LA NASCITA E LA CADUTA DELL’IMPERO OTTOMANO, di Alberto Rosselli

L'Impero Ottomano nel 1914

LA NASCITA E LA CADUTA DELL’IMPERO  OTTOMANO

 

di Alberto Rosselli

La storia dell’impero ottomano è stata lunga, gloriosa e densa di avvenimenti che hanno coinvolto e segnato, direttamente o indirettamente, lo sviluppo sia dell’Europa che quello di altre vaste regioni del Nord Africa e del Medio Oriente. Per molti secoli, a partire dal 1300, l’impero ottomano ha infatti rappresentato un grande ed importante organismo politico, etnico, religioso e militare.

All’origine di questa complessa e possente struttura imperiale furono le numerose migrazioni dei popoli provenienti dall’Asia centrale. Da questo immenso territorio, tra il IV e il V secolo, gli Unni investirono direttamente le steppe russe e l’Europa centrale, portando altre popolazioni ad essi linguisticamente affini ad esercitare nelle epoche successive un’analoga e costante pressione in direzione della Russia meridionale e dell’Anatolia dove, verso la metà dell’XI secolo, i turchi selgiuchidi si insediarono saldamente, sconfiggendo gli eserciti bizantini a Mantzikert (1071), e determinando l’inizio del declino di questa civiltà. Ridotta Bisanzio ad un piccolo regno aggrappato alle sponde del Bosforo, gli oghuz o turcomanni, convertitisi nel frattempo all’islam, consolidarono la loro presenza su quasi tutta l’Anatolia e il Medio Oriente, allargando i loro orizzonti espansionistici anche oltre i confini occidentali dell’ex impero romano d’Oriente.

Quando nel XIII secolo le armate mongole provenienti dal cuore dell’Asia incominciarono a spostarsi velocemente verso occidente, investendo i territori compresi tra la Russiae l’altopiano iraniano, l’Anatolia turca si frantumò in numerosi principati, tra i quali emerse quello retto da Osman che, dopo avere conquistato nel 1326 il ricco centro commerciale di Bursa, fece di quest’ultima località la prima capitale di uno stato che da lui assunse la denominazione di ottomano, dando origine ad una dinastia che nell’arco di cinque secoli porterà sul trono 36 sovrani. I figli di Osman I, Orkhan e ‘Ala ud-Din getteranno le basi per l’espansione territoriale del neonato regno, avviando una saggia politica di alleanze – stipulate anche attraverso matrimoni diplomatici – con le fazioni bizantine in lotta tra di loro, e combattendo in Anatolia i principati islamici rivali.

Una grande spinta all’espansione imperiale in direzione del continente europeo la diede Suleyman, figlio di Orkhan che riuscì ad accerchiare ciò che rimaneva del minuto e traballante impero bizantino. Dopo avere conquistato Edirne, nel 1361, e dopo avere travolto la resistenza slava e serba a Cirmen, sulla Maritsa (1371), e a Kosovo Polie (1389) – dove i turchi massacrarono il fior fiore della nobiltà e dell’esercito serbi – gli ottomani rafforzarono definitivamente la loro potestà d’imperio su gran parte della regione balcanica. Nel 1393 conquistarono il regno di Bulgaria, arrivando a minacciare l’Ungheria. Il re ungherese Sigismondo di Lussemburgo tentò di fermarli ma fu sconfitto nella battaglia di Nicopoli nel 1396. L’avanzata degli ottomani fu bloccata dall’emergere del grande condottiero Tamerlano, che nel 1402 li sconfisse pesantemente ad Ankara, prendendo prigioniero lo stesso sultano Bayazid II Yildirim (la folgore). Alla morte del sovrano turco-mongolo tuttavia il suo impero si sfasciò e gli ottomani poterono risorgere dopo un lungo periodo definito di “interregno” e riprendere la loro avanzata sotto la guida del sultano Murad II che, nel 1444, a Varna sconfisse un’armata composta da serbi, polacchi e ungheresi. Nel 1453 sotto il sultano Mehmet II (Maometto II), detto poi Fatih (il Conquistatore), l’impero ottomano occupò Costantinopoli, facendo cadere definitivamente l’impero romano d’Oriente. Dopo questa conquista, Costantinopoli cambiò nome in Istanbul e divenne la nuova capitale (la chiesa ortodossa di Santa Sofia venne trasformata in una moschea). In seguito gli ottomani espansero i loro domini annettendo diverse regioni dell’Asia, del Nord Africa e dei Balcani. Guidati da grandi sultani, come Selim I – che abbatté il sultanato mamelucco di Siria ed Egitto e conquistò tutti i paesi arabi del Vicino Oriente – e come Solimano il Magnifico, gli ottomani entrarono in contrasto con i regni europei per il predominio sul Mediterraneo. Nel 1521, essi occuparono Belgrado e nel1526, a Mohàcs, sconfissero il re d’Ungheria e Boemia Luigi II Jagellone, che morì in combattimento. Nel 1529, gli ottomani assediarono anche Vienna, che però resistette. Nel 1570, sotto il sultano Selim II, i turchi conquistarono il possedimento veneziano di Cipro, mettendo in allarme l’intera Europa cristiana. Nel1571, a Lepanto, una grande flotta composta da unità veneziane al comando del futuro doge Sebastiano Venier e da una moltitudine di galee e galeazze appartenenti alla flotta imperiale spagnola di don Giovanni d’Austria, a quella della Repubblica di Genova (al comando di Andrea Doria) e a quelle dell’Ordine dei Cavalieri di Rodi e dello Stato Pontificio (in omaggio alla Chiesa, comandante onorario supremo della variegata Armata cristiana fu fatto Marcantonio Colonna), inflisse una dura sconfitta agli ottomani, bloccandone momentaneamente le mire espansionistiche.

