L’inganno del pensiero. Julius Evola cento anni fa. Di Marco Iacona.

Julius Evola, filosofo della Tradizione e Artista.

Già nel 1925 Julius (Giulio) Evola è quel che si dice un uomo che guarda al mondo della cultura in ogni aspetto produttivo, intuitivo e gnoseologico. Cultura nel senso di cui direbbe Wilhelm Dilthey: un insieme, un’unione indissolubile, un aristotelico sinolo, un composto di individualità – Evola la chiamerebbe: equazione personale o personalità – e di vita, che è vita da sé astrattamente scientifica epperò concretamente vita da altri. Vita che tale individualità, in modo diretto o indiretto, modella quasi fosse un modesto o un immodesto demiurgo. Evola concentrerà la propria attenzione più sul Sé – per lui: l’Io o Io-sostanza – e meno su un problematico mondo della vita. Confidando sull’origine del moto generativo, che vale come ardua conoscenza di un principio ancora scarsamente determinato.

L’Italia è un paese di tradizione cristiana e il Cristianesimo è una credenza diffusa e popolare. Accessibile in un mondo abbandonato da Dio o dove le divinità s’intendono esercizi defunti in tema di trascendenza, così scriverebbe Mircea Eliade, e si dicono ancora affannosi, plurimi, policefali. Giovanni Gentile avrebbe scritto che l’Italia è uno Stato laico – o di religiosità laica –, un paese non amministrato con la grettezza tipica delle teocrazie. Qui la religione è filosofia per le moltitudini – o filosofia semplice –, laddove la filosofia – quella che crea sistemi – si costituisce come qualcosa di più alto: un’autentica religione dello spirito. Lì dove la filosofia non potrà o saprà arrivare, sarà il sapere per le moltitudini, cioè la religione cattolica, a estendere la propria influenza.

Per carsica consuetudine alla critica e al pensiero, l’Italia è anche crocevia di qualità altre, a suo tempo in-comuni e interne a gruppi rigidamente normati. Qualità pressoché demoniache per lo stesso Gentile, che in risposta alla crisi dei valori della madre scienza, di seguito all’ingovernabilità del sapere, elabora un sistema di autocreazione dello spirito, cioè del pensare o pensante come categoria unica della realtà, all’esterno del quale nulla è previsto possegga diritto di cittadinanza. Una filosofia nella quale oggetto conosciuto e soggetto conoscente – un Io “trascendentale” e non empirico – siano uniti dalla produzione dello spirito; nella quale ancora natura e ragione si deducano esclusivamente dal pensiero.

S’intende così che taluni appelli alla libertà – libertà come alternativa auto-coscienziale –, appelli che spezzino le catene della filosofia dello spirito, non possano non riguardare – in primo luogo – sia la rivolta contro la filosofia per il popolo sia la ribellione-negazione della religione come filosofia declassata. In ultima analisi e per quegli anni: il rifiuto del Cattolicesimo come religione o religione civile. L’equazione, anzi le equazioni cosiddette ribelli non potranno così non essere: a) libertà di pensiero uguale libertà di critica alla religione; b) fuoriuscita dai vincoli di un rigido sistema gentiliano. In una parola: revisione dell’Attualismo come nuova filosofia dello spirito.

Sono almeno tre gli obiettivi che pone e si pone la filosofia del castelvetranese: 1) sopprimere il realismo e con esso la filosofia hegeliana (dalla quale certamente pesca), ponendo il pensare come categoria unica della realtà; un filone che trova una sponda ideale nel materialismo marxista; 2) esaltare la tradizione del pensiero italiano; 3) edificare una comunità nazionale grazie alla rigenerazione morale e religiosa dell’Italia fascista. A questi obiettivi andrebbe aggiunta la svalutazione della scienza come sapere o disciplina unificante.

