Il cinema ‘maledetto e povero’ della Repubblica Sociale Italiana, 1943-1945. Una pagina crepuscolare, ma comunque degna di nota. Di Alberto Rosselli.

Il 'fascista' Osvaldo Valenti, uno dei più grandi attori italiani del Ventennio.

Nell’autunno del 1943, l’ambasciatore a Roma Rudolf Rahn ebbe un colloquio con il ministro della Cultura e Propaganda della neonata Repubblica Sociale Italiana, Fernando Mezzasoma, il quale gli comunicò che a breve avrebbe provveduto a chiamare a raccolta diversi famosi registi e attori, sollecitando un loro trasferimento al nord, e nella fattispecie a Venezia, dove la neonata Repubblica di Salò era intenzionata ad installare un centro di produzione cinematografica, che in seguito verrà chiamato ‘Cineisola’. Va rammentato che, come conseguenza dei bombardamenti aerei anglo-americani dell’estate del 1943 su Roma e dintorni, gran parte degli stabilimenti di ‘Cinecittà’ era stata resa inutilizzabile e i pochi edifici trasformati in alloggiamento per i senzatetto. Mentre al contrario, gli altri impianti cinematografici romani Scalera, Titanus, Saffa-Palatino e Farnesina non avevano subito alcun danno rilevante (salvo qualche saccheggio), ma erano stati egualmente abbandonati.

In quel periodo, a Roma, “nessuno (produttori e registi, tecnici e attori) appariva intenzionato a produrre o a lavorare per qualche film, anche perché l’intera ossatura del mondo cinematografico era allo sbando (…) Chi era rimasto nella capitale si era reso infatti irreperibile per attendere in luoghi più o meno sicuri (discrete abitazioni ed edifici religiosi) l’evolversi degli eventi (…) Tra questi: Vittorio De Sica, Alessandro Blasetti, Augusto Genina, Mario Camerini, Goffredo Alessandrini, Clara Calamai, Massimo Girotti, Fosco Giachetti, Gino Cervi e Carlo Ninchi” (…) Dopo l’arresto (25 luglio) di Michele e Salvatore Scalera (titolari della omonima casa), da parte degli uomini del nuovo governo Badoglio, il direttore di Cinecittà Guido Oliva si era infatti suicidato e Luigi Freddi, presidente della E.N.I.C. era scomparso momentaneamente dalla circolazione” (Michele Sakkara e Franco Morani). Il mondo cinematografico italiano sembrava, dunque, essersi dissolto. Ragione per cui, il compito di Mezzasoma appariva agli occhi dei tedeschi e dei molti gerarchi rimasti fedeli al duce non soltanto difficile, ma quasi impossibile

         Comunque sia, nell’ottobre del ‘43, Mezzasoma iniziò a darsi da fare per cercare di rintracciare e cooptare il maggior numero possibile di professionisti con i quali si sarebbe tentato di ricostituire, almeno in parte, un nuovo polo cinematografica nazionale, che, per ragioni di sicurezza, avrebbe trovato una sua allocazione nel capoluogo veneto, presso l’ex-fabbrica di birra della Giudecca. In concomitanza della firma di Cassibile le forze alleate erano infatti sbarcate a Salerno e poi nelle Puglie, iniziando a risalire la penisola e avvicinandosi alla capitale. Secondo i piani del ministro, la Scalera Film e la Cines avrebbero dovuto raccogliere pesonale e materiali e partire subito per Venezia, mentre a Luigi Freddi, Nino D’Aroma e Giorgio Venturini (che avevano aderito a Salò) sarebbe spettato il compito di dirigere e gestire la nuova struttura. Oltre ai capannoni della Giudecca (il cosiddetto ‘Cinevillaggio’), la Cines e la Scalera si sarebbero avvalsi, a partire dal gennaio del 1944, di un teatro di posa ricavato presso il Padiglione Italia dei Giardini della Biennale (Piero Canotto,’Veneto in film – Il censimento del cinema ambientato nel territorio. 1895-2002’, edito da Regione Veneto e Marsilio). Nel dopoguerra, tutte le strutture di ‘Cineisola’ e ‘Cinevillaggio’ verranno smantellate, mentre i capannoni della Scalera continueranno ad essere utilizzati ancora per diversi anni.

         Va detto che, durante la Repubblica di Salò, i film prodotti (circa una dozzina) vennero girati non soltanto a Venezia, ma anche a Torino, presso gli stabilimenti cinematografici della Fert di corso Lombardia, dotati di tre teatri di posa completamente attrezzati, con una centrale elettrica autonoma, sale di montaggio, di missaggio e proiezione. In particolare, nel capoluogo piemontese si produssero quattro film di cui si parlerà più avanti e cioè: Vivere ancora, Scadenza trenta giorni, Il processo delle zitelle e Il signore è servito (questi ultimi due entreranno in lavorazione verso la  fine di settembre del 1944). Altre pellicole vennero girate o impostate in stabilimenti minori situati a Montecatini e Budrio.

         All’inizio del 1944, Vittorio De Sica – considerato il personaggio più di spicco della cinematografia italiana dell’epoca – venne convocato da Fernando Mezzasoma, intenzionato a cooptarlo (secondo il ministro, la presenza a Venezia del divoavrebbe convinto altri artisti a seguirlo). Tuttavia, in quel frangente, De Sica, che non aveva nessuna intenzione di trasferirsi nel nord Italia, riuscì a disimpegnarsi con molta abilità: “Spiacente, ma non posso trasferirmi a Venezia – disse candidamente il regista a Mezzasoma – “Attualmente sono impegnato nelle riprese di un film commissionato dal Vaticano”. Per la cronaca, si trattava de La porta del cielo (che uscirà nel febbraio 1945), pellicola incentrata sul pellegrinaggio a Loreto di un gruppo di persone di varia estrazione sociale, afflitte da molteplici malanni fisici e morali.

         Sulla cinematografia della Repubblica Sociale Italiana tutti i critici italiani del dopoguerra hanno sempre sparato ad alzo zero. Tullio Kezich ha dichiarato di non avere mai notato “nemmeno un titolo decoroso fra quelle poche pellicole realizzate nel Cinevillaggio della Giudecca”. E Gian Piero Brunetta ha ribadito che “a parte De Robertis, gli altri registi erano tutti di serie Z”, concedendo soltanto che “l’interesse di alcuni film risiede solo nel fatto che recano i segni del momento storico”.

         Da tramandare ai posteri, non come esempio di lecita critica, ma di pura faziosità ideologica, è invece il più datato giudizio (del 12 giugno 1944) espresso dall’ex-sceneggiatore di regime e futuro co-fondatore del Sindacato Nazionale dei Giornalisti Cinematografici Italiani, Vittorio Calvino. Dopo avere definito come “uomini di malaffare” Luigi Freddi, Mino Doletti e Alessandro De Stefani, rei di avere accettato di lavorare per la R.S.I., Calvino si domandava indignato chi fossero: “gli uomini che si sono assunti l’onere di fare rinascere al nord il cinema fascista?”. Perentoria la risposta al retorico quesito: “uno sparuto gruppetto di falliti! (…) tra cui (…) la divissima Doris Duranti e la coppia Valenti-Ferida”. (Michele Sakkara e Franco Morani. op. cit.)

         Ritornando al presente, c’è stato poi chi, come Paola Olivetti, è arrivato a sovrapporre gli scopi e la contenutistica della quasi totalità della produzione cinematografica della R.S.I. “alla più assoluta incapacità di portare sugli schermi un qualcosa di almeno paragonabile alle produzioni del periodo 1922-1932 (‘La violenza occultata nel cinema di Salò’, rivista L’Impegno’, XVI, n. 1, aprile 1996, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli).“La cinematografia di Salò – argomenta la Olivetti – altro non fu che un sottoprodotto di quella italiana negli anni di guerra. Eppure i nuovi dirigenti della repubblica, Mussolini in testa, seguito da Alessandro Pavolini(divenuto nel frattempo segretario del Partito Fascista Repubblicano) e dal ministro Fernando Mezzasoma, erano ben consci della necessità di continuare l’attività di produzione (…) Il cinema di Salò risorgeva ma lavoricchiava (…) anche perché al nord erano migrati solo due attori di fama, Valenti e la Ferida, attratti più che altro dal miraggio ‘alimentare’ (…) Nella ventina di film girati tra Venezia, Torino, Montecatini tra l’autunno del ‘43 e la primavera del ‘45 (…) temi e soggetti risultano tutti sottotono, incentrati a una dimessa dimensione di vita quotidiana”.

         Osservazioni, quelle della Olivetti, parzialmente vere, ma che non sembrano tenere conto della drammaticità del periodo e soprattutto della spaventosa penuria di mezzi e di denaro che pesava sul ministero della Cultura della R.S.I.. Carenza che, nel comparto cinematografico, come in tutti gli altri settori industriali, aveva già iniziato a farsi sentire ben prima dell’8 settembre e della nascita della Repubblica di Salò. Nel febbraio del 1943, il ministro della Cultura Popolare Gaetano Polverelli aveva riunito in un teatro dell’Istituto Luce di Roma tutti i registi e i produttori, avvertendoli che “per ragioni di economia bellica, nel 1944 sarebbero state prodotte un massimo di 95 pellicole (nel ‘43 ne furono completate 66, n.d.a.), quindici delle quali realizzate all’estero con il contributo parziale di capitali stranieri”. Polverelli aveva anche fatto intendere alla platea che, sempre per gli stessi motivi, registi e attori avrebbero dovuto rassegnarsi a rinunciare ai cachet ai quali erano abituati da tempo.

         Comunque sia, penuria di denaro o meno, oltre alla Ferida (al secolo Luigia Manfrini Farné) e a Valenti, decisero di prendere la via di Venezia anche altri attori come Doris Duranti, Roberto Villa, Antonio Gandusio, Maurizio D’Ancora, Germana Paolieri, Toti dal Monte, Salvo Randone ed Emma Gramatica. “Mentre Amedeo Nazzari, assieme ad Adriano Rimordi, Paola Barbara, Primo Zeglio, Nerio Bernardi, Laura Solari ed altri, preferirono trasferirsi in Spagna”. (Michele Sakkara e Franco Morani)

         Un’ultima annotazione. Data la sua innegabile bravura, la Ferida (che nel 1942 aveva interpretato in maniera esemplare il bistrattato melodramma francese in salsa naturalista Fari nella nebbia di Gianni Franciolini) sarebbe forse potuta rimanere al sud, come fecero altri attori abbondantemente compromessi con il passato regime mussoliniano, e in un secondo tempo riprendere a lavorare. Ma essendo, come è noto, legata sentimentalmente a Valenti optò invece per Venezia, complice anche una sorta di riconoscenza nei confronti della cinematografia fascista che l’aveva lanciata. Circa poi il presunto (e mai provato) ruolo della coppia nei lugubri panni di “torturatori di partigiani”, va detto che nei primi otto o nove mesi del 1944, i due frequentarono più a meno saltuariamente Villa Triste, sede della polizia autonoma del collaborazionista Koch, senza tuttavia partecipare, come è stato scritto dagli storici del dopoguerra, ad alcuna “orgia a base di droghe e sacrifici umani”. Certo è che i rapporti di conoscenza, e probabilmente di amicizia, tra Valenti e Koch, furono sufficienti, come vedremo, a compromettere irrimediabilmente il destino dei due noti attori (14). A beneficio di cronaca, va inoltre rammentato che nel settembre 1944, Koch, la cui zelante attività repressiva nei confronti degli antifascisti non fu mai vista di buon occhio dai vertici del nuovo governo di Salò, venne fatto arrestare da Mussolini.

Tornando alla Ferida, nell’immediato dopoguerra alcuni critici politicamente schierati a sinistra arrivarono a metterne in dubbio le capacità professionali. Anche se l’autorevole  Enciclopedia dello Spettacolo, curata da Silvio D’Amico (ma anche altre attendibili fonti), fornisce dell’attrice un ritratto tanto sintetico quanto lusinghiero. ”Dotata di temperamento non comune, di un’originale fotogenia e di un fisico sensuale, ella fu forse l’attrice cinematografica italiana più viva del suo tempo. La sua carnalità, tipicamente nostrana, si confaceva particolarmente alle incipienti ricerche realistiche del cinema italiano intorno al ‘40, di cui incarnò alcuni dei personaggi femminili più significativi”[1].

         Ma ritorniamo al presunto “infimo” profilo e agli altrettanti “infimi” intendimenti, secondo Vittorio Calvino, della cinematografia di Salò. Per la scrittrice  Paola Ojetti, già traduttrice di Shakespeare, divulgatrice in Italia dei lavori di Karen Blixen, e memoria storica del cinema della R.S.I., citata dalla stessa Olivetti, “dopo una sosta di sei mesi la cinematografia italiana rinasce: più pura, più degna del suo scopo. Essa  non era più una girandola di cifre astronomiche, di sprechi, di sciali e di retorica (…) Era ora di ricostruire, non di stare a guardare. Era ora di servire, non di essere serviti. Una sola divinità doveva rimanere sull’altare: La patria”. E a pensarla più o meno alla stessa maniera erano anche un intellettuale fascista radicale come Asvero Gravelli (autore nel maggio del 1944 di un accorato, ma un po’ patetico appello agli uomini del nuovo cinema di Salò sollecitati ad impegnarsi in produzioni “popolari e soprattutto più realistiche e in sintonia con il divenire della nazione”) e Alessandro Pavolini. “Grazie a Dio ora gli autori e registi cinematografici – scrisse Pavolini – vengono sollecitati ad immaginare e realizzare soggetti che abbisognano unicamente di pochi e modesti ambienti; il film storico è guardato nel nuovo cinema come una peste; si tratta di trovare (dicono non par credibile, i produttori sbruffoni di ieri) argomenti vivi, attuali, semplici, umani… Insomma, non tutto il male viene per nuocere, vorrei ottimisticamente concludere. Se questa Italia adorata soffre, non potremo incolpare che noi medesimi, i nostri difetti di italiani. Ma forse l’atroce lezione, con tutte le sue conseguenze funeste, varrà almeno a renderci consapevoli di tali difetti e a darci la disperata volontà di correggerli. Nel settore dello spettacolo che qui ci importa, io fermamente credo che le condizioni necessarie per una nuova e più intima dignità nazionale siano tutte presenti”.

         Osservazioni e proponimenti quelli di Gravelli e di Pavolini che tuttavia lasciarono perplessi alcuni registi già trasferitisi a Venezia, come ad esempio Piero Ballerini. “Belle parole…nobili propositi…lungimiranti intuizioni, ma ormai è troppo tardi! (…) Per troppo tempo al pubblico italiano si sono offerti spettacoli di una gioventù sana e vitale; di una borghesia tranquilla e conformista, senza mai porre problemi che coinvolgessero gli interessi del paese. Se ci volgiamo a guardare le linee direttrici dei film realizzati in questi anni, constatiamo che quelli che si potrebbero catalogare come completamente riusciti, raggiungono forzatamente la punta massima di una ventina”. (Michele Sakkara e Franco Morani)

         Gli esordi del cinema della Repubblica Sociale Italiana non furono dei più incoraggianti. La prima produzione di Salò – Un fatto di cronaca (22 febbraio 1944),  tratto dal romanzo La vita può ricominciare di Alfredo Vanni e diretto proprio da Piero Ballerini – venne infatti abbastanza maltrattata dalla stessa critica repubblicana. “In Un fatto di cronaca, l’azione appare lenta, fredda e si giova di luoghi comuni, puerili, lontani dalla realtà. Pur tuttavia qualche scorcio è ben evidenziato e nel complesso il film riesce interessante. La fotografia a volte non è molto chiara e la recitazione non ha sempre quel tono caldo, vibrante ed appassionato necessario in un film del genere”. (C. Manganiello, ‘Il Gazzettino’, 4/2/1945).

         Seguirono poi due altri lavori di diversa natura, una commedia e un dramma storico: La locandiera di Luigi Chiarini e l’Enrico IV di Giorgio Pàstina. Il primo (pellicola della fine del 1943, ultimata nel 1944), libera riduzione dell’omonima opera di Carlo Goldoni del 1753, si avvalse dell’interpretazione di Osvaldo Valenti, Luisa Ferida, Camillo Pilotto, Gino Cervi, Paola Borboni, Armando Falconi ed  Elsa De Giorgi. “Sceneggiato da Umberto Barbaro e Francesco Pasinetti, il film era al montaggio l’8 settembre 1943: per non andare al nord il regista lo abbandonò alla sua sorte. Fu finito e doppiato (malamente) da altri. “L’azione, con intento discutibile, è stata tradotta in modo che partecipasse del balletto e dell’opera buffa … Ciò che nel film è bello non è goldoniano. Un errore che è frutto d’intelligenza…”. (R. Radice citato da Morando Morandini)

L’Enrico IV di Pàstina, girato nel 1944 (talune fonti riportano il 1943) ed interpretato da Osvaldo Valenti, Lauro Gazzolo, Ruby D’Alma e Clara Calamai, è anch’esso un film tutto sommato accettabile. La pellicola, tratta dal celebre dramma di Luigi Pirandello del 1922, narra la follia vera e quella simulata di un nobile che, perso il senno in seguito ad una caduta da cavallo, si crede  il re tedesco Enrico IV. Convinto del suo ruolo, l’uomo si rinchiude per vent’anni in un castello, accettando infine di ricevere visite e di raccontare la sua storia. Alla realizzazione della pellicola contribuirono Stefano Landi e Vitaliano Brancati. I due trassero dal lavoro originale una libera sceneggiatura che portò ad una produzione che, secondo il Morandini, “risulta efficace e non poco effettistica, con un Osvaldo Valenti concitato, bravo, ma senza interiorità”.

         Maggiormente interessanti appaiono i soggetti contemporanei e di ‘attualità’. In Ogni giorno è domenica (1944) di Mario Baffico, troviamo un soldato italiano che nel 1941 fa ritorno a Venezia dal fronte albanese dove, a causa di una brutta ferita, ha perso una gamba. Non volendo farsi rivedere menomato dalla sua fidanzata, l’uomo decide di eclissarsi, perdendosi volutamente nei meandri di un’Italia che, in quanto a scorci e a sottile tristezza diffusa, ricorda un paese dell’ex-Patto di Varsavia. La trama della pellicola, improntata ad un asciutto realismo, pecca di evidente semplicità, ma sotto il profilo intellettuale si rivela onesta e per nulla bellicista. La guerra viene infatti vista come un dramma nientaffatto epico o glorioso che travolge le esistenze di uomini e donne, mettendo a repentaglio anche i sentimenti più profondi. Senza considerare che la Venezia descritta da Baffico non è certo quella luminosa e nobile celebrata in passato da altre produzioni. Le calli sono particolarmente buie e popolate da operai, pescatori, artigiani e piccoli impiegati in abiti lisi e trasandati. Tutto sa di povertà, di precarietà e di rassegnazione. Tutto sembra o è già perduto. Insomma, realtà e aderenza al drammatico contesto storico.

Anche Aeroporto, girato nel 1944 tra Montecatini e Vicenza da Piero Costa (e prodotto dalla Italo Africana Società Commerciale di Venezia), offre – se lo si analizza con attenzione – spunti non meno interessanti, soprattutto per quanto concerne il coraggio con il quale viene annotato (ci si domanda se in maniera volontaria o involontaria) il ruolo, evidentemente marginale ai fini delle sorti del conflitto, svolto dalle forze armate della R.S.I. Sulla pista e nelle baracche di un modesto aeroporto del nord regna un clima quasi crepuscolare, lontanissimo dalle esaltanti imprese aeronautiche, civili e militari, degli anni d’oro del fascismo. I velivoli da combattimento sono rari e in mancanza di autobotti gli avieri sono costretti a rifornirli addirittura con fiaschi di benzina: segnale inequivocabile del disfacimento militare della Repubblica. Incredibile, a questo proposito, che tali immagini siano state avvallate dalla censura. I personaggi del film si muovono poi in interni ed esterni che poco hanno a che fare con le tradizionali ambientazioni militari del Ventennio. Gli interpreti dialogano non a fianco di possenti bombardieri in procinto di andare a colpire il nemico o nei pressi di eleganti caccia difensori dei cieli della patria, ma al contrario in luoghi di terra, ristretti, banali e abbastanza lugubri. Si chiacchiera in una specie di bar situato non lontano dal campo, soffocati – e in questo la Olivetti ha ragione – da una sorta di forzata inattività, dovuta però non ad una presunta “povertà spirituale”, ma ad un’oggettiva impossibilità di agire. Convinta, probabilmente, che si tratti di un film di propaganda, la Olivetti stenta a comprendere perché il regista non abbia fatto ricorso ad almeno un simulato combattimento aereo o a qualche scena ad effetto. Anzi, ella lamenta perfino l’assenza negli interpreti “della passione per le armi”, dimostrando con questo di essere lontana dall’avere capito il vero e piuttosto evidente significato della pellicola. Al di là di alcune sue gravi manchevolezze (i dialoghi sono effettivamente sciatti e la recitazione sottotono), Aeroporto (interpretato da Carlo Minello, Anna Arena e Silvio Bagolini)è semplicemente un film decadente in cui il regista ha tentato di privilegiare l’analisi intimistica dei personaggi, riuscendo però solo in minima parte in questo intento. Aeroporto è un film disperato, tetro, che fa letteralmente a pugni con l’ideologia corrente e soprattutto con la propaganda. Mai nella Germania nazista sarebbe stato possibile produrre un’opera simile. Una curiosità. La storia narrata venne suggerita al regista Piero Costa da un anonimo sergente della Regia Aeronautica che all’inizio del settembre 1943 – avendo sospettato che il governo Badoglio stesse per firmare l’armistizio con gli alleati – era fuggito con il suo aereo dalla base di  Pantelleria verso il nord Italia per continuare a combattere contro gli anglo-americani.

Del medesimo registro è anche La buona fortuna (completato nel 1944 a Montecatini) di Fernando Cerchio, in cui, seppure come scenario lontano, compare nuovamente la guerra, vissuta anche questa volta in maniera del tutto differente rispetto al passato. La trama è infatti avvolta da un’atmosfera disincantata e sotto certi aspetti antimilitarista o (per usare un termine estremo e abusato) qualunquista. Si tratta di una caratteristica particolare e marcata, riscontrabile anche nel film di Federico De Robertis, Uomini e cieli, iniziato nel 1943 ed ultimato nel 1945. In questo lavoro, il protagonista è un soldato mutilato (ha perso una gamba in combattimento) che vive il suo dramma umano prima chiudendosi in se stesso e poi trovando un nuovo stimolo alla vita nell’amore. Anche qui la guerra fa da opaco sottofondo e da causa al disagio psicologico dei personaggi, ragione per cui viene intesa dallo spettatore in senso chiaramente negativo. Nell’autunno del ‘43, subito dopo avere aderito alla R.S.I., De Robertis aveva esordito al nord con il film decisamente più avventuroso e bellicoso, Marinai senza stellette (produzione Scalera) vicenda di due coraggiosi giovani alle prese con la vita di mare e con la guerra. “Uno dei due ragazzi si chiamava Tito Stagno, futuro giornalista del piccolo schermo” (Michele Sakkara e Franco Morani, op. cit.)

