Le ‘fake news’: dal conio romano a Twitter. La lunga storia della menzogna organizzata. Di Camilla Romanengo.

Bugie e Propaganda.

Viviamo in un’epoca che ama definirsi “dell’informazione”, ma che troppo spesso somiglia piuttosto all’era della disinformazione. L’avvento dei social network, la rapidità con cui le notizie vengono prodotte e consumate e la crisi del giornalismo tradizionale, hanno alimentato la percezione che le cosiddette fake news siano un fenomeno esclusivamente contemporaneo, figlio dell’iperconnessione digitale. Eppure, la storia insegna che le menzogne organizzate, le manipolazioni dei fatti e le notizie inventate, hanno accompagnato l’umanità fin dall’antichità.

Oggi come ieri, esse non sono quasi mai semplici errori o fraintendimenti, bensì strumenti politici, economici e culturali per plasmare la percezione della realtà.  

Uno dei primi strumenti di “disinformazione di massa” furono le monete. Ben lontani dall’essere soltanto mezzi di scambio, i denari romani, i sesterzi e gli aurei costituivano un vero e proprio canale di propaganda politica. L’imperatore Ottaviano Augusto, ad esempio, fece coniare monete che non lo raffiguravano come il giovane ambizioso reduce da una guerra civile, bensì come princeps pacis[1], garante di stabilità e prosperità. Il messaggio inciso nel metallo aveva un valore persuasivo enorme: ogni transazione, ogni mano che riceveva una moneta era anche un’occasione di indottrinamento.

La falsificazione del reale non si limitava alle immagini: gli stessi cronisti potevano distorcere la realtà. Tacito, nelle sue Historiae[2], osserva che «le versioni dei fatti sono sempre incerte, e ciò che si tramanda dipende più dall’odio o dall’adulazione che dalla verità». Una riflessione che riecheggia sorprendentemente attuale.

Publio Cornelio Tacito.

Nel medioevo le fake news assunsero un volto religioso. Emblematico il caso della Donatio Constantini, il documento che avrebbe sancito il trasferimento del potere imperiale da Costantino al papa. Per secoli questo falso, elaborato nell’VIII secolo, legittimò il potere temporale della Chiesa di Roma. Solo nel 1440, l’umanista Lorenzo Valla ne smascherò l’inconsistenza attraverso un’analisi filologica.

Un altro celebre caso fu la leggenda del Prete Gianni: una missiva che descriveva un regno cristiano favoloso in Oriente, ricco di prodigi. E come scrisse a riguardo lo storico Charles Kimball[3], «L’illusione del Prete Gianni non fu mai un’innocua fantasia: fu la giustificazione di spedizioni, guerre e missioni, un motore geopolitico travestito da racconto».

Con l’avvento della stampa a caratteri mobili, le notizie false acquisirono una forza moltiplicata. Libelli e pamphlet diventarono veri e propri veicoli di propaganda. Come osserva la storica statunitense Elisabeth Eisenstein[4]: «La stampa non inventò la propaganda, ma ne amplificò la portata fino a livelli inimmaginabili».

La storica statunitense Elisabeth Eisenstein.

Già nel Seicento, gli avvisi popolari anticipavano la logica del sensazionalismo moderno. Un foglio che narrava di mostri marini o comete spettacolari poteva diffondersi proprio come un meme odierno. La verità non era la priorità: l’obiettivo era sorprendere, ma soprattutto vendere.

Nel XIX secolo, la stampa quotidiana di massa rese tutto ciò più esplosivo. Un esempio emblematico è il Great Moon Hoax del 1835: il “New York Sun” pubblicò una serie di articoli che descrivevano presunte scoperte sulla luna: creature viventi, pipistrelli umanoidi e una fiorente vegetazione. Una bufala orchestrata con cura, che giocava sul desiderio umano di meraviglia, sulla scarsa possibilità del lettore comune di verificare e sull’attesa romantica della scoperta scientifica. Il risultato? Vendite esplose e dibattiti pubblici infiammati.