Franco Volpi ha definito l’esoterismo come un insieme di fenomeni religiosi, speculativi e spirituali (parola chiave). Lo spirito o soffio è autonomo, contrario alla materia, e se il mondo o natura è fatto di materia ciò che gli si oppone e che si intende desiderato è a fortiori immateriale. Mondo teorizzato o meglio: conosciuto e osservato con l’occhio della mente, più che esperito, vissuto, creato (creato in senso gentiliano, in quanto l’Attualismo è reazione al determinato). L’esoterismo è “insieme” che comprende, unisce e disunisce, identifica e differenzia, magia, astrologia, alchimia, ermetismo, occultismo, spiritismo, mitologie, fatti e atti di arcana ragione o esegesi. In che quantità o dose, e in che relazione essi si trovino con la realtà essoterica, o con lo stesso Cristianesimo, va da sé è discorso del tutto slegato[1].

In tal senso, spiritualizzarsi è portarsi oltre le religioni storiche, radici di potere consolidato, volendo affermare miti e narrazioni di fondazione di ordini riferibili a tradizioni, alla Tradizione Una, ovvero a una società cosiddetta tradizionale. In essa la prassi etico-politica s’intende regolata da un moto spirituale vale a dire da una religione platonicamente intesa, capace di fornire direzione o senso al complesso delle attività. Allo stesso modo, seppur ontologicamente agli antipodi, a dare significato alle trasformazioni nella società moderna sarà un tipico equilibrio materiale, altrimenti detto di dare e avere. A contraddire la società tradizionale è la società secolarizzata, il mondo della vita, che è genere tout court differente e relativo a idee, uomini e cose, più apertamente: un generalissimo modo d’essere, nel mondo e dal mondo, giudicabile volta a volta per mezzo della pars idealizzata dalla Tradizione (T maiuscola).

La tradizione esoterica vanta un’articolata traduzione e una lunga serie di eventi e testimonianze, comprese quelle risorgimentali che negli anni Venti sono di fresca attualità; epperò l’inverarsi o solo lo spauracchio di una società egemonizzata da individui ferrei, affacciantesi a una contemporaneità massificata – sempre più massificabile –, fa da causa efficiente al concepimento di nuove antropologie e fa per attribuire a uomini particolari (non dipendenti solo da se stessi) un potere di intervento a fini ontologicamente rigenerativi. Il veicolo che ha permesso, o permesso di accedere alle riflessioni circa, tale rigenerazione è stata tradizionalmente la massoneria. Scorgiamo (per ultimo, ma non per importanza) il movimento positivista la cui missione è elargire per traverso strumenti scientifici – altra singolare eterogenesi – a una meno discreta cerca spiritualistica. Non è detto peraltro che lo spiritualista sia uomo marginale o lontano dal paradiso. Uno dei casi più eclatanti di credente-ricercatore è quello di Arthur Conan Doyle autore nel 1926 di una Storia dello spiritismo.

In questo clima di desiderata spiritualità, che con accadimenti ed esperienze viene tentata da una via scientifica e che tenta a sua volta la marcia di un rinnovamento politico (che scienza potrebbe essere), il ventisettenne Evola si trova pressoché obbligato a una scelta di campo. Anzi a più scelte e in diversi domìni del proprio sapere. Il romano è aristocratico per propria definizione (barone di motu proprio), elegantemente animale non-politico ma non del tutto disinteressato alle sorti della biga alata. Essere aristocratici vuol dire porsi al di sopra delle comuni – moderne – tensioni relative a status, responsabilità e ruoli. Vuol dire non assecondare alcun interesse cosiddetto di classe e relativo a una moderna condizione sociale. Per citare Edmund Burke vuol dire fuggire, per quanto possibile, “imbroglioni della logica”, “economisti” e “prestatori d’opera”. Vuol dire non aver mai elaborato il trauma – le ferite, le “uscite dal mondo” – dell’Ottantanove, per contrapporsi sine die agli effetti catastrofici morali e politici della Grande rivoluzione. In specie, quella del barone Evola è cerca spirituale di una dimensione (quasi) perduta, di un inconscio vigile (inconscio nel senso di “comunicazione dialettica”); cerca che coincide punto per punto con una conoscenza (o Conoscenza) che sia riappropriazione del Sé, de-contaminazione dell’anima, restituzione a se stesso di un’inconsumabile completezza. La dimensione statuale (all’opposto di una tipica concezione da Stato etico o attuale) dovrà seguirà tale, faticosissimo, processo purificatorio.