         Di Francesco De Robertis (e non di Fernando Cerchio come alcuni critici affermano) è un altro film, diverso e abbastanza curioso, Dieci minuti di vita (o Vivere ancora) incentrato sulla storiadi un uomo squilibrato che con una carica di esplosivo vuole far saltare in aria un palazzo. Il film ruota intorno alla vicenda della ricerca dell’ordigno nei vari appartamenti dello stabile, dove fanno capolino personaggi afflitti (data la sindrome da bombardamenti tipica del periodo) da ossessioni maniacali. Il film iniziato a girare nel 1943 a Cinecittà da Leo Longanesi, venne poi ultimato nel 1944 (con il titolo Vivere ancora) a Torino, da Nino Giannini che si avvalse della collaborazione di Ennio Flaiano e di Paola Ojetti. Essendo la pellicola articolata in vari episodi, il regista poté portarla a compimento senza eccessivi problemi, nonostante l’assenza di Gino Cervi che, pur non essendosi trasferito al nord, aveva però già interpretato la sua parte. Tra gli altri attori, Nuto Navarrini, Tito Schipa, Lida Baarova e Carlo Dapporto che sostituirono il cast originale composto da Clara Calamai, Umberto Melnati, Assia Noris e Giuditta Rissone.

Nel febbraio del 1945, Fernando Cerchio si trovava nel capoluogo piemontese dove, con Carlo Borghesio (entrambi erano stati allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia), stava iniziando le riprese di Porte chiuse, la cui realizzazione venne però interrotta nell’aprile dello stesso anno. Forse per cercare di sganciarsi dal carro dei perdenti, il 22 dello stesso mese Cerchio prese contatto con gruppi partigiani socialisti dai quali ottenne dopo la liberazione l’incarico di realizzare un documentario sulla Resistenza intitolato Aldo dice 26 x 1.

         La carrellata sul cinema di Salò sarebbe incompleta se dimenticassimo di segnalare alcune altre produzioni, come il dramma in due episodi Senza famiglia- Ritorno al nido (completato a Venezia nel 1945) di Giorgio Ferroni, interpretato da Bianca Doria, Elio Steiner, Nada Fiorelli ed Erminio Spalla. Il film, girato interamente nella città lagunare, fu tratto dal romanzo di Hector Malot. Segue poi il drammatico ma modesto Peccatori (ultimato a Montecatini nel gennaio 1944), di Flavio Calzavara (con Elena Zareschi, Nino Crisman e Renato Bossi), e sempre di Calzavara, Resurrezione (1944) interpretato da Doris Duranti, Claudio Gora, Germana Paolieri e Guido Notari. Questa buona pellicola, tratta dal romanzo di Tolstoj del 1899, venne sceneggiata da Corrado Alvaro e Tomaso Smith. La trama narra le vicende di una contadina russa che, sedotta e abbandonata da un aristocratico, ritrova l’uomo in tribunale, dove lei è imputata, tra i giurati. Dopo avere cercato inutilmente di farla assolvere, l’aristocratico, pentito, decide di seguire la donna in Siberia. Secondo il critico Morandini Resurrezione è “un dramma decoroso ed efficace con un’intensa interpretazione della Duranti”. Tra il 1944 e il 1945, vennero anche prodotti i ‘minori’ Scadenza trenta giorni, di Luigi Giacosi (1944), Il processo delle zitelle di Carlo Borghesio (1944); Fiori D’Arancio, di Dino Hobbes Cecchini (1945) e Casello n. 3, di Giorgio Ferroni (ultimato a Budrio nel 1945).

         Elenchiamo, infine, le pellicole di Salo’ la cui lavorazione venne interrotta dal termine del conflitto: L’ultimo sogno, di Marcello Albani (iniziato a Budrio nel 1945); Caposaldo, di Andrea Miano (iniziato a Genova nel 1945); La signora è servita, di Nino Giannini (iniziato a Torino nel 1945); Rosalba, di Ferruccio Cerio (iniziato a Venezia nel 1945); L’angelo del miracolo, di Piero Ballerini (iniziato a Venezia nel 1945); Posto di blocco, di Ferruccio Cerio (iniziato a Venezia nel 1945); Trent’anni di servizio, di Mario Baffico (iniziato a Venezia nel 1945), Vi saluto dall’altro mondo, di Dino Hobbes Cecchini (iniziato a Torino nel 1945) e I figli della laguna, di Piero Costa, interpretato da Luciano De Ambrosis, Carlo Micheluzzi e Anna Bianchi. Il primo ciack de I figli della laguna (prodotto dalla Scalera) risale a pochi giorni prima del tracollo della R.S.I., e cioè il 20 aprile del 1945, tanto è vero che Piero Costa dovette interrompere i lavori. Il film verrà recuperato ed ultimato nel dopoguerra da Francesco De Robertis.

         Dopo il 25 aprile, buona parte dei registi, sceneggiatori ed attori che avevano lavorato per la R.S.I. (ma anche alcuni che erano rimasti a Roma) vennero emarginati, senza contare quelli che finirono processati, come gli uomoristi Marcello Marchesi, Vittorio Metz, il musicista Alessandro Dereviski, il comico Nuto Navarrini, l’attore Nino Crisman, l’attrice Mariuccia Dominicani (accusata di essere stata l’amante di Ettore Muti), la soubrette Vera Rol, che subì anche lo stupro e la rasatura dei capelli, e Valentina Cortese che, nonostante fosse da tempo nella lista degli epurabili “per avere distribuito, nel dicembre ‘43, doni ai feriti della milizia fascista e delle SS tedesche al teatro dell’Opera di Roma”, riuscirà fortunatamente ad evitare guai. Nel redigere le liste di proscrizione dei “cineasti fascisti” si mise in luce per indefesso zelo, Gianni Puccini, già redattore del periodico Cinema e uomo protetto da Vittorio Mussolini: “Questi – disse un giorno additando alcune foto di produttori, registi e attori incriminati – sono i traditori. Guardiamoli bene in faccia e non dimentichiamoli”. (Michele Sakkara e Franco Morani).