Verso la metà del XVII secolo, tuttavia, i turchi ripresero a marciare verso ovest, estendendo la loro influenza sull’intera regione balcanica. Nel 1683, essi tentarono addirittura di piegare l’impero asburgico, lanciando una nuova offensiva in direzione di Vienna sotto le cui mura furono però sconfitti. Con questa battuta d’arresto, e in concomitanza con il progressivo rafforzamento delle potenze europee, ebbe inizio il lento ma inesorabile processo di indebolimento politico, diplomatico, militare ed economico dell’impero ottomano: decadenza che, nell’arco di neanche due secoli, avrebbe trasformato il “terrore della Cristianità” in un organismo sempre più fragile e alla mercé dell’Europa delle Grandi Nazioni. Tra il XVIII e il XIX secolo, l’impero Russo conquistò (come vedremo) ampi territori turchi affacciati sul Mar Nero e ubicati nell’area del Caucaso. E nel 1821, l’impero ottomano dovette affrontare la rivolta del popolo greco che fu appoggiata da quasi tutte le nazioni europee e, nel 1829, con la pace di Adrianopoli,la Sacra Portafu costretta a sgomberare la penisola ellenica, riconoscendo l’indipendenza dello stato greco. Tra il 1830 e il 1881, la Francia strappò l’Algeria ela Tunisiaalla Turchia e, nel 1878 e nel 1882,la Gran Bretagnaoccupò Cipro e l’Egitto.

Ma fula Russia, tradizionale nemica della Turchia, ad assestare a Costantinopoli i colpi più duri e significativi. Tra la seconda metà del XVIII secolo e il chiudersi di quello successivo, gli zar ingaggiarono più di una guerra con gli ottomani per la supremazia sulle regioni caucasiche e per il predominio sul Mar Nero. Un tentativo russo d’espansione nella penisola balcanica ai danni della Turchia (guerra russo-turca del 1876-77) si concluse con il trattato di Santo Stefano (1878) che sottrasse alla Sacra Portala Bessarabiameridionale. Tuttavia, l’atteggiamento sempre più aggressivo degli zar e le loro eccessive richieste di compensi territoriali ai danni della Turchia finirono per indurre la Francia e soprattutto l’Inghilterra a sposare una nuova politica decisamente più amichevole nei confronti della Sacra Porta. Verso la metà del XIX secolo, infatti, sia Londra sia Parigi scesero in campo a fianco dell’impero ottomano, dichiarando guerra alla Russia (Guerra di Crimea, 1854-1856). Ma a ben vedere, nonostante queste prese di posizione, la protezione concessa dall’Inghilterra agli ormai deboli sultani turchi traeva le sue vere origini non certo da generosità, ma da precisi calcoli politici. Verso la metà del XIX secolo, Inghilterra e Francia andarono in soccorso della Turchia soprattutto per cercare di inibire le velleità espansionistiche della Russia, divenuta ormai una realtà politica e militare troppo pericolosa. Ne conseguì che nella seconda metà dell’Ottocento le due potenze occidentali cercarono di limitare lo smembramento definitivo dell’impero ottomano, pur non rinunciando, come si è visto, ad acquisire a proprio vantaggio territori e concessioni strappate ai turchi proprio in cambio di un’interessata ed ambigua alleanza in funzione antirussa. Un atteggiamento – quest’ultimo – che contribuì ad accelerare ulteriormente lo sfacelo di un organismo ormai incapace di esercitare nell’arena internazionale una propria autonoma e dignitosa funzione.

All’inizio del Novecento, la Turchia – che lo zar Nicola I aveva battezzato sarcasticamente il Grande Malato d’Europa – si era ridotta a svolgere un ruolo politico e diplomatico di profilo molto basso, subordinato di fatto alle intese e alle strategie politiche, economiche e militari delle principali potenze occidentali. Relegato il governo di Costantinopoli ad una condizione di perenne sudditanza, le grandi nazioni europee cominciarono a spostare apertamene le loro mire espansionistiche verso il Mediterraneo e il Medio Oriente ottomano: area, quest’ultima, ritornata strategica in seguito all’apertura, avvenuta nel 1869, del Canale di Suez. La particolare situazione interna della regione, abitata da minoranze etniche e religiose abbastanza irrequiete, suggeriva agli statisti europei manovre molto spregiudicate, ma nel contempo poneva loro preoccupanti interrogativi.

