parere negativo dei suoi ministri, il Dalai Lama accettò di recarsi al quartiere generale comunista convinto che un suo rifiuto avrebbe potuto irritare i cinesi. Tuttavia, quando gli abitanti di Lasha vennero a sapere della cosa decisero di intervenire, anche perché temevano che i cinesi volessero rapire il loro sovrano. Non a caso, diversi pastori riferirono di avere osservato presso il piccolo aeroporto di Damshung, situato circa 100 chilometri dalla capitale, tre aerei da trasporto cinesi pronti a decollare. Insomma, tutta la popolazione della capitale, ingrossata dai profughi delle regioni nord-orientali e dai pellegrini convenuti per le celebrazioni del Monlam, si dichiarò disposta a sacrificare la propria vita pur di impedire ai cinesi di sequestrare il Dalai Lama. E fu così che una gran folla chiese al Dalai Lama di chiedendogli di ripudiare il Trattato di Pace con la Cina (chiamato anche Trattato dei Diciassette Punti) che di fatto aveva trasformato il Tibet in una colonia cinese. La grande manifestazione spontanea fece infuriare i cinesi che ordinarono al Dalai Lama di sciogliere il governo e di consegnarsi spontaneamente. Tenzin Gyatso si venne così a trovare in una situazione molto delicata. Da un lato sapeva bene che i timori del suo popolo erano più che fondati e dall’altro si rendeva perfettamente conto che nulla egli avrebbero potuto contro il potente esercito cino-comunista che controllava ormai saldamente l’intero paese. Egli decise quindi di fuggire sperando in questo modo di calmare le acque per poi riprendere la strada del dialogo con Pechino. La notte tra il 17 e il 18 marzo il Dalai Lama e un piccolo gruppo di persone tra cui  i suoi famigliari e alcuni ministri fuggì dal Palazzo d’Estate per cercare rifugio nelle zone meridionali del Tibet ancora non del tutto controllate dai cinesi. Improvvisamente, la notte ma improvvisamente, tra il 19 e il 20 marzo, le forze maoiste scagliarono contro la capitale un’intera divisione. Le artiglierie ridussero in macerie parte del grande palazzo di Potala e moltissime abitazioni civili, facendo centinaia di morti. Il proditorio attacco alla capitale innescò però una feroce quanto disperata rivolta. Armati di bastoni, vanghe, asce e  coltelli, la popolazione di Lasha cercò di contrastare il passo alle fanterie cinesi che, nel corso di una lunga e sanguinosa battaglia, massacrarono migliaia di tibetani, non risparmiando nemmeno i feriti e i civili inermi. Ristabilito con la forza l’ordine, Mao Tze Tung sciolse definitivamente il governo tibetano, ritirando tutte le clausole relative all’autonomia della regione riconosciute (solo sulla carta) dal Trattato dei Diciassette Punti. Nel frattempo, il Dalai Lama, che era riuscito a raggiungere Lhuntse Dzong, una località vicina al confine indiano, fu costretto, per sfuggire alla cattura, a riparare in India dove giunse il 31 marzo dopo una marcia di due settimane. Il governo di Nuova Delhi concesse asilo politico al Dalai Lama che da questo paese iniziò a lanciare, ma  senza risultati, ripetuti appelli in soccorso del suo popolo. Durante la sua permanenza in India, Pechino poté portare a termine una durissima repressione nei confronti del popolo e dei resistenti tibetani rifugiatisi nelle montagne. E successivamente, il 5 aprile 1959, il Tibet venne smembrato e le sole regioni centrali di U-Tsang andarono a formare la Regione Autonoma Tibetana (creata ufficialmente nel 1965), dal momento che il Kham e l’Amdo divennero parte integrante delle province cinesi del Chingai, dello Sichuan, del Gansu e dello Yunnan. Per il Paese delle Nevi si apriva la cupa stagione dell’integrazione comunista.

FINE

NOTE:

 

(1) L’Esercito tibetano, oltre ad essere totalmente privo di appoggio aereo e di mezzi blindati e a motore, risultava armato ed equipaggiato in maniera del tutto inadeguata. La truppa era equipaggiata con fucili di fabbricazione britannica Lee-Metford, SMLE Lee-Enfield, Mk1 n.4 e Lee-Enfield n.1 Mark III e Ross e con mitragliatrici leggere Lewis e, pesanti, Vickers da 7,7 millimetri. Oltre a ciò disponeva di un modesto quantitativo di munizioni e  di bombe a mano. Per quanto concerne le armi da accompagnamento, i reparti disponevano di non molti e comunque obsoleti cannoni da campagna e howitzer risalenti alla Guerra Boera e al Primo Conflitto Mondiale da 18 libbre e 4,5 pollici e qualche arma a ripetizione da 37 millimetri.

