La guerriglia italiana in Africa Orientale (1941-1943). Di Alberto Rosselli.

Amedeo Guillet in una fotografia del 1935.
Una mitragliera italiana da 20 mm. in azione (Africa Orientale).

Già due mesi prima della resa di Gondar (27 novembre 1941), l’ultima piazzaforte italiana in Africa Orientale difesa dal generale Nasi, cioè agli inizi di settembre del ’41, diversi esponenti della milizia fascista e dell’esercito decisero di dare vita ad un movimento clandestino di rivolta per contrastare le forze di occupazione britanniche e per creare i presupposti per un’eventuale riconquista dell’Etiopia, dell’Eritrea e della Somalia, da parte dell’Armata d’Africa italo-tedesca del generale Erwin Rommel. I rapidi e brillanti successi conseguiti in Cirenaica dal generale tedesco nel mese di aprile del ’41, indussero molti italiani d’Africa Orientale, sia militari che civili, a sperare in una possibile “liberazione” dell’ex Impero, nonostante quest’ultimo fosse ormai quasi del tutto sotto il controllo delle forze inglesi ed etiopi fedeli al Negus. Già il 6 settembre, alcuni elementi provenienti dalle file del partito fascista dettero vita all’Associazione segreta Figli d’Italia che aveva come scopo quello di scatenare una sorta di resistenza passiva e attiva contro gli occupanti. L’associazione riuscì persino – tramite canali segreti – a comunicare a  Roma le proprie intenzioni. Quasi contestualmente alla costituzione dell’Associazione Figli d’Italia, nacque ad Addis Abeba il Fronte di Resistenza, un’organizzazione prettamente militare creata e diretta dal maggiore Lucchetti e il cui obiettivo era quello di coordinare le azioni di guerriglia che alcune centinaia di militari italiani stavano conducendo in diverse zone dell’Impero già dall’aprile del ’41, cioè successivamente alla caduta dell’ultimo grande bastione di Cheren. Quantificare l’esatta consistenza numerica e valutare l’equipaggiamento e l’armamento delle diverse “bande” che andarono a confluire nell’organizzazione (alcuni riferiscono di un totale di almeno 5.000 uomini, tra ufficiali, sotto ufficiali e soldati) non è cosa facile, anche se le testimonianze, seppur contraddittorie, non mancano. Si conoscono i nomi dei 40 membri del primo comitato segreto del Fronte di Resistenza (ne fecero parte, tra gli altri, il capitano dei carabinieri Leopoldo Rizzo, il maggiore dei granatieri Enrico Arisi, i maggiori Giuseppe De Maria e Mario Bajon, il giornalista F.G. Piccinni, l’ex vice-podestà di Addis Abeba Tavazza e altri ufficiali) e sono note le zone nelle quali le bande, anche quelle non affiliate al “Fronte di Resistenza”: vedi ad esempio l’Eritrea dove operò il leggendario reparto di cavalleria amhara del tenente Amedeo Guillet. Nella regione di Dessiè operò la banda del maggiore Gobbi; mentre a Cobbò alcuni ufficiali organizzarono la rivolta della tribù Azebò Galla da sempre ostile al Negus. Esistevano poi gruppi di sabotatori nel Caffa e nel Gimma, nell’area di Dembidollo, di Moggio e del Cercèr. E ancora, nella regione dell’Amba Auda, presso Saganeiti, un gruppo di ufficiali della marina riuscì ad installare ed attivare una radio ricetrasmittente con la quale comunicare con il Maristat di Roma. Sempre in Eritrea, il capitano di vascello Paolo Aloisi e il seniore della Milizia fascista Luigi Cristiani organizzarono invece una rete d’assistenza per i soldati evasi dai campi di concentramento inglesi e un gruppo di sabotatori. Catturato dagli inglesi, Cristiani venne condannato a morte, ma scampò la pena capitale per intercessione del vescovo di Asmara, Marinoni. Insomma, la Resistenza Italiana in Africa Orientale non riguardò l’impegno di pochi “disperati” privi di programmi (come fu propagandato dai responsabili dei Servizi Segreti britannici), ma fu un fenomeno che coinvolse un consistente numero di qualificati soggetti, esperti di comando e adusi alle armi. Per due anni, dall’aprile del 1941 al maggio del ’43, i reparti italiani inglobati nelle bande “partigiane” combatterono una difficile, oscura, ma spesso efficace lotta contro i reparti inglesi ed etiopi in una regione vastissima compresa tra il Sudan e il Kenya, tra il Mar Rosso e la regione dei Laghi. I reparti italiani meglio organizzati disponevano di un armamento individuale composto da pistole Beretta, moschetti Modello ’91, fucili mitragliatori Breda da 6,5, mitragliatrici Fiat e Shwarzlose, bombe a mano, cariche di dinamite e persino alcuni pezzi someggiati da montagna da 65 millimetri, anche se a corto di munizioni. Alcuni gruppi potevano fare anche conto su un certo numero di cammelli, muli e cavalli. Dopo una prima fase dedicata alla riorganizzazione, nel 1942 i reparti italiani iniziarono a colpire con maggiore precisione il nemico, sia nelle aree urbane che nelle campagne, costringendo il Comando inglese a richiamare dal Kenya e dal Sudan alcuni battaglioni di colore supportati da mezzi aerei e meccanizzati. Il timore dell’espandersi di una vera e propria rivolta italiana in Africa Orientale diventò ancora più reale in seguito ai successi ottenuti dall’Afrika Korps tedesca in Libia ed Egitto e dall’entrata in guerra del Giappone (7 dicembre 1941) a fianco di Germania e Italia. Nel maggio del 1942, a seguito di alcuni avvistamenti di sommergibili oceanici nipponici lungo le coste yemenite, somale, della Tanzania e della parte settentrionale del Madagascar, il Comando Supremo inglese rafforzò la vigilanza dei litorali africani dell’Oceano Indiano e nel contempo imprigionò o allontanò da città come Mogadiscio, Chisimaio e Dante la quasi totalità dei coloni italiani. A partire dal febbraio del 1942, i reparti italiani operanti sulle ambe, nelle zone desertiche o nella profondità delle foreste del sud-ovest dell’Etiopia iniziarono a ricevere istruzioni dal Comando segreto del generale della Milizia Muratori che, grazie al suo forte ascendente sugli Azebò Galla era riuscito a fare scoppiare una rivolta nella regione del Galla Sidama: ribellione che venne soppressa dalle forze britanniche e negussite soltanto nel 1943. Sempre all’inizio del ’42, nel bacino del fiume Omo Bottego-Baccano, la banda del tenente colonnello dei carabinieri Calderari compì alcune azioni di disturbo contro piccole guarnigioni sudafricane, mentre quelle agli ordini dei colonnelli Di Marco e Ruglio (operanti, rispettivamente, nelle aride regioni dell’Ogaden e della Dancalia) e quella del Centurione della MVSN De Varda (formata in prevalenza da “camicie nere”) effettuarono imboscate ai danni di colonne motorizzate nemiche, costringendo gli inglesi a rafforzare la sorveglianza lungo le camionabili e le piste più battute. Sembra che, nel maggio del 1942, lo stesso imperatore Hailé Selassié – forse impressionato dall’andamento non certo favorevole della guerra in Africa Settentrionale, Russia ed Estremo Oriente – sia giunto a prendere addirittura in considerazione una “pace separata” con i “ribelli” italiani d’Etiopia. Tuttavia, con il passare dei mesi e nonostante alcuni riusciti colpi di mano, le bande italiane cominciarono a perdere quella motivazione nella lotta che le aveva sorrette per tanti mesi. Isolati dalla madrepatria e costretti a sopravvivere in territori molto difficili sotto il profilo ambientale e climatico, esse cominciarono a manifestare alcuni cedimenti.

Nell’autunno del ’42, dopo l’arresto definitivo dell’Armata italo-tedesca ad El Alamein, di quella germanica a Stalingrado, le speranze, da parte delle bande italiane, di essere raggiunti dalle armate dell’Asse iniziarono infatti ad affievolirsi. Nell’estate del 1942 si era sparsa, infatti, la voce dell’imminente arrivo in Etiopia di una potente quanto mitica colonna di soccorso italo-tedesca proveniente dalla Libia, “forte di carri armati, artiglierie e non meno di 6.000 cammelli”. Un sogno destinato però ad infrangersi contro la dura ed avversa realtà. Speranze e disillusioni a parte, il maggiore Lucchetti, sempre a capo del Fronte di Resistenza, non si diede per vinto, continuando ad “organizzare reparti speciali di sabotatori, accantonando viveri e automezzi, e raccogliendo denaro, in quest’ultima impresa validamente coadiuvato da monsignor Ossola, vescovo cattolico di Harar”. “Arrestato dagli inglesi nell’ottobre 1942, Lucchetti scomparve dalla scena quando oramai, con la sconfitta di Rommel in Egitto e con l’evacuazione o l’imprigionamento quasi totale dall’Africa Orientale dei militari e dei civili, ogni ulteriore resistenza perse di significato”.

Le ultime efficaci azioni di sabotaggio e guerriglia condotte dai “resistenti” in Africa Orientale si svolsero proprio nella fatidica estate del ’42, ed esse vennero attuate da due personaggi veramente eccezionali: la dottoressa Rosa Dainelli e il capitano del SIM Francesco De Martini. Dopo la morte del capitano Bellia e del tenente Paoletti, caduti in un agguato nemico, De Martini, che si era già fatto notare nel ’41 per alcune spericolate e brillanti azioni in Dancalia, era stato fatto prigioniero (nel luglio ’41) riuscendo però a fuggire e successivamente ad incendiare con mezzi di fortuna i depositi di munizioni di Daga (Massaua). Pur essendo braccato dalla polizia inglese, De Martini riuscì a fare pervenire, tramite radio, al Comando di Roma utilissime informazioni circa l’attività delle truppe e della marina britannica in Africa Orientale e nel Mar Rosso. Pare, addirittura, che De Martini fosse riuscito ad armare con mitragliatrici alcuni sambuchi arabi con i quali svolse missioni notturne per individuare e segnalare convogli navali britannici in transito lungo le coste eritree. De Martini sopravvisse (come il già citato tenente Guillet, sfuggito per un soffio alla prigionia e riparato su una piccola imbarcazione nello Yemen) alla guerra e venne decorato con la Medaglia d’Oro al valore. E a proposito di medaglie, una molto particolare sarebbe spettata di diritto alla coraggiosa e affascinante dottoressa Rosa Dainelli che nell’agosto del ‘42, dimostrando patriottismo, doti atletiche e coraggio fuori dal comune, penetrò di notte nel più sorvegliato deposito di munizioni inglese di Addis Abeba facendolo esplodere con una carica di dinamite. Rosa Dainelli riuscì miracolosamente a farla franca e ad arrecare, sicuramente a sua insaputa, al nemico un danno ben più grande di quanto ella avesse previsto. Nel deposito, infatti, si trovavano infatti 2.000.000 di speciali cartucce Fiocchi preda bellica che il Comando inglese aveva già destinato quale munizionamento per i nuovi mitragliatori Sten appena entrati in servizio, ma ancora sprovvisti di un’adeguata scorta di cartucce. Il mancato utilizzo dei proiettili italiani costrinse quindi gli inglesi a fare a meno dei moderni mitragliatori fino al novembre del ’42, quando dalle fabbriche inglesi uscirono finalmente le nuove cartucce costruite ad hoc. Verso la fine del 1942, quasi tutte le bande armate italiane iniziarono a sciogliersi ed anche le organizzazioni segrete che avevano adepti e sostenitori tra gli abitanti delle principali città eritree entrarono in fase di collasso organizzativo. Nei primi mesi del 1943, gli ultimi raggruppamenti nazionali, nascosti nelle più selvagge regioni dell’Impero, posarono anch’essi le armi. Finiva così, senza alcun clamore, una delle pagine più interessanti e meno conosciute della seconda guerra mondiale.

Bibliografia

Angelo Del Boca, Gli Italiani in Africa Orientale La caduta dell’Impero, Editori Laterza, 1982.

Alberto Sbiacchi, Hailé Selassié and the Italians, 1941-43, African Studies Review, vol.XXII, n.1, aprile 1979.

ASMAI/III, Archivio Segreto, 2° Guerra Mondiale, pacco IV. Relazione Lucchetti.

Antonia Bullotta, La Somalia sotto due bandiere, Edizioni Garzanti, 1949

Rivista Storica, “La Resistenza in A.O.I.” di Enrico Cernuschi, pag.54-61.

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