Ma se conoscere è riportarsi a un insegnamento, di che insegnamento si tratta? Qual è insomma, per valicare i limiti del linguaggio pop o postmoderno, e per citare P. I. Gurdjieff, personaggio misterioso ancorché affascinante, il “centro di gravità permanente” cercato dal filosofo?

Potrebbe individuarsi nella difficoltà di una quiete spirituale – nel raggiungimento di un definitivo principio di immobilità –, causata da una personalità composita e mai del tutto doma, la ragione che spinge Evola a privilegiare una lettura più comodamente o sbrigativamente pratica del reale: a concentrarsi non più o non solo sul necessario ma semplicemente sul possibile. Con linguaggio comune si potrebbe dire: privilegiare la tattica o finanche l’intervento. Sia chiaro: non sempre e non completamente. A tradurre in orientamenti efficaci per il mondo sensibile la sua rivolta intellettuale, operando un ribaltamento epistemologico nel tentativo di arrestarsi all’interno della caverna, trascurando la piena luce del sole, e spinto infine dalla necessità stessa di un primum vivere o di una personale affermazione.

Ho scelto, qui, di qualificare Evola come filosofo nonostante il dirsi filosofo sia, per lui, una diminutio. Sua intenzione è considerare la filosofia, cioè il discorrere corrotto di un sistema al crepuscolo, come un problema da superare. Il filosofo si pone come post-filosofo o meglio come post-idealista – della filosofia, scrive Evola, l’idealismo si considera da sempre il capitolo conclusivo – post-filosofo per quel ritorno alla profondità dell’essere, alla ri-concretizzazione nell’unità del soggetto dell’attività del pensare, al se stesso come essere (appunto) e non mera svigorita attività, che è nel pensare. In ultima analisi, il fine è mondare l’idealismo del suo lato irrazionalistico, se per razionalità intendiamo un ben determinato “oggetto”.

Epperò, in particolare, sono due le motivazioni alla base della mia scelta: 1) In più momenti Evola scrive di filosofia tout cort, si auto-appella filosofo o filosofo viene appellato e cita con ampiezza di dettagli pensatori della tradizione occidentale; 2) È affidabile il motto secondo il quale essere filosofi significhi filosofare, pensare cioè filosoficamente, epperò anche non essere filosofi significa filosofare o pensare filosoficamente; per la ragione di dover operare delle scelte razionali, esaminando e riesaminando cause e conoscenze. Il lettore saprà comunque districarsi all’interno della triade semiotica: significante-significato-referente, dando il giusto peso alla scelta delle parole.

1925, dunque. I tempi, non facili, sono quelli notissimi della fascistizzazione della Penisola, della creazione del cosiddetto stato totalitario. La crisi è di quelle da cui non ci si salva, crisi che segnerà il presente e per effetto contaminante gli anni a venire. Quei prossimi presente con cui orwellianamente si riscriverà il passato, essendo questo l’anima causale del futuro: “Who controls the past … controls the future: who controls the present controls the past”. Lo stesso Gentile, riprendendo Benedetto Croce, aveva scritto che tutta la storia si risolve nel presente, come contenitore allo stesso tempo storico, di storia, e astorico, che va cioè oltre il tempo. Pochi coloro che riusciranno a scansare effetti – politici e sociali – assai poco desiderati.