Il vuoto di potere che si sarebbe inevitabilmente verificato in seguito ad un eventuale e definitivo crollo dell’apparato amministrativo e militare turco in Medio Oriente, inquietava non poco i diplomatici occidentali, in gara tra di loro per spartirsi il ricco bottino. L’Inghilterra, ad esempio, temeva che possibili disordini in Palestina potessero compromettere la sicurezza del Canale di Suez e quella delle sue linee di collegamento con l’India. Mentre la Francia, che nutriva esplicite ambizioni sulla Siria e sul Libano, paventava l’intrusione in Terra Santa di pericolosi antagonisti come Germania e Russia. La corte di San Pietroburgo, dal canto suo, sperava invece in un rapido tracollo turco per raggiungere l’area degli Stretti e i tanto agognati “mari caldi”. Il kaiser ambiva ad aprire alla potente industria tedesca i mercati orientali, minacciando nello stesso tempo l’egemonia britannica in Egitto, Persia e India. L’Austria, infine, non aspettava altro che l’impero turco si indebolisse ulteriormente per espandersi nei Balcani e per assoggettare l’Albania.

Tutte le potenze avevano quindi buone ragioni per tenere sotto stretto controllo il “malato d’Europa”. Consci del pericolo di un’imminente disgregazione politica e nazionale, verso la fine dell’Ottocento alcuni intellettuali turchi iniziarono a teorizzare e a reclamare una radicale modernizzazione strutturale e funzionale dell’impero. Innescare un rapido processo di occidentalizzazione degli apparati burocratici ed istituzionali dello Stato sembrava infatti l’unica alternativa possibile alla frantumazione territoriale o – peggio – alla colonizzazione dell’impero da parte di potenze europee.

Alla fine dell’Ottocento, con l’ascesa al potere dell’ultimo autocrate ottomano, Abdul Hamid II (1842-1918), la Turchia era in effetti piombata nel più totale caos politico ed economico. Davanti alla sfida del mondo moderno, gli ultimi sovrani della Sacra Porta si erano dimostrati ancora una volta incapaci di elaborare soluzioni atte a salvare l’impero dalla rovina. Secondo le correnti riformiste formatesi alla fine del XIX secolo, i principali obiettivi da raggiungere erano innanzitutto la creazione di un solido esecutivo sotto la guida del gran visir (il capo dei ministri del Sultano), l’introduzione di garanzie costituzionali di matrice liberale, la riforma della giustizia, la razionalizzazione del sistema fiscale ed economico e l’apertura di scuole pubbliche laiche, soprattutto tecniche. Si trattava in sostanza di un piano gigantesco ed estremamente impegnativo che, tuttavia, solo in minima parte poté essere realizzato a causa di svariati fattori.

L’impero ottomano mancava innanzitutto della necessaria coesione politica interna; non era in sostanza una nazione ma un insieme di popoli assai diversi gli uni dagli altri. La classe dirigente non faceva capo ad un medesimo gruppo etnico e culturale: molti suoi membri appartenevano a razze molto diverse ed antagoniste che, spesso, non avevano in comune neanche la lingua. Oltreal turco, gli idiomi più diffusi erano il curdo, l’armeno, il greco, l’arabo e i diversi dialetti balcanici, caucasici e mesopotamici. Questa antica differenziazione aveva fatto sì che i vari nuclei etnici e linguistici, gelosi delle proprie tradizioni, vivessero molto distaccati gli uni dagli altri. In uno stato teocratico come la Turchia, la religione avrebbe dovuto giocare un ruolo fondamentale nel processo di omogeneizzazione nazionale. Nondimeno, la massima autorità governativa turca – il sultano – che si sovrapponeva alla più importante carica religiosa imperiale, il califfo (diretto successore temporale e spirituale di Maometto) era accettata in maniera differente dalle varie correnti interne dell’islam. I sunniti, setta di maggioranza, riconoscevano la doppia natura politica e religiosa del sultano-califfo, mentre al contrario, gli sciiti ponevano pesanti riserve sulla duplice funzione del capo dello stato. Senza contare che un buon 25% della popolazione dell’impero ottomano professava una fede diversa da quella mussulmana. Sul territorio vivevano comunità greco-ortodosse, cattoliche romane, cattoliche armene, gregoriane armene, ebraiche, protestante, cristiano-maronite, cristiano-nestoriane, uniate siriane, monofisite, samaritane ed altre ancora.