 

(2) Quando nel 1959, alcune migliaia di tibetani tentarono di ribellarsi alle forze di occupazione cinesi,  il Dipartimento della Difesa statunitense e la CIA decisero di dare il via ad un’operazione destinata – nelle speranze di Washington – a minare il predominio comunista nel Paese delle Nevi. Agli inizi del 1963, un gruppo di ufficiali dell’Esercito e dell’Aviazione USA furono inviati – grazie alla connivenza del governo di Nuova Delhi – in India settentrionale con il compito di addestrare e trasformare in guerriglieri anti comunisti alcune centinaia di tibetani che erano riusciti a fuggire dal loro Paese. Nell’aprile del 1963, presso due basi segrete situate a Dibrugarh e Darijeeling, sull’alto corso del Brahmaputra, le prime 40 reclute tibetane terminarono il primo periodo di training, venendo raggiunte pochi mesi più tardi da un secondo ben più consistente scaglione di loro compatrioti, già addestrati in nelle basi americane di Okinawa e  Guam e in quella di  Cam Hale, sulle Montagne Rocciose. Secondo documenti della CIA resi noti soltanto nel 1968, complessivamente furono circa 2.000  volontari tibetani ad aderire spontaneamente e con entusiasmo all’operazione organizzata dagli americani che, nella pratica, si sarebbe dovuta concretizzare con il loro trasferimento, a bordo di bimotori Douglas DC3 e  Fairchild C-82 Packet nella regione occupata dalle forze comuniste (gli uomini sarebbero stati paracadutati in alcune aree strategiche per effettuare operazioni di sabotaggio). Questi volontari, molti dei quali appartenevano alla tribù guerriera dei Khamba, conclusero abbastanza rapidamente il loro ciclo di preparazione bellica, dopodiché furono posti agli ordini di ufficiali americani. Secondo i resoconti dei sopravvissuti (in parte successivamente emigrati negli Stati Uniti o finiti a lavorare come operai nelle fabbriche di tappeti di Katmandu o nei cantieri stradali del Nepal occidentale), tra il 1964 e il 1968, circa 500 guerriglieri vennero paracadutati in territorio tibetano, dove per alcuni mesi effettuarono sabotaggi a infrastrutture militari e colpi di mano contro caserme e insediamenti dell’esercito maoista: operazioni che costarono ai cinesi un centinaio di morti e ai tibetani circa 50 (altri 45 guerriglieri furono catturati ed assassinati dai cinesi con un colpo di pistola alla nuca).. “Il motivo del fallimento dell’impresa – raccontò in seguito il tenente Nawang che, dopo essere riuscito miracolosamente a scampare alla cattura, aveva guadagnato a piedi il confine indiano, divenendo poi un agente dei Servizi segreti di Nuova Delhi – stette nel fatto che non fummo mai preparati a fronteggiare un nemico – i cinesi – infinitamente meglio armato ed equipaggiato”. Opinione condivisa anche da Victor Marchetti, un alto funzionario della CIA:”I Khamba, ottimi e coraggiosi combattenti, erano stati bene preparati all’utilizzo di esplosivi e  armi della Seconda Guerra Mondiale (mitragliatrici leggere Browning M1919, mitragliatori Thompson, carabine M1, fucili Springfield M1903, bombe a mano) ma nulla poterono contro l’elevato grado di preparazione del nemico e i suoi  potenti e sofisticati mezzi terrestri e aerei”. Per la cronaca, tutte le operazioni compiute dai guerriglieri tibetani in territorio patrio vennero sempre tenute nascoste dalla CIA, sia sotto l’amministrazione Eisenhower che sotto quella Kennedy e Johnson.

 

(3) Più dettagliatamente, il Corpo di Spedizione cinese in Tibet era equipaggiato con fucili di fabbricazione cinese Shiki 24 e 26/30 e Mauser tedeschi, fucili preda bellica giapponese Arisaka 38, calibro 6,5, mitra americani Thompson 45 da 11,4 mm. e carabine Winchester da 7,62 precedentemente catturati alle forze nazionaliste, e fucili mitragliatori nipponici Nambu 11 da 6,5 mm. Per quanto concerneva l’armamento di reparto, le forze comuniste erano dotate di mitragliatrici russe Maxim da 7,7 e Nambu 92 (preda bellica giapponese) da 7,7, e americane Brownnig calibro 7,7 e 12,7 (preda bellica nazionalista). I battaglioni e i reggimenti di fanteria e da montagna cinesi disponevano di lanciarazzi multipli Katyusha e pezzi anticarro ex sovietici da 45 mm., obici e cannoni, anch’essi russi, da 75, 105 e 152 millimetri e mortai da 50 e 81. I reparti corazzati potevano contare poi di semicingolati blindati, e carri armati leggeri e medi di fabbricazione nipponica modello 2595 Kyugo da 9 tonnellate, armati con un pezzo da 37 mm.; carri sovietici pesanti T34 (dotati di un pezzo da 75 o 85 mm.) e leggeri BT5,  BT7, T60 e T70 (dotati di un pezzo da 45 mm.) e vecchie ma ancora efficienti autoblindo (sempre russe) BA 10, armate anch’esse con un pezzo da 45. Più un notevole quantitativo di autoveicoli e diverse migliaia di quadrupedi .

 

 

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