Scompare il socialista Giacomo Matteotti, prima il re (uomo di scarsa personalità), poi la fazione coriacea del fascismo danno ossigeno all’esperienza politica iniziata nel 1922, un’esperienza maturata dalla prima guerra civile principiata col Biennio rosso in un clima di propositi di dominio. Le batoste politiche e sociali hanno agito positivamente sulle forze di opposizione, cioè gli aventiniani: primum mostrarsi cauti non scontrandosi con la pubblica opinione in vista del rimpiazzo dei mussoliniani o forse solo degli elementi più duri[2] Andrà in tutt’altro modo, ovviamente. L’edificazione del nuovo Stato sarà molto rapida, le reazioni ancora più pigre come tra gli altri andava paventando un Croce inizialmente non avverso al regime. Quel che è certo però – ovvero misurabile – è che l’Italia che pensa con artisti e scienziati in bella mostra è virtualmente divisa, si riconosce cioè in programmi e formule non proprio esclusivi.

Giovanni Gentile.

Manifesti di Gentile e di Croce pubblicati nella prima parte del 1925 delineano fratture intellettuali di luminosa sostanza. I punti da isolare sono: 1) le letture del passato più recente: il Risorgimento come autentica esperienza liberale, 2) le ermeneutiche del tema libertà. Non proprio uno scherzo se si considera il peso specifico dei protagonisti. A un’idea di fascismo come totalità, o «teologia civile»[3], farà seguito la piccatissima e sfottente risposta di Croce, stimolata peraltro dal massone e spiritualista Giovanni Amendola. Gli intellettuali non seguiranno o cavalcheranno l’onda fascista, o meglio: non tutti e non come si pensava. È già il fallimento della questione relativa all’egemonia culturale; la creazione di uno spazio intellettuale – unico e unificante – che solo con Antonio Gramsci toccherà i vertici di un più valido compimento. Egemonia basata sulla prassi cioè ancora sull’azione e sul ruolo attivo, ruolo guida, del partito e degli intellettuali.

Benedetto Croce.

Con la buona compagnia di Filippo Tommaso Marinetti, Gioacchino Volpe, Giuseppe Ungaretti e Luigi Pirandello, Gentile è l’uomo in più del regime. L’Italia del tempo vive il sogno platonico dell’ascesa di un filosofo osservatore ed esecutore della, e nella, vita politica. Colto esploratore della coscienza italiana (se si principia dalla mentalità, il Risorgimento è il suo spazio-confine) e liberal-conservatore come poteva esserlo il nemico di uno Stato trasparente e asfitticamente minimo, Gentile è interprete positivo, epperò antipositivista, delle manovre culturali di fine secolo. Per ciò stesso facitore di una filosofia anti-crisi che non poco dovrà all’esegesi delle posizioni di Karl Marx, parafrasato come filosofo di un dinamismo prasseologico.

Il siciliano si è fascistizzato per riconoscere nel fascismo l’esecutore massimo di una storia di cui sono parte i princìpi illuministi, la massoneria, la democrazia, il socialismo, e da cui però tutti i più logori sentimenti scaturiscono. Ma quella è e sarà l’Italia perdente, anzi minore, posta di fronte a un’Italia finalmente nascente, o meglio: fascista. L’ottimismo gentiliano prevede che male ed errore se ne stiano lontani, o siano al più allontanabili; ciò che è in atto – cioè il pensiero in atto – sarà per il castelvetranese sempre realtà e verità. Il regime – mazziniano nella sua essenza; lo stesso Mussolini è, per Gentile, eroe fichtiano e nuovo Mazzini – è per il siciliano complessità in uno: unità di forze vive e di idealità, per ciò stesso prassi, concretezza, pensiero infinito che produce la propria stessa realtà. Un’unità non perfettamente compiutasi però, e d’altra parte mai compiuta, ché il futuro è sempre il côté preminente, per le ben note resistenze e per quella crisi dello stato datata appunto 1924.