Il fattore religioso tendeva quindi ad assumere un effetto politico negativo, favorendo la frammentazione e le ambizioni autonomistiche dei vari gruppi. Ciononostante, ancora alla fine dell’Ottocento, le alte cariche del governo continuavano ad ignorare o ad eludere questo ed altri problemi. I funzionari ragionavano come se molte delle province dell’impero – soltanto nominalmente assoggettate e controllate da Costantinopoli (come ad esempio la regione arabica dell’Asir o la costa nord-orientale araba) – fossero i tasselli di un organismo ancora omogeneo e compatto. Guarnigioni turche, è vero, erano presenti in tutte le province, ma spesso i governatori locali faticavano ad imporre un’effettiva autorità sul territorio. Fuori dalle grandi città gli amministratori non avevano alcun potere e vi erano distretti nei quali le tribù e le etnie locali non soltanto si rifiutavano di obbedire, ma addirittura imbracciavano le armi contro la burocrazia e l’esercito regolare. In quei distretti, come l’Armenia, le regioni caucasiche e quelle arabe bagnate dal Mar Rosso (l’Hegiaz e l’Asir) l’amministrazione risultava talmente debole e disorganizzata da non riuscire a riscuotere nemmeno i normali tributi. La riscossione delle tasse era un problema che interessava quasi tutto l’impero, tanto da costringere molto spesso il governo centrale a delegare a terzi questa fondamentale funzione. Per fare un esempio, nel 1914, il 95% delle imposte veniva raccolto da esattori privati.

All’inizio del XX secolo, anche in grandi città come Costantinopoli, il governo non era riuscito ad innescare quel processo di modernizzazione amministrativa, strutturale ed infrastrutturale che ai giovani dirigenti civili e militari imbevuti di idee e di concetti occidentali appariva indispensabile per la rinascita del paese. Le condizioni delle strade e delle costruzioni ad uso abitativo e pubblico erano pessime. Nella capitale l’illuminazione elettrica fu introdotta soltanto nel 1912, anno in cui, dopo secoli di inattività, venne avviato un primo progetto di rifacimento della rete fognaria e di bonifica dei malsani quartieri della città vecchia infestati da topi e cani randagi. Molte delle opere che – seppure tardivamente – furono progettate o approntate dovettero essere finanziate con capitali occidentali, soprattutto tedeschi. A questo proposito, si calcola che, dalla fine del XIX secolo allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, la Turchia abbia usufruito dell’equivalente di circa 63 milioni di sterline impiegati per l’avviamento di opere pubbliche e strade, per l’apertura di miniere, per l’incentivazione dell’agricoltura e della coltivazione della seta e per l’apertura di banche. Nel 1911, un gruppo industriale straniero ottenne l’appalto per l’installazione di un sistema telefonico a Costantinopoli e a Smirne ma risulta che nel 1914 fossero funzionanti soltanto poche centinaia di apparecchi.

Soprattutto nel settore delle grandi opere e dei trasporti la situazione appariva realmente disastrosa. A parte la realizzazione, avvenuta in tempi piuttosto rapidi, della lunga linea ferrata che collegava la capitale a Baghdad e a Medina (l’opera fu portata a termine grazie all’apporto di tecnici e capitali tedeschi), all’interno dell’impero non esistevano che pochi collegamenti di scarsa capacità. Nel 1901, anno dell’apertura dei cantieri della Costantinopoli-Baghdad, il sultano Abdul Hamid dichiarò con orgoglio di avere investito per la realizzazione di quest’opera sette milioni di sterline. Se si eccettuano queste realizzazioni, oggettivamente importanti, in campo ferroviario, rimaneva da riprogettare l’intero apparato stradale dell’impero, costituito da un intreccio disordinato di malconce piste in terra battuta, assolutamente inadatte per i moderni mezzi a motore, peraltro assai poco diffusi. A questo proposito sembra che nel 1914 le vetture a benzina circolanti in tutto il territorio imperiale fossero appena 187.

Nella convinzione – in realtà fondata – che soltanto una profonda ristrutturazione interna avrebbe potuto salvare la Turchia dal definitivo collasso, un gruppo di giovani ufficiali dell’esercito dalle idee innovatrici e liberali, deciderà di dare un volto nuovo a quello che alla fine del XIX secolo era ancora un piccolo movimento rivoluzionario: il Partito dei Giovani Turchi. Gli obiettivi che si posero tre dei principali leader del movimento – Mustafa Kemal (1881-1938), Enver Pascià (1881-1922) e Talaat Pascià (1874-1921) – erano molto ambiziosi e di difficile realizzazione, anche perché tra il 1876 e il 1909, cioè durante il regno di Abdul Hamid, la libera attività politica era considerata praticamente un reato. Nel 1878 il sultano, uomo dispotico e retrogrado, aveva abolito la costituzione concessa solo pochi anni prima e sciolto il parlamento dopo appena ventiquattro mesi di attività, costringendo tutti gli oppositori ad operare in regime di clandestinità.

Fu proprio in questo periodo che in Turchia iniziarono a proliferare le prime società segrete, analoghe a quella dei Giovani Turchi. Si trattava di raggruppamenti di intellettuali e militari che si ispiravano, almeno per i primi tempi, alle formazioni rivoluzionarie europee dell’Ottocento e, in particolare, alla Carboneria italiana. Se la polizia politica di Hamid riuscì quasi subito a scoprire e ad annientare le associazioni attive nella capitale, essa non poté invece neutralizzare quei nuclei che avevano le loro sedi segrete a Salonicco, la città più “europea” dell’impero. E nella località greca i rappresentanti delle più importanti organizzazioni non si erano lasciati sfuggire l’occasione di allacciare buoni rapporti con gli ufficiali “modernisti” appartenenti alla Terza Armata ottomana, il cui comando si trovava appunto a Salonicco. Tra questi vi era Ahmed Jemal Pascià (1872-1922) che successivamente avrebbe svolto un ruolo di primo piano nelle vicende belliche turche del primo conflitto mondiale, ed Enver Pascià che, alla fine del conflitto, si sarebbe recato in Asia Centrale per mettersi a capo del movimento ribelle “panturanista”, venendo poi ucciso dai bolscevichi

All’inizio del nuovo secolo, a Salonicco, Talaat Pascià, già ministro degli Interni, aveva fondato il CUP (Comitato per l’Unione e il Progresso), un organismo che in seguito avrebbe costituito il nucleo fondamentale del Partito dei Giovani Turchi. Il CUP, che poteva fare conto su un’organizzazione ed una struttura interni piuttosto solide, praticava rituali di cooptazione molto simili a quelli di una vera e propria setta segreta. La procedura di affiliazione alla società fondata da Talaat contemplava infatti un pittoresco cerimoniale che culminava con un giuramento solenne sul Corano e su un’arma da fuoco.

Il terzo personaggio chiave del Partito dei Giovani Turchi, Mustafa Kemal, si formò anch’egli nell’ambiente più consono, cioè nell’esercito (ai primi del Novecento, le forze armate rappresentavano una delle poche istituzioni efficienti dell’impero). Kemal ebbe modo di scalare abbastanza velocemente tutti i gradini della gerarchia militare e politica, approfondendo nel contempo i suoi studi. Ammesso nel 1897 alla Scuola Cadetti di Monastir e passato, due anni dopo, alla Scuola di Guerra di Harbiye (Costantinopoli), Kemal “il Perfetto” (appellativo che si era guadagnato da ragazzo per le sue doti di eccellente e carismatico studente) assorbì molto rapidamente le nuove idee diffuse in Turchia dagli ufficiali ottomani che avevano avuto modo di frequentare le accademie militari straniere, soprattutto quelle tedesche e francesi. Nel 1904, completata la sua formazione militare alla Scuola di Harbiye, Kemal ottenne il grado di capitano.

Nel 1905, proprio a causa delle sue idee liberali, il suo nome fu iscritto nel libro nero della polizia segreta del sultano Abdul Hamid. Sospettato di idee rivoluzionarie, Kemal fu quindi trasferito per punizione a Damasco dove tuttavia riuscì ad entrare in contatto con altri piccoli gruppi sovversivi e con i capi della neonata organizzazione clandestina che si batteva per l’indipendenza nazionale araba. Preoccupato di dare alla Turchia, entro tempi molto brevi, un assetto moderno e unitario e di scongiurare lo spettro della disgregazione, Mustafa Kemal, che era progressista ma anche un fervente patriota, prese le distanze dalle organizzazioni separatiste e anti-turche e nel 1905, aDamasco, fondò il movimento segreto nazionalista chiamato Vatan ve Hürriyet (Patria e Libertà). E sempre nel 1907, egli riuscì a rientrare in Macedonia per unirsi agli uomini del Comitato Unione e Progresso che stavano progettando un colpo di stato contro il Sultano. Nonostante il suo ascendente e il suo naturale acume politico, Kemal non raggiunse, tuttavia, i più alti gradi della gerarchia del Comitato, forse a causa della sua riluttanza nel rispettare i rituali segreti e quasi mistici di questa organizzazione. Quando nel 1908 scoppiò la violenta e riuscita sommossa contro il Sultano, Mustafa Kemal, che non aveva ancora responsabilità politiche di primo piano all’interno del partito dei Giovani Turchi, si limitò a svolgere un ruolo puramente militare in difesa del nuovo regime contro i tentativi di restaurazione orditi da Abdul Hamid.

Dopo il 1909, con la deposizione di Hamid, la figura del sultano fu drasticamente ridimensionata e l’impero ottomano poté imboccare la via di un processo di occidentalizzazione. Negli anni che precedettero lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Mustafa Kemal rimase abbastanza distante dalla politica, occupandosi soprattutto dell’ammodernamento dell’esercito. In quel periodo strinse rapporti di amicizia con i capi del comando militare tedesco e favorì l’arrivo in Turchia di consiglieri militari di Berlino. Questa scelta di campo portò come conseguenza ad un irrigidimento del dialogo diplomatico tra Costantinopoli e le altre potenze, in primo luogo conla Russiache, al pari della Francia dell’Inghilterra, non vedeva di buon occhio infiltrazioni tedesche di alcun tipo in Turchia e nel Vicino Oriente.