         Cosa più facile a dirsi che a farsi se si considera che dopo l’8 settembre e durante il periodo della Repubblica di Salò gli artisti che accettarono (anche per non cadere dell’indigenza) di continuare a lavorare al cinema, in teatro o nell’avanspettacolo per i tedeschi o per i fascisti furono moltissimi. Ne citiamo soltanto alcuni: Giulio Donadio, Gornj Kramer, Natalino Otto, Gilberto Govi, Memo Benassi, Renzo Ricci, Eva Magni, Ruggero Ruggeri, Elena Zareschi, Giulio Stival, Fanny Marchiò, Diana Torrieri, Paolo Carnabuci, Evi Maltagliati, Roberto Villa, Luigi Cimara, Dina Galli, Wanda Osiris, Renato Rascel, Nino Taranto, Marisa Maresca, Ugo Tognazzi e Walter Chiari, autori questi ultimi due, nel 1944, di una popolare trasmissione della  ‘nordista’ ‘Radio Tevere, voce di Roma libera’ (emittente creata nella primavera del 1944 a Busto Arsizio dall’EIAR).

         Di un certo interesse, soprattutto storiografico, sono anche i pochi (una sessantina in tutto) cinegiornali Luce prodotti tra la fine del 1943 e il marzo del 1945. Questi propongono una discreta gamma di notiziari, incentrati soprattutto su fatti sportivi (campionati di calcio, concorsi ippici e addirittura battute di caccia); o su reportage rassicuranti, incentrati sull’attività industriale, l’artigianato o le iniziative governative mirate a rendere meno pesante la vita di una comunità sottoposta a pesanti restrizioni materiali e alle continue rappresaglie aeree alleate. Per quanto concerne i resoconti di guerra, i cinegiornali di Salò attinsero a piene mani dalla documentaristica tedesca: produzione che, oltre a vantare una notevole qualità, risultava anche utile per mettere in evidenza la forza e la determinazione dell’alleato, dotato ancora – nonostante la piega decisamente sfavorevole assunta dal conflitto – di un armamento e di un equipaggiamento di gran lunga superiore a quello del vecchio Regio Esercito, per non parlare di quello, ancora più misero, di cui disponeva la R.S.I.

         I pochi documentari relativi all’attività dell’esercito della Repubblica del nord riguardano alcuni filmati  dei corpi più addestrati e specializzati di Salò, come ad esempio i paracadutisti della Folgore, i battaglioni della X Mas del comandante Junio Valerio Borghese, i pochi reparti motorizzati e blindati della Guardia Nazionale Repubblicana durante due sfilate avvenute a Torino (inverno ‘44, marzo ‘45), e gli altrettanto magri stormi da caccia dell’Aeronautica della R.S.I. ai quali spettò il difficile se non disperato compito di difendere le città settentrionali dall’offensiva aerea statunitense e britannica. Non mancarono riprese sull’attività svolta dai reparti femminili e ausiliari. Alcune pellicole, non molte in verità, riportano le sequenze di operazioni condotte da unità alpine della Divisione Monte Rosa (in occasione dell’ultima, breve offensiva italo-tedesca dei primi del ‘45 in Garfagnana contro le forze statunitensi) e dalle Brigate Nere contro nuclei partigiani, sia italiani che iugoslavi, nelle zone montane del nord e del nord-est. Da ricordare, infine, forse il più importante documentario del periodo repubblicano, l’Adunata al Lirico, che riporta l’ultimo discorso di Mussolini tenuto appunto, il 16 dicembre 1944, al teatro Lirico di Milano. Il filmato contiene anche una panoramica sulla folla dei sostenitori del duce fuori dal teatro, una sfilata di truppe repubblicane e di Brigate nere e uno spezzone di un intervento del duce issato per l’occasione sulla torretta di uno degli ultimi carri armati rimasti della Repubblica Sociale Italiana (un vecchio, ma lustrato a nuovo Ansaldo M14), presso il castello Sforzesco.

         Dopo avere ripercorso la produzione del periodo di Salò, può risultare interessante effettuare un sintetico confronto con il cinema francese di “occupazione” e con quello della Francia di Vichy, dove produttori e registi seppero produrre un ragguardevole quantitativo di pellicole, buona parte delle quali nettamente superiori a quelle sfornate dalla R.S.I. Tra il 1940 e il 1944, nella Francia sotto controllo tedesco e nei territori posti sotto la giurisdizione del governo del maresciallo Pétain vennero realizzati ben 226 film, alcuni dei quali di valore assoluto[2]. “Truffaut – ha riportato Ranieri Polese sul ‘Corriere della Sera’ – ne giudicava interessanti almeno novanta”. Ed oggi il regista Bertrand Tavernier (autore nel 2001 del film-scandalo, Laissez-passer, dedicato al cinema francese di quegli anni: pellicola che ha fatto indignare i critici marxisti di ‘Libération’ e quelli radical chic di ‘Le Monde’), si spinge ancora più avanti, dichiarando che per una decina di titoli si può parlare addirittura di capolavori. Come ad esempio Il corvo (1943) di Henri-Georges Clouzot, Evasione (1943) di Claude Autant-Lara e La conversa di Belfort (1944) di Robert Bresson.Seppure di marca francese, la discussione sul cinema francese del periodo bellico in qualche modo può riguardare anche noi italiani, costringendoci a riaprire un più serio, equo e circostanziato dibattito sul cinema di Salò e su chi lo fece, sulla falsariga di quello innescato da Tavernier. Alla prima del suo film, il regista descrisse così il clima culturale che aleggiava sul cinema transalpino d’ ‘occupazione’. “Il comportamento del mondo del cinema francese tra l’estate del 1940 e quella del 1944 fu molto differenziato. Ci furono casi clamorosi di appiattimento nei confronti delle direttive di Berlino e ci furono posizioni più defilate. Vennero comunque prodotti parecchi buoni film. Capitarono anche vicende paradossali. Per esempio, ci fu chi lavorò per la famigerata Continental (la potente ed efficiente casa creata il 3 ottobre 1940 dall’abile e colto magnate tedesco Alfred Greven per produrre, ma anche esportare e importare film tedeschi e francesi, n.d.a.) svolgendo nel contempo attività coraggiose a sostegno della resistenza, ma che nell’immediato dopoguerra venne comunque discriminato per sospetto collaborazionismo con le autorità naziste. Con Laissez-passer ho voluto documentare tutto questo”.

Va ricordato che il 2 dicembre 1940, nel tentativo di controbilanciare lo sfavorevole rapporto di forze con l’industria tedesca, il governo di Vichy creò il COIC (il Centro Nazionale di Cinematografia diretto in un primo tempo da Raoul Ploquin e poi da Louis-Emile Galey), organismo che si avvalse della collaborazione di bravi tecnici e specialisti tra cui Robert Buron e Christine Gouze-Rénal che, nel 1944, passeranno alla Resistenza.

 Molti furono i nomi illustri che accettarono di lavorare per la Continental o per altre case (Tobis-Ufa o Ace), ottenendo buoni se non ottimi risultati. Tra questi – come ricorda René Chateau nel suo Le Cinéma français sous l’Occupation (1940-1944) – l’eccellente attrice Arlette-Léonie Marie Julie Bathiat (in arte Arletty) e le brave Martine Carole e Corinne Luchaire, lo scrittore e sceneggiatore Louis Chavance, i registi e sceneggiatori Sacha Guitry, Henri Decoin e Albert Valentin, e attori del calibro di Pierre Fresnay e Fernand Contandin (Fernandel). Un posto a parte spetta però ad un regista, il comunista Louis Daquin, che nei giorni della Liberazione si metterà in luce come “grande epuratore dei cineasti e degli attori collaborazionisti”, ma che nel 1941 aveva fatto carte false per lavorare a Nous les gosses, film patrocinato dall’influente Georges Lamirand, segretario generale alla Jeunesse (la Gioventù Nazionale), producendo poi, sempre con l’appoggio del governo di Vichy, Le voyageur de la Toussaint (1941) e Premier de corde (1943).

Come annota René Chateau attraverso la Continental (ma anche grazie alle case Tobis-Ufa e alla Ace) Goebbels permise di fatto ai registi, agli sceggiatori e agli attori francesi rimasti in patria di proseguire con il loro lavoro, tracciando però per la ‘nuova’ cinematografia francese una precisa e rigida linea politica da seguire: “Il cinema tedesco dovrà dominare l’Europa, mentre quello francese potrà occuparsi soltanto del mercato nazionale”. Attraverso la casa di produzione Continental, Goebbels avrebbe infatti voluto imporre ai registi d’oltralpe la direzione di film a respiro locale, preferibilmente commedie e noir, a discapito di quelli più impegnati (“Ho dato direttive molto chiare in proposito – scrisse nel 1941 Goebbels a Berlino – affinché in Francia vengano prodotti soltanto film di svago, carini, ma anche cretini (…) Il pubblico si accontenterà”). Sia nella Francia occupata sia in quella di Vichy molti artisti francesi riusciranno però a muoversi con una certa libertà e soprattutto con rinnovata energia. Proprio quella che mancò al cinema di Salò, lasciato praticamente allo sbando, senza fondi e soprattutto senza una seria guida. “Paradossalmente, il periodo 1940 – 1944 si rivelò un vero e proprio âge d’or per il cinema francese. Sbarazzatosi della forte concorrenza americana e degli stereotipi culturali ed interpretativi degli anni Trenta, esso poté infatti trovare, nonostante il controllo e le pressioni naziste (nel maggio del ‘42 i tedeschi tentarono senza successo di fagocitare il cinema francese trasferendo registi e attori a Berlino, n.d.a.), nuove forme di ispirazione e sperimentare nuovi linguaggi e soggetti che, dopo la guerra, verranno ulteriormente sviluppati”. (Edward Borsboom).

Secondo Jean Cocteau, “tra il 1940 e il 1944, la Continental, la Tobis-Ufa e l’Ace ebbero il merito di scoprire numerosi grandi talenti del cinema francese fino ad allora sconosciuti, come Henry-Georges Clouzot, autore del capolavoro Le Corbeau, Jean Dellanoy, Jacques Becker, Claude Autant-Lara, Robert Bresson e André Cayatte” (Michele Sakkara e Franco Morani, op. cit.).

         Nella fattispecie, tra il 1941 e il 1944, la sola Continental produrrà 30 film (11 nel 1941, sette nel 1942, undici nel 1943 e uno nel 1944). E secondo il giudizio di buona parte dei critici francesi contemporanei, non saranno poche le pellicole ad occupare, sotto il profilo tecnico e artistico, un posto di sicuro rilievo. Come L’assassinat du Père Noël (1941) di Christian-Jaque; Premier rendez-vous (1941) di Henri Decoin; Le dernier des six(1941) di Georges Lacombe; Les Inconnus dans la maison (1942) di Henri Decoin; L’assassin habite au 21 (1942) di Henri-Georges Clouzot; La symphonie fantastique (1942) di Christian-Jaque; La main du diable (1943) di Maurice Tourneur; La vie de plaisir (1943) di Albert Valentin e La ferme aux loups (1944) di Richard Pottier.          Dopo la liberazione di Parigi, alla fine di agosto del 1944,  buona parte dei registi, degli sceneggiatori e degli attori che durante l’occupazione tedesca e il governo di Vichy avevano lavorato con le case di produzione Continental, Tobis-Ufa e Ace, vennero sottoposti a rapidi processi farsa. Data la pochezza e la fragilità delle accuse, pochi di essi furono condannati a morte o a pene detentive, mentre molti subirono l’interdizione perpetua dal lavoro. Trascinata in un gremito tribunale, la bella e vivace attrice Arletty, accusata di avere “tradito la Francia sessualmente” in quanto innamoratasi del trentatreenne colonnello della Luftwaffe Hans Jurgen Serring, rispose al pubblico ministero, con la spavalderia e il senso dell’umorismo che l’avevano sempre contraddistinta: “Mon coeur est français mais mon cul est international !”. Alcuni anni dopo, in un libro di memorie, Arletty annoterà che “i veri collaboratori del periodo di occupazione tedesca furono proprio quei registi, sceneggiatori e attori che dopo il 1944 accettarono di slancio di girare i film sulla Resistenza transalpina


[1] Caddero insieme, prima lei, poi lui, Luisa Ferida e Osvaldo Valenti, la notte del 30 aprile 1945, davanti al numero 15 di via Poliziano, nel capoluogo lombardo ormai dominato dalle bande e dalle draconiane leggi partigiane. Quando gli uomini di Marozin aprirono il fuoco su di loro, l’attrice era incinta di quattro mesi, mentre l’attore stringeva nelle mani la scarpina di Kim, il loro piccolo figlio nato e vissuto solo 5 giorni del 1942. Ma Milano, in quei giorni, non era ben disposta né al romanticismo e tanto meno alla pietà. Ufficialmente, i due attori furono “giustiziati” per le efferatezze, di cui si sarebbero resi corresponsabili a Villa Triste, teatro delle gesta della famigerata “banda Koch”. Eppure, né al processo farsa inscenato contro di loro la notte precedente la fucilazione né in quelli celebrati dopo la guerra a carico dei vari componenti della banda Koch, qualcuno riuscì a trovare un testimone non solo della loro ferocia, ma anche della semplice partecipazione a episodi di guerra criminale. Anzi – come ben documenta Odoardo Reggiani nel suo ‘Luisa Ferida – Osvaldo Valenti – Ascesa e caduta di due stelle del cinema’, Edizioni Spirali  – nel breve dramma di Villa Triste (Reggiani ricorda al lettore come l’attività di Koch si sviluppò a Milano per soli 29 giorni, dal 26 agosto al 24 settembre 1944, quando tutta la banda fu fatta arrestare per ordine di Mussolini), Valenti non solo frequentò la villa unicamente per motivi secondari, ma si adoperò con successo per alleviare le sofferenze dei prigionieri là rinchiusi, come testimoniarono prima e dopo la fine della guerra civile proprio alcune delle vittime di Koch. Osvaldo Valenti e Luisa Ferida furono fatti assassinare da Sandro Pertini, allora capo socialista degli insorti milanesi assieme ad Aldo Sereni (comunista) e Leo Valiani (azionista), per punire con esemplarità la loro unica colpa: l’aver prestato alla Repubblica Sociale Italiana la loro “immagine” di successo, bellezza e (effimera) fortuna. Che questa, solo questa e non altra fosse stata la colpa di Luisa Ferida e Osvaldo Valenti lo sostenne già anni addietro l’intellettuale francese Jean Baudrillard: ‘La loro esecuzione – disse Baudrillard – non aggiunge niente alla gloria della Resistenza, al contrario ci si affretterà a calare il sipario su questo atto vergognoso e infamante che ha tutti gli aspetti, tutti i caratteri di un aggiustamento di conti pur non essendoci conti propriamente politici da regolare’. Luisa Ferida riposa ancora accanto a Osvaldo, al campo X del cimitero milanese del Musocco. (Massimiliano Mozzanti, Nuove rivelazioni in un libro di Odoardo Reggiani Così cadde una stella). Ancora riguardo la decisione di fucilare Luisa Ferida e Osvaldo Valenti riportiamo una frase (testuale) di Sandro Pertini: “Non voglio sentire ragioni. Avevano scelto Salò e la loro fama ha giocato a favore dei repubblichini. Dovevano pagare!”, da Era Cinecittà, di Oreste Del Buono e Lietta Tornabuoni, Bompiani Edizioni, Milano 1980.

[2] Nell’estate del 1940, la produzione cinematografica francese passa di fatto sotto controllo dei tedeschi, peraltro già presenti con la Tobis, filiale della germanica UFA “In questo periodo – annota Cristina Bragaglia nel suo ’Storia del Cinema Francese’, edizioni Newton, 1995 –  i maggiori registi sono già all’estero (…) René Clair in Inghilterra, Renoir, Feyder e Duvivier negli Stati Uniti. E anche attori come Jean Gabin e Michèle Morgan prendono la via dell’esilio. Ma ai molti sceneggiatori, registi e attori che evidentemente non sentono di avere troppo da temere dai tedeschi, il lavoro non manca, anche se essi si vedono in qualche modo costretti ad abbandonare temi sociali e troppo ideologicizzati della seconda metà degli anni Trenta, per ripiegare sul genere“fantastico, come mezzo di espressione del mondo interiore. E’ la scelta che compiono Carné e Prévert, con Les visiteurs du soir (1942), una favola ambientata nel Quattrocento (…) Alla tendenza fantastica deve essere ascritto anche L’éternel retour (1943) di Jean Delannoy, alla cui sceneggiatura collabora Jean Cocteau che interpreta e sceneggia anche Le baron fantome (1942) di Serge de Poligny. Sotto occupazione tedesca continueranno a lavorare anche altri nomi importanti, come Grémillon, che nel 1944, per conto della nazista UFA, girerà l’ottimo Le ciel est à vous.E sempre nello stesso periodo “nero” si affacciarono anche registi di una nuova generazione, come Robert Bresson, Jean Becker ed Henri-Georges Clouzot”.

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