Il battito doppio del tempo. Di Camilla Romanengo.

ll tempo.

Dalla misurazione scientifica alla percezione interiore, un’indagine sul tempo e i suoi molteplici aspetti.

Di tutte le illusioni umane, quella del tempo è forse la più paradossale. Siamo convinti di conoscerlo solo perché lo vediamo passare, eppure nulla ci sfugge di più. Ci convinciamo di poterlo contare, ordinare, perfino gestire, quasi fosse una risorsa: minuti da spendere, ore da risparmiare, giornate da riempire. Ma dietro la precisione degli orologi si nasconde una contraddizione elementare: il tempo che misuriamo coincide con quello che viviamo. Non basta il cronometro a catturarlo, né la scienza a spiegarne la sostanza, ogni tentativo di definirlo sembra rivelarne una nuova faccia.

È in questa tensione — tra il tempo che la fisica calcola e quello che la coscienza abita — che si gioca la nostra idea di realtà. Forse il tempo non è una dimensione, ma un fraintendimento condiviso: un modo elegante per fingere che ci sia un ordine nella nostra attesa.

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Per la fisica classica, il tempo è stato a lungo simbolo di ordine. Isaac Newton, nel suo mondo meccanico, lo definiva “assoluto, vero e matematico”, un fiume uniforme che scorre indipendentemente dagli eventi e dagli osservatori¨; In quest’immagine si riflette la fiducia di un’epoca che credeva nella trasparenza del reale: il tempo come metronomo dell’universo, il ritmo di una macchina perfetta. Galileo Galilei lo aveva già ridotto a variabile sperimentale, Renato Cartesio a grandezza geometrica. Il mondo era una struttura logica, e il tempo, la sua grammatica.

L’arrivo della modernità ha incrinato questa certezza. Albert Einstein, con la relatività, ha tolto al tempo la sua neutralità: non scorre “in sé”, ma si curva, si dilata, si piega con lo spazio. Due orologi che si muovono a velocità diverse non segnano più gli stessi istanti: il tempo, da assoluto, diventa relazione. E mentre la relatività generale intreccia spazio e tempo in un unico continuum, Oppenheimer[1] spinge la riflessione alle estreme conseguenze, mostrando come, nel collasso della materia, il tempo stesso possa spezzarsi. Laddove nasce un buco nero, il tempo rallenta fino quasi a fermarsi. La fisica scopre così il suo stesso limite: ciò che misura sfugge nel punto in cui dovrebbe essere più puro.

Isaac Newton

Il Novecento, con la meccanica quantistica, ha reso questa crisi ancora più radicale. Schrödinger[2] descrive l’universo come un’onda di probabilità che evolve nel tempo, ma il tempo, in questa teoria, non è più un flusso continuo: è una successione di probabilità, una vibrazione. Heisenberg[3], introducendo il principio di indeterminazione, compie il passo successivo: se non possiamo conoscere con precisione posizione e velocità di una particella contemporaneamente, anche il tempo cessa di essere un parametro stabile. È un margine, un’incertezza. L’universo non procede come un meccanismo ordinato,  ma come una sinfonia di eventi che si generano e si dissolvono. Eppure, anche di fronte alle più ardite formulazioni scientifiche, resta un punto cieco: l’esperienza del tempo. La fisica lo misura, ma non lo vive. È qui che il pensiero filosofico riemerge come contrappunto necessario, ricordandoci che il tempo non è soltanto una coordinata dell’universo, ma una dimensione della coscienza.

Werner Heisenberg.

Sant’Agostino, più di ogni altro pensatore tardo antico, seppe penetrare nel mistero del tempo con l’occhio di chi guarda non all’universo, ma all’anima. Nelle Confessiones[4] l’idea del tempo si spoglia della veste fisica per diventare una tensione interiore, un dramma dello spirito. Per lui, il passato non esiste più, il futuro non esiste ancora, e ciò che chiamiamo “presente” non è che un confine sottile, quasi inesistente, tra ciò che è stato e ciò che sarà. Eppure, l’uomo vive immerso in quest’illusione di continuità: misura il tempo non fuori da sé, ma nel movimento della propria coscienza.

Sant’Agostino.

Nel celebre passo dell’undicesimo libro, Sant’Agostino scrive che il tempo “non è altro che distensio animi[5]”: distensione dell’animo, tensione dell’essere tra memoria e attesa. L’uomo è un arco teso tra ciò che ricorda e ciò che spera, e la corda che vibra in mezzo è la coscienza stessa. Non c’è orologio che possa misurare questa oscillazione, perché il tempo agostiniano è un fenomeno spirituale, non cosmico. Il sole, le stagioni, il moto delle stelle non sono che simboli esteriori di una realtà interiore molto più profonda: il tempo come esperienza della caducità, come consapevolezza della perdita e desiderio di eternità.

In questo senso, Sant’Agostino anticipa in modo sorprendente alcune intuizioni moderne: la soggettività del tempo, la relatività della sua percezione, la frattura tra durata interiore e cronologia esterna. L’uomo, secondo lui, non vive nel tempo: è tempo. È memoria di ciò che è stato, attenzione a ciò che è, attesa di ciò che sarà. E proprio in questa triade — memoria, presenza, speranza — si consuma la tragedia e la grandezza dell’esistenza umana.

San Tommaso d’Aquino[6], secoli più tardi, tenta di conciliare questa interiorità con la necessità cosmica. Il tempo, per lui, è la misura del movimento, la cadenza con cui la creazione si dispiega. Dio, eterno e immutabile, non abita il tempo, ma lo fonda nella creazione. L’uomo, invece, vi è immerso: la sua finitezza è scandita dal mutamento, e in questo scorrere egli intuisce, con nostalgia, ciò che non muta. L’eternità diventa così la controparte invisibile del tempo umano, la sua ferita e la sua promessa.

San Tommaso d’Aquino.

In questa prospettiva, il tempo non è più solo un fenomeno fisico, ma anche un riflesso dell’ordine divino. Ogni istante diventa parte di un disegno più ampio, in cui la materia e lo spirito si incontrano. Il movimento dei corpi, per quanto misurabile, è anche segno della tensione dell’uomo verso ciò che trascende. San Tommaso trasforma così la cronologia in teologia: il tempo non è un accidente della creazione, ma la lingua con cui Dio comunica la sua presenza nel divenire.

Eppure, in questa armonia tra il finito e l’eterno, rimane un’inquietudine sottile. L’uomo percepisce che ogni secondo che passa lo allontana da ciò che è stabile, eppure lo avvicina a un compimento che non può comprendere del tutto. Il tempo diventa quindi un atto di fede: misurando il mondo, l’uomo misura anche la distanza tra sé e l’infinito.

Se con San Tommaso il tempo conserva ancora un senso di armonia, inscritto in un disegno divino, con Friedrich Nietzsche questa visione si spezza; il tempo non è più la misura dell’ordine, ma il teatro del caos, il ritmo di un mondo che non ha più un centro né una direzione.

Prima di questo strappo, però, Giambattista Vico[7] aveva già incrinato la linearità della storia che la modernità dava per scontata. Per lui, il tempo umano non procede in linea retta, ma in corsi e ricorsi, cicli nei quali le civiltà nascono, si sviluppano e decadono per poi rinascere sotto nuove forme. Non è un eterno ritorno identico, ma un movimento a spirale: ogni epoca ripete le precedenti, ma le trasforma, le porta un passo oltre. Vico riconosce nel tempo non solo il mutamento, ma anche la memoria collettiva che lo attraversa: l’uomo non è spettatore del divenire, ne è l’artefice, colui che dà senso al caos della storia attraverso i miti, il linguaggio, le istituzioni.

Giambattista Vico.

In questo modo, la sua filosofia diventa una soglia tra l’ordine teologico e il disincanto moderno: da un lato conserva la ciclicità sacra delle origini, dall’altro la restituisce all’immanenza dell’agire umano. È un tempo che non appartiene più a Dio, ma alla storia, e che prepara, in silenzio, il passaggio al pensiero tragico di Nietzsche.

Il filosofo tedesco, infatti, spezza ogni legame tra il tempo e l’eternità. Laddove la tradizione cercava un principio, un fine o una redenzione, egli vede soltanto un divenire senza dopo, un fluire che non tende a nulla se non a se stesso. Il tempo, per lui, non procede in linea retta ma si curva su se stesso, ripetendo all’infinito ogni gesto, ogni dolore, ogni gioia. “L’eterno ritorno[8]” non è un conforto, ma una vertigine: l’uomo è chiamato a dire sì a una vita che si ripete identica, senza giudizio né riscatto.

In questo orizzonte privo di salvezza, il tempo non è più la misura della caduta, ma la scena della libertà. Accettare l’eterno ritorno significa abbracciare il divenire come unica forma di eternità. Non c’è più Dio a redimere il tempo, ma la volontà umana a trasfigurarne il peso. Così il tempo, da condanna, si fa atto di forza: non qualcosa da superare, ma da affermare, nella pienezza fragile e terribile dell’istante.

Quando Henri Bergson[9] rompe con la tradizione positivista, questa tensione si ribalta. Contro il tempo misurato, propone la durée réelle, la durata vissuta: un flusso continuo, qualitativo, che nessun orologio può catturare. La scienza seziona il tempo in istanti identici, ma li fonde in un’unica corrente. Ogni momento contiene i precedenti, come le onde di una stessa marea. È un pensiero che riscatta la soggettività dall’astrazione: la vita non è una somma di secondi, ma espansione di memoria.

Edmund Husserl[10] raccoglie l’eredità agostiniana e la struttura con rigore fenomenologico: la coscienza del tempo non è una sequenza, ma un campo di tensioni. Ogni presente porta con sé una ritenzione (ciò che è appena stato) e una protensione (ciò che sta per venire). Non viviamo mai in un istante puro, ma in una durata che si piega e si prolunga. Martin Heidegger[11] ne trarrà la conseguenza estrema: l’essere umano è tempo. Non perché ne subisca lo scorrere, ma perché il suo stesso esserci è proiettato verso la fine. La temporalità diventa ontologia, e l’attesa della morte, la condizione del senso.

Da Sant’Agostino a Heidegger, il tempo si sposta dal cosmo alla coscienza, dalla misura al vissuto. Ma non è solo una questione di filosofia: è una rivoluzione antropologica. La mente umana non registra il tempo come un flusso uniforme, lo deforma in base all’intensità dell’esperienza. Paul Fraisse[12] e Jean Piaget[13] lo hanno mostrato empiricamente: l’attesa dilata i minuti, la paura li frammenta, la gioia li brucia. Persino il cervello, secondo le neuroscienze contemporanee, non possiede un “centro del tempo”, ma una rete di aree che collaborano per costruirlo. Il tempo psicologico è un’opera collettiva dell’organismo.

Martin Heidegger.

La letteratura lo aveva capito ben prima dei laboratori. Marcel Proust[14] scava nel tempo con la precisione di un anatomista: il ricordo non è il passato, ma il suo ritorno nella coscienza, trasfigurato. James Joyce[15], in Ulysses, dissolve la cronologia per restituire la simultaneità del pensiero; Virginia Woolf[16], in Mrs Dalloway, lascia che un solo giorno contenga un’intera vita. Tutti, insomma, raccontano lo stesso scarto: il tempo non passa, ma si ricrea in ogni coscienza che lo abita.

L’antropologia, osservando l’uomo nella pluralità dei suoi mondi, mostra quanto il tempo sia un’invenzione culturale prima che naturale. I popoli agricoli vivono di cicli: il tempo si manifesta come le stagioni, come la semina e il raccolto. Le società industriali, invece, lo concepiscono come una linea retta: il progresso, l’avanzamento, la fretta. In molte culture africane, il futuro non è davanti, ma dietro, invisibile, perché non lo si conosce ancora; ciò che è visibile è il passato, che sta davanti agli occhi. Ogni civiltà organizza il tempo secondo la propria relazione con la vita e con la morte.

Ecco allora che le due facce del tempo — quella fisica e quella soggettiva — non si oppongono, ma si inseguono. L’una misura l’universo, l’altra gli dà senso. Quando l’uomo formula equazioni o racconta storie, non fa altro che tentare lo stesso gesto: afferrare il flusso che lo attraversa. È il paradosso più intimo della condizione umana: siamo fatti di tempo, ma passiamo la vita a cercare di sottrarci ad esso.


[1] J. Robert Oppenheimer (1904 – 1967), fisico teorico statunitense e direttore del progetto Manhattan, guidò la realizzazione della bomba atomica. Figura complessa e controversa, divenne simbolo del conflitto tra progresso scientifico e responsabilità morale dello scienziato.

[2] Erwin Schrodinger (1887 – 1961) fu un fisico e un pensatore austriaco, tra le menti più originali del Novecento. Celebre per l’equazione che porta il suo nome e per il paradosso del “gatto”; cercò per tutta la vita di conciliare scienza e filosofia, interrogandosi sul significato ultimo della realtà, del tempo e della coscienza.

[3] Werner Heisenberg (1901 – 1976) fu un fisico tedesco, tra i principali fondatori della meccanica quantistica. Premio Nobel per la Fisica nel 1932, è noto soprattutto per il principio di indeterminazione, che rivoluzionò la comprensione dei fenomeni subatomici e segnò una svolta decisiva nella fisica del XX secolo.

[4] Le Confessiones di Sant’Agostino (394 – 400 ca.) sono un’opera fondamentale della letteratura e della filosofia cristiana, in cui l’autore narra la propria vita, le lotte interiori e il percorso verso Dio. Nel libro XI, cap. 26, Agostino affronta il tema del tempo, riflettendo sul fatto che passato e futuro esistono solo nella mente umana, mentre il presente è l’unico istante realmente vissuto, trasformando così il tempo in un’esperienza interiore più che in una realtà esterna.

[5] Termine latino che può essere tradotto letteralmente come “tensione dell’anima”.

[6] San Tommaso d’Aquino (1225 – 1274) fu un filosofo e teologo italiano, tra i massimi esponenti della scolastica. Nelle sue opere, in particolare nella Summa Theologiae, conciliò ragione e fede, sviluppando una visione ordinata dell’universo in cui il tempo è misurabile e subordinato all’eternità di Dio, riflettendo un’armonia tra legge naturale e piano divino.

[7] Giambattista Vico (1668 – 1744) fu un filosofo e storico italiano, celebre per La scienza nuova, in cui propone la teoria dei “corsi e ricorsi teorici”, una visione ciclica della storia. Secondo Vico, il tempo non è solo una successione di anni, ma un intreccio di eventi, leggi e culture umane, che si comprendono pienamente solo osservando le dinamiche della civiltà nel loro insieme.

[8] Concetto centrale nella filosofia di Nietzsche (1844 – 1900), secondo cui il tempo non procede linearmente verso un fine, ma si ripete ciclicamente.

[9] Henri Bergson (1859 – 1941) fu un filosofo francese, vincitore del premio Nobel per la Letteratura del 1927, noto per la sua originale riflessione sul tempo e la coscienza. Nelle opere principali come Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), materia e memoria (1896) e L’evoluzione creatrice (1907) Bergson distingue il tempo della vita vissuta, la durée, dal tempo misurabile della scienza, sottolineando la dimensione qualitativa e continua dell’esperienza.

[10] Edmund Husserl (1859 – 1938), filosofo tedesco, fondatore della fenomenologia e tra le figure più influenti della filosofia del XX secolo. Insegno a Gottingen, Halle e Friburgo, influenzando pensatori come Heidegger e Merleau-Ponty. Nelle sue opere principali Ideen e La Fenomenologia dello spirito, analizzò il tempo come struttura della coscienza, mostrando come passato, presente e futuro siano modi in cui la mente organizza l’esperienza.

[11] Martin Heidegger (1889 – 1976) fu un filosofo tedesco tra i maggiori del XX secolo, noto per aver rinviato la filosofia dell’essere e influenzato profondamente l’esistenzialismo e la fenomenologia. In Essere e tempo (1927) sviluppa una concezione del tempo centrata sull’esperienza concreta dell’uomo, in cui passato, presente e futuro non sono semplici istanti cronologici, ma modi in cui l’esistenza si comprende, si proietta e si realizza nel mondo.

[12] Paul Fraisse (1911 – 1996), psicologo francese, studiò a fondo la percezione del tempo. Nella sua opera Psychologie du temps (1963) mostra come la percezione temporale non sia oggettiva, ma dipenda dall’attenzione, dall’età e dalle condizioni emotive.

[13] Jean Piaget (1896 – 1980), psicologo svizzero, studiò lo sviluppo cognitivo nei bambini. In La naissance de l’intelligence chez l’enfant (1936) mostra come la comprensione del tempo evolva da percezioni intuitive a concetti più strutturati con la crescita.

[14] Marcel Proust (1871 – 1922), scrittore francese, esplora il tempo come esperienza interiore e memoria volontaria, soprattutto ne La recherche du temps perdu.

[15] James Joyce (1882-1941), scrittore irlandese, è celebre per Ulysses (1922), romanzo innovativo che rivoluziona la narrativa moderna attraverso lo stile del flusso di coscienza e la rappresentazione dettagliata della vita quotidiana di Dublino.

[16] Virginia Woolf (1882-1941), scrittrice inglese, con Mrs Dalloway (1925) innova la narrativa del Novecento, intrecciando riflessioni interiori dei personaggi e vicende quotidiane in uno stile fluido e psicologicamente intenso.

Bibliografia essenziale:

  • Enciclopedia Treccani – voce “Tempo (fisica)”
  • Istituto Nazionale di Fisica Nucleare – “Tempo della fisica, tempo della vita. L’INFIN al festivalfilosofia 2015”
  • Istituto Nazionale di Fisica Nucleare – “Einstein e la relatività generale”
  • NASA – “Black Holes and Time”
  • Enciclopedia Treccani – voce “Agostino d’Ippona”
  • Stanford Encyclopedia of Philosophy – “Augustine of Hippo”
  • Università di Siena – Tommaso d’Aquino
  • InStoria – “Sui corsi e i ricorsi della storia. Il pensiero di Vico”
  • European Journal of Philosophy – sezione su Heidegger e la temporalità
  • Phenomenology Online – Husserl, Edmund
  • Philosophy Now – articoli su Bergson e la durata
  • Università di Padova – “La percezione soggettiva del tempo”
  • Frontiers in Psychology – “Neural Networks for Time Perception and Working Memory”
  • Enciclopedia Treccani – voce “Tempo nella letteratura”

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