Il Novecento perfezionò queste tecniche e fece della propaganda un sistema. Nei regimi totalitari la costruzione artificiale della verità fu programmata scientificamente: il Ministero della Propaganda del Terzo Reich, guidato da Joseph Goebbels, fece della comunicazione una macchina di suggestione collettiva. «Una bugia ripetuta mille volte diventa verità», gli viene attribuito dire — non tanto come motto retorico, quanto più come regola d’azione. La ripetizione ossessiva di slogan e immagini semplificate creava una realtà parallela, impermeabile al dubbio. Analoga tecnica venne messa in atto, in modo massiccio, anche in Unione Sovietica a partire da 1922, per diventare ossessiva e pervasiva tra il 1941 e il 1945.

Anche al di fuori delle dittature, la manipolazione dei fatti attraversava le democrazie. Durante la Prima e la Seconda guerra mondiale, i governi alleati non esitarono a diffondere notizie esagerate o del tutto fabbricate: racconti di atrocità nemiche, statistiche gonfiate, omissioni calcolate. La verità veniva filtrata, selezionata, ritoccata per mantenere alto il morale e giustificare sacrifici immani. In questo senso, la “guerra totale” non si combatteva solo nelle trincee o nelle città bombardate, ma anche nelle redazioni e nei cinegiornali, dove veniva deciso quali immagini, quali parole e quali emozioni consegnare all’opinione pubblica.

Il ministro tedesco della Propaganda Paul Joseph Goebbels.

Il secolo breve, dunque, portò a compimento una metamorfosi decisiva: la menzogna non era più soltanto lo strumento del principe o della Chiesa, ma il cemento ideologico delle masse, funzionale tanto a regimi totalitari, quanto alle democrazie, opposti per finalità politiche ma identici nella volontà di piegare la realtà a una narrazione conveniente.

Oggi la struttura è simile, ma i mezzi sono differenziati, istantanei, decentralizzati. Umberto Eco ha ammonito: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli». Frase che coglie perfettamente l’elemento nuovo: la possibilità per chiunque, senza alcun filtro, di diventare veicolo di disinformazione, con una potenza di diffusione mai vista.

Eppure, ridurre la questione a un problema di “imbecilli” sarebbe fuorviante. La vera novità introdotta dall’ecosistema digitale non è soltanto la voce amplificata di chi un tempo rimaneva ai margini del discorso pubblico, ma il modo stesso in cui l’informazione viene recepita e metabolizzata. Nel mondo dei social media la notizia non si misura in termini di verità, bensì di viralità. Ciò che conta non è l’attendibilità della fonte, ma la capacità del contenuto di suscitare emozioni forti — indignazione, paura, entusiasmo — che ne determinano la propagazione. La logica algoritmica delle piattaforme, calibrata per massimizzare l’engagement, privilegia il sensazionale sul verificato, l’urlo sulla spiegazione.

Il paradosso è che oggi la menzogna non ha più bisogno di un grande apparato centralizzato per imporsi: basta un singolo tweet, un post accattivante, un video manipolato che intercetti l’umore collettivo. La viralità si sostituisce all’autorità. Dove nel Novecento era necessario un ministero della propaganda, oggi è sufficiente un’infrastruttura tecnologica che premi ciò che attira l’attenzione. In questo senso, la disinformazione contemporanea non è soltanto “più veloce”, ma strutturalmente più democratica: chiunque può produrla, chiunque può diffonderla, chiunque può cadervi.

Eco, con la sua proverbiale lucidità, aveva colto l’aspetto più appariscente, ma il nodo sta nell’ambivalenza del mezzo. Lo stesso strumento che permette a un premio Nobel di condividere gratuitamente il proprio pensiero con milioni di persone, offre al contempo spazio a manipolatori, cospirazionisti e provocatori. Non è dunque soltanto un’invasione di voci incompetenti, ma la nascita di un’arena in cui vero e falso coesistono e competono a pari condizioni. È questa commistione, e non la sola stoltezza dei singoli, a rendere la sfida del presente radicalmente diversa dal passato.

Se le parole di Eco denunciano l’irruzione incontrollata di milioni di voci nello spazio pubblico, ciò che emerge in prospettiva storica è la costante: la notizia falsa non è un accidente della modernità, ma un fenomeno strutturale che attraversa i secoli, mutando soltanto strumenti e intensità. Dalle iscrizioni sulle monete romane alle cronache medievali, dagli opuscoli rinascimentali alla propaganda novecentesca, fino ai flussi incontrollati dei social media, l’inganno si è sempre adattato ai mezzi di comunicazione dominanti.

Questa traiettoria non mostra soltanto la persistenza della menzogna, ma anche la sua funzione: consolidare il potere, orientare le masse, costruire identità collettive. La differenza tra passato e presente non risiede dunque nella natura del fenomeno, bensì nella sua velocità e nella sua scala. Dove un tempo la falsificazione richiedeva lentezza, abilità retoriche e strumenti circoscritti, oggi l’ecosistema digitale moltiplica all’istante la portata di ogni affermazione, rendendo il falso più pervasivo e difficile da contenere.

Bibliografia:

  • Centro Internazionale per Giornalismo (ICFJ). Guida breve alla storia delle fake news e della disinformazione. 2018.
  • Istituto Treccani. Giornali e giornalismo di Angelo Agostini
  • Centro Studi sul Giornalismo Italiano (Università di Milano). Le fake news nella storia: dalla stampa al digitale.
  • Archivio di Stato di Torino. Notizie false, documenti falsi
  • Istituto Luce Cinecittà. Propaganda e cinema: documenti e immagini del Novecento.
  • Scriptamanent Italia. Roma e le fake news: storia della propaganda antica.
  • Giovani Reporter. Le fake news nella storia: Augusto e Costantino il Grande.
  • Corriere della Sera. Fake news: cinquecento anni fa si scoprì la più grande bugia storica.
  • Smithsonian Magazine. The Great Moon Hoax Was Simply a Sign of Its Time.
  • History.com. The Great Moon Hoax.
  • Le Scienze. Come le bugie diventano verità.
  • Facta News. La disinformazione prima di Internet – Comunicare per il potere.
  • La Stampa. Umberto Eco: “Con i social parola a legioni di imbecilli”.
  • YouTube. Propaganda and Fake News on Roman Coins.
  • “The Great Moon Hoax”, New York Sun (1835)
  • “The Treatise of Lorenzo Valla on the Donation of Constantine”, traduzione inglese (1922)

[1] Una locuzione latina che non ha un significato letterale e diretto, ma si riferisce al titolo di Ottaviano Augusto, “Princeps”, e al concetto di pace rappresentato dall’Ara Pacis. Il significato implicito si ricollega alla figura dell’imperatore romano come colui che ha portato pace e prosperità (la Pax Romana) dopo le guerre civili.

[2] Tacito (55-120 d.C.) è il maggiore storico della Roma imperiale. Autore delle Historiae, uno dei trattati storici più importanti della letteratura, sia per le notizie fornite sugli imperatori di Roma tra il 68 e il 70 d.C., sia per l’impianto ideologico che le sostiene.

[3] Teologo e studioso di religioni comparate, noto per i suoi libri When Religion Becomes Evil e When Religion Becomes Lethal. Ha dedicato la carriera a studiare il rapporto tra fede, violenza e politica, denunciando i rischi delle derive fondamentaliste. Professore all’Università dell’Oklahoma, è considerato una delle voci più autorevoli sul dialogo interreligioso.

[4] Storica americana specializzata nella storia della stampa e della comunicazione. È nota per il libro The Printing Press as an Agent of Change, in cui analizza come l’invenzione della stampa abbia trasformato cultura, politica e società in Europa. Il suo lavoro ha influenzato profondamente gli studi sulla diffusione delle idee e la storia dei media

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