Quello gentiliano ovvero fascista, secondo il suo fascismo, è uno Stato assoluto o totalitario; un’incedibile realtà etica, fondamento dei diritti del singolo e principio della realtà sociale: gli uni e l’altra senza distinzione. La volontà statuale non trova dinanzi a sé alcuna realtà limitante poiché la volontà dei singoli è, nella realtà dello Stato, realtà universale. Lo Stato è affare intimo, un sentire; e un volere o volente a cui non si può porre limite: un’entità consapevole e indistinguibile assimilante qualunque altra realtà. L’autocoscienza del cittadino sarà il processo di immedesimazione nella coscienza universale dello Stato stesso.

Con la sua ontologia totalitaria, lo Stato gentiliano, che nulla lascia al di fuori di sé e del Sé, che non conta un privato se non universalizzabile come pubblico affare non può non turbare i più classici sostenitori della democrazia e del liberalismo alla John Locke o Benjamin Constant. Una “caserma” secondo le stesse parole di Evola, la cui concezione statuale è profondamente diversa, anzi interamente oppositiva, rispetto a quella di Gentile. L’ultimo pensa lo Stato come interventista-educatore, agente in modo diretto, visibile, con un’energia sempre in atto che egli stesso tende ad auto-giustificare. Quello evoliano è uno Stato come virtù, uno Stato perfetto che, con parole sue: “agisce e non agisce”, agisce ma non lo lascia intendere, dà forma alla materia e aristotelicamente attira a sé. Evola è per la non-ingerenza negli affari privati e (generosamente) per la salvaguardia delle libertà e delle personalità. Per il romano, lo Stato deve “creare un clima” e non farsi guida o istruire, deve incidere spiritualmente – essere d’esempio – non farsi morale imponendo agli altri se stesso[4].

Nell’ambito della critica alle forme del sapere ottocentesche, la cura gentiliana non prevede la distruzione ontologica della realtà o della realtà politica, come talvolta in forma autodistruttiva nell’Evola massimamente critico, bensì una rinascita metafisica di cui la nuova filosofia è la più accreditata protagonista. Malgrado la sua idea o forse per essa stessa, Gentile non intende esimersi dal trascurare i princìpi di libertà (o le libertà) i quali (le quali) trovano nel suo Stato una collocazione corrispondente a un proclamato trascendentalismo. Così a un liberalismo falso che guida verso l’anarchismo egoistico, il siciliano contrappone un liberalismo vero le cui libertà si affermano, appunto, in quanto contestualizzate, come peraltro è già stato teorizzato e praticato dalla Destra storica.

Gentile è stato «abbattuto dalla giustizia popolare», così è scritto in un rozzo articolo dell’Unità clandestina: la parabola di un filosofo acuto, misurato ma severo si concluderà tragicamente nell’aprile 1944, non prima che il pensiero abbia sfiorato i vertici di una pluralizzazione delle libertà in un senso, ancora una volta, totalitario. Uno sforzo speculativo volto a sottolineare il Noi di una comunità retta da un intimo bisogno di religiosità. Una forma comunistica alternativa (o “vera”), secondo Ugo Spirito, di fede e di ragione.

Ma in quel 1925 l’Italia dei notabili, degli artisti, dei pensatori, finanche dei più modesti giornalisti, è chiamata a schierarsi pro o contro il fascismo. Un “sì”, un “no”, ma anche un (silenzioso) “forse”. Scelte in grado di occultare aspirazioni a ben diverse soluzioni o a ben altri traguardi: inesplicabile espressione geografica, l’Italia sarà pur sempre la patria del nicodemismo o della dissimulazione onesta. Dire “sì” al fascismo – a quel fascismo che rinnova o attualizza l’Italia, a quel fascismo, mi si passi il termine, gestalticamente percepito – significherebbe non negare ad esso, alle sue volizioni, la capacità di rinverdire una tradizione sofferente ma viva. Varrebbe riformare l’Italia principiando dall’educazione dei giovani: dallo studio della filosofia, ed esultando al divenire dell’idea, e dalla rimodulazione del sapere tecnico e scientifico. Rimodulazione che principia da svariati presupposti d’inizio secolo e che mira a far ritornare la filosofia al centro di due scommesse: il progresso e la conoscenza. Gioverebbe infine a cantare la migliore Italia, quella di Dante Alighieri, del Rinascimento di Giordano Bruno, e del Risorgimento di Vincenzo Gioberti.