Il biennio 1911-1913 fu un periodo assai difficile per l’impero. Dopo aver ingaggiato la guerra con il Regno d’Italia, la Sublime Portadovette affrontare, nel corso della Prima Guerra Balcanica del 1912, la coalizione formata da Bulgaria, Grecia, Montenegro e Serbia, subendo una dura sconfitta e dovendo sottoscrivere, il 30 maggio 1913, l’umiliante trattato di pace di Londra. La coalizione balcanica sottrasse infatti a Costantinopoli la quasi totalità dei territori europei ancora in suo possesso. Pochi mesi dopo (il 29 giugno 1913), l’impero ottomano si trovò nuovamente coinvolto nella Seconda Guerra Balcanica, (questa volta furono Montenegro, Serbia, Romania, Grecia e Turchia a schierarsi contro la Bulgaria), nel corso della quale, grazie all’abilità dimostrata da capi militari come Enver, i turchi riuscirono a riacquistare alcune porzioni della Tracia, compresa la città di Adrianopoli. Fu proprio in occasione di questo conflitto che Enver prese in pugno la situazione guidando una rivolta interna contro la Sublime Porta.Isuoi seguaci assassinarono il ministro della Guerra, assumendo il controllo dell’importante dicastero che il 4 gennaio 1914 fu affidato a Enver. Leader del Movimento come Talaat, Halil Bey e Mehmed Jevad assunsero anch’essi ruoli strategici all’interno della nuova nomenclatura ottomana. Fu comunque immediata cura di Enver e dei suoi compagni lasciare l’incarico di Primo Ministro ad un uomo totalmente estraneo al movimento, il principe Said Halim che, in qualità di gran visir e in virtù delle sue doti di rispettabilità, conferì prestigio e attendibilità al nuovo governo riformatore. Conquistato il potere, il Partito dei Giovani Turchi dovette iniziare a confrontarsi con le altre potenze europee che continuavano a considerare l’impero ottomano come una potenziale terra di conquista.

Molti gruppi industriali e finanziari europei si dichiararono ben disposti a fornire alla Turchia i mezzi e le attrezzature di cui necessitava, anche se in cambio pretendevano di controllarne lo sviluppo economico attraverso la concessione e la gestione diretta delle industrie e delle infrastrutture, come quelle ferroviarie, o anche mediante forme di appalto esclusive e a lungo termine. D’altra parte, l’impero non possedeva ancora università e scuole nelle quali formare tecnici e burocrati specializzati. Il suo vasto territorio produceva soltanto manodopera scarsamente specializzata e una grande massa di poveri agricoltori e pastori analfabeti. Quindi, se il governo desiderava nuove industrie o nuove ferrovie doveva giocoforza rivolgersi agli europei.

I gruppi finanziari occidentali potevano, inoltre, mantenere un preponderante controllo sulle stesse casse dello Stato ottomano, che non era in grado né di gestire la bilancia dei pagamenti, né di condurre i propri affari in maniera proficua. Nel 1875, la Sublime Portasi era accorta di non poter tenere fede ad accordi concernenti il suo debito pubblico, ammontante ad oltre 1.000 milioni di dollari e, nel 1881, il Sultano era stato costretto ad emanare un decreto con cui affidava agli europei la gestione del deficit economico del governo turco: un’umiliazione che non andò giù né alla vecchia classe dirigente, né ai giovani nazionalisti turchi. Fu creato uno speciale bureau, diretto da operatori occidentali, autorizzato a controllare quasi un quarto dell’economia dell’impero. Da questo organismo dipendevano tutte le decisioni in materia di dazi doganali per prodotti di largo consumo, come gli alcolici, il sale, il pesce e perfino i francobolli. In questo modo, la Sublime Porta non era più padrona del proprio tesoro e delle proprie dogane. La pressoché totale schiavitù dell’impero nei confronti del potere finanziario, economico e politico straniero trovava la sua esemplificazione più evidente nelle capitolazioni, un sistema che era visto come fumo negli occhi dai Giovani Turchi. Si trattava di un particolare tipo di accordo, o meglio un compromesso, che permetteva agli europei di mantenere posizioni economiche assolutamente privilegiate all’interno dell’impero, e che per numerose ragioni poneva gli stessi stranieri sotto l’esclusiva giurisdizione dei rispettivi consolati, anziché sotto quella delle autorità ottomane.

Per uscire da questa deprecabile quanto pericolosa situazione di sudditanza e per garantire all’impero una nuova autonomia politica ed economica, il Partito dei Giovani Turchi – e nella fattispecie Enver – decise di puntare tutte le proprie energie su un progetto relativamente nuovo: cercare di allearsi con una forte potenza straniera, possibilmente non confinante, che, in cambio della concessione di particolari favori, accettasse di ricoprire il ruolo di unica nazione protettrice dell’integrità economica, politica e territoriale turca, almeno fino a quando l’impero non fosse stato in grado di svincolarsi dalla sua tutela e svilupparsi con le proprie forze.

Fu proprio in quest’ottica che Enver e il suo partito avviarono accordi segreti con la Germania del kaiser Guglielmo II (1859-1941), l’unica nazione europea che, in virtù della sua forza economica, delle sue malcelate mire espansionistiche in oriente e della rivalità militare che la contrapponeva alla Russia e all’Inghilterra, poteva garantire un appoggio concreto e duraturo. Inizialmente, i tentativi di approccio con Berlino non furono tuttavia coronati da successo. Il 22 luglio 1914, il gran visir autorizzò Enver (che aveva soggiornato diverso tempo a Berlino) a contattare l’ambasciatore tedesco a Costantinopoli, Hans von Wangenheim. Questi però, dopo essersi consultato con il proprio governo, respinse la proposta non ritenendola interessante.

La delusione di Enver venne però compensata da un fatto nuovo e per certi versi decisivo ai fini di un possibile avvicinamento tra Germania e Turchia. Alla fine del luglio 1914, il governo inglese – dietro pressioni del Primo Lord dell’Ammiragliato Sir Winston Churchill (1874-1965) – decise di bloccare la consegna di due navi da guerra (le corazzate Reshadieh e Sultan Osman I) che erano state commissionate dal governo turco ai cantieri navali britannici Vickers & Armstrong. Questa mossa, che suscitò le vivaci proteste di Costantinopoli, indusse la Germania a riesaminare la proposta di Enver, favorendo una ripresa dei colloqui. Questi furono riavviati con la benedizione dello stesso kaiser Guglielmo II che vedeva nell’operato di Churchill (deciso a rinforzarela Royal Navy in funzione antitedesca) un chiaro atteggiamento di ostilità. Come da copione, infatti, le due unità da guerra sequestrate dal governo inglese vennero poi messe a disposizione della flotta da guerra di Sua Maestà.

Il 28 luglio (proprio il giorno in cui l’Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia, provocando la mobilitazione generale dell’esercito russo) i leader ottomani inviarono a Berlino una bozza di trattato che fu subito sottoposta all’attenzione del Cancelliere Theobald von Bethmann Hollweg. Quest’ultimo – nonostante i traumatici cambiamenti che si erano verificati all’interno del quadro politico e diplomatico europeo – si dimostrò contrario ad un impegno troppo compromettente e foriero di scarsi vantaggi, almeno perla Germania. Hollwegreputava infatti un eventuale apporto militare della Turchia contro l’Inghilterra ela Russiacome del tutto irrilevante, opinione d’altra parte condivisa anche da molti esperti militari prussiani dell’epoca. Il 1° agosto, tuttavia, il Ministro della Guerra turco Enver ebbe un decisivo colloquio con l’ambasciatore von Wangenheim e con il capo della missione militare tedesca in Turchia, generale Otto Liman von Sanders, nel corso del quale le parti concordarono una nuova e più dettagliata bozza di intesa. E fu proprio durante quell’incontro che i parlamentari turchi appresero la notizia della dichiarazione di guerra della Germania alla Russia.

Il 5 agosto, quando ormai la Germania e l’Austria si trovavano in stato di belligeranza con Francia, Inghilterra e Russia, il capo di Stato Maggiore dell’Esercito tedesco Erich von Falkenhayn si disse finalmente favorevole ad un’alleanza militare con la Turchia: opinione subito avallata dal kaiser. Von Falkenhayn fin dalle prime avvisaglie di guerra – e cioè subito dopo l’attentato di Serajevo ai danni dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria (28 giugno 1914) – aveva attribuito “una grande importanza” ad una eventuale entrata in guerra della Turchia a fianco dell’Austria-Ungheria e della Germania. Innanzitutto perché l’impero ottomano avrebbe potuto sbarrare l’afflusso dei rifornimenti da parte delle ricche colonie dell’impero britannico all’Inghilterra e, in secondo luogo, perché avrebbe obbligato le potenze alleate di Londra – Russia e Francia – a distogliere molte forze, di terra e di mare, dai confini tedeschi per avviarle verso il Caucaso e l’area del Mediterraneo.

Il trattato segreto stipulato da Turchia e Germania contemplava, tra l’altro, la pianificazione di una comune strategia difensiva e offensiva da attuarsi in collaborazione con l’Austria, potenza che aderì anch’essa al patto. Secondo i termini di questo accordo, l’impero ottomano sarebbe dovuto entrare nel conflitto a fianco degli Imperi Centrali non appenala Russiaavesse aperto le ostilità contro questi ultimi. Tuttavia, per dare tempo alla sua lenta macchina da guerra di mettersi in moto, il governo di Costantinopoli ebbe facoltà di dichiararsi ufficialmente neutrale anche dopo l’apertura delle ostilità da parte dell’Austria e della Germania, per proseguire con relativa calma e sicurezza la sua mobilitazione generale.

Nonostante quest’ultima clausola, ad accelerare il processo destinato a trascinare in guerra la Turchia intervenne un fatto nuovo. Il 7 agosto 1914, dietro ordine segreto dello stesso kaiser, l’Ammiragliato germanico dispose che due sue unità (l’incrociatore pesante Goeben e l’incrociatore leggero Breslau, che si trovavano in navigazione nel Mediterraneo occidentale) effettuassero alcuni attacchi contro alcune basi francesi in Algeria, per poi fare rotta sui Dardanelli, cioè in acque interdette alle unità militari di tutto il mondo da un vecchio trattato internazionale firmato anche dalla Germania. Il 3 agosto, dopo avere bombardato i porti francesi di Bona e Philippeville ed essersi poi spostate a Messina per rifornirsi di acqua e carbone, le navi tedesche puntarono verso l’Egeo e il Mar di Marmara. Venuto al corrente del disegno tedesco, l’Ammiragliato britannico inviò subito una sua squadra navale – agli ordini dell’ammiraglio Sir Berkeley Milne – incontro alle due navi nemiche, ma l’agguato che avrebbe dovuto svolgersi poco lontano dalla costa ionica calabrese fallì. L’ammiraglio tedesco Wilhelm Souchon, che comandava la squadra germanica riuscì infatti a sfuggire all’intercettazione nemica con una repentina manovra, raggiungendo senza ulteriori problemi il Mar di Marmara.

Per evitare un’immediata dichiarazione di guerra da parte di Inghilterra, Francia e Russia, il governo di Costantinopoli decise di acquisire le due unità. E da parte sua l’Inghilterra cercò di fare buon viso a cattivo gioco, compiendo sforzi per assicurarsi almeno la neutralità dell’impero ottomano. Londra arrivò ad offrire al gran visir garanzie circa l’indipendenza e l’integrità del suo impero, promettendogli larghe concessioni per quanto concerneva le capitolazioni.

Questo tentativo di riavvicinamento giunse però troppo tardi. L’8 settembre, la Sacra Portaannunciò l’abrogazione unilaterale delle capitolazioni e dei relativi privilegi concessi alle potenze straniere, comprese Germania e Austria, anche se poche settimane più tardi queste ultime due nazioni riotterranno nuovamente i loro vantaggi. Il 29 ottobre, il governo turco ruppe definitivamente gli indugi, inviando nel Mar Nero alcune sue navi da guerra, appoggiate dagli incrociatori Goeben e Breslau, per bombardare le fortezze russe di Odessa, Sebastopoli, Nikolajev, Novorossijsk e Teodosia. Mossa che, il 1° novembre 1914, costrinse la Russia a dichiarare guerra alla Turchia: dichiarazione che il 5 novembre fu imitata anche dai governi di Parigi e Londra. Enver e il partito dei Giovani Turchi avevano raggiunto – anche se con molta fatica – il loro scopo, trascinando tuttavia il loro paese in un’avventura altamente rischiosa. Il 14 novembre, il Sultano di Costantinopoli, nella sua veste di Califfo, proclamò la Guerra Santa (jihad) contro tutti i Paesi ostili alla Turchia. Ma questa solenne dichiarazione, seguita nella capitale da grandi manifestazioni popolari di giubilo, avrebbe realmente sortito l’effetto sperato dal Califfo? In una sua corrispondenza privata, l’ambasciatore tedesco si dichiarò dal canto suo piuttosto scettico, osservando che “la jihad avrebbe convinto soltanto una piccola parte dei mussulmani sparsi per il mondo a schierarsi con gli imperi centrali”. Profezia destinata a rivelarsi esatta.

La partecipazione dell’impero ottomano alla Prima Guerra Mondiale si sviluppò assai male ed ebbe esiti disastrosi. Va ricordato, infatti, che proprio in occasione del conflitto, nel 1915, il governo turco avviò il sistematico annientamento fisico della minoranza cristiana armena (di cui parleremo più avanti) che, già in passato, era stata sottoposta a crudeli vessazioni. E’ stato calcolato che tra il 1915 e il 1918, le forze armate e di polizia ottomane, appoggiate da reparti curdi, abbiano sterminato non meno di un milione di armeni. Ma torniamo alla guerra. Nonostante il fallimento dello sbarco anglo-britannico a Gallipoli (1915) e le alterne vicende belliche che, tra il 1914 e il 1916, infuocarono gli incerti fronti macedone caucasico e mesopotamico, lo scacchiere del Sinai e le regioni arabe dell’Hegiaz e dello Yemen, a partire dall’inizio del 1917, le armate britanniche, francesi e quelle russe (almeno fino al marzo dello stesso anno, cioè in concomitanza con lo sgretolamento del potere zarista) ripresero l’iniziativa, avanzando su tutti i fronti ed infliggendo agli eserciti della Sacra Porta dure sconfitte. Dopo avere conquistato Baghdad (marzo 1917), Gaza, Bersheeva e Gerusalemme (dicembre 1917) ed avere consolidato, grazie anche al contributo italiano, il fronte di Salonicco, nell’autunno del 1918 le forze dell’Intesa costrinsero la Turchia, ormai ridotta alla rovina, alla resa.

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