Un “no” all’Italia giovane boccerebbe, ovviamente per metafora, i metodi fascisti – così, adesso, scriveva Croce – epperò varrebbe a negare le reificazioni delle possibilità e delle attinenze in seno alla cultura. Equivarrebbe a controfirmare la fine o il tramonto della civiltà, di una civiltà oramai dunque al traguardo. Irriformabile. Indizio di morte è anche deficit di creatività, Oswald Spengler avrebbe detto: mancanza di forme simboliche. La vecchiezza che prepara alla morte viene intesa a quel tempo come Zivilisation, un quasi meritato riposo come marchio tedesco di miracolistico eterno successo. Darle retta (e in tanti per lo più romantici lo fecero, compreso Benito Mussolini), significherebbe anche perdersi nell’attesa nichilistica e speranzosa di un nuovo ciclo, a meno che – e qui le ermeneutiche si sprecherebbero – proprio quel fascismo, il fascismo del «fabbro elevato a Duce» secondo un’espressione poco amichevole dello stesso Evola – riuscisse a rubricarsi come ontologica pars construens di un nuovo epocale inizio.

In quel 1925, Evola pubblica tre articoli sul quindicinale tutt’altro che fascista Lo Stato democratico del duca-massone Giovanni Antonio Colonna di Cesarò (come Evola e Gentile, di origini siciliane), ex ministro mussoliniano poi passato all’opposizione, esoterista e traduttore dello Spirituale nell’arte di Vasilij Kandinskij. Di Cesarò è figlio di Emmelina Sonnino sorella dello statista Sidney e più nota come Emmelina de Renzis, infaticabile divulgatrice delle opere di Rudolf Steiner. L’ambiente nel quale il filosofo si muove è a dir poco eterogeneo, frammentato, incoerente come le scienze oramai neglette di fine-inizio secolo. Il genere sommo o quasi-sommo è per così dire quello dell’occultismo. Spiccano personalità, circoli e scuole il cui denominatore quasi-comune è di tradurre in politica una visione del mondo particolare (al loro interno, la personalità più interessante sarà quella di Arturo Reghini). In maniera ufficiale nel caso di Colonna di Cesarò ovvero operando dal dietro le quinte, dicendo e non-dicendo, nel caso di altri o, di lì a poco, dello stesso Evola.

Arturo Reghini.

A proposito di Reghini. Nel 1928 esce per i tipi della Atanòr di Ciro Alvi Imperialismo pagano, primo saggio politico redatto da Evola. Sintetizzate le premesse, quel senso di generale liquidità sociale e psicologica che caratterizza l’anteguerra e il dopoguerra, è bene trarre necessarie e pratiche conclusioni. I simpatizzanti attribuiranno al filosofo romano – quasi in ogni momento – rilevanti doti da pensatore eclettico che si spinge oltre la soglia contemporanea del nichilismo ispirandosi al canone occidentale nelle sue estensioni teoretiche e nelle cause finali, ovvero operando traduzioni di pratiche e studi orientali. La restate truppa dei lettori di ogni tempo lo etichetterà come un rimasticatore o pasticcione per eccesso di nichilismo (il razzismo ovviamente è scontato), molto più fragile e arrivista di quanto sia stato detto o scritto, e per lo più dal temperamento ingestibile. È difficile elaborare una sintesi. Se per il barone il modello stilistico e intellettuale è stato, fino ad allora, quello di un aristocraticismo che nulla concede alla contemporaneità e che sempre rimanda a quel senso di solitudine esistenziale, speculativa e per così dire d’esercizio, il riferimento è adesso, almeno in parte, il filosofo di scuola pitagorea Reghini.

Matematico e mago, ideologo neo-pagano, massone di rito scozzese, critico per ciò stesso di una massoneria di estrazione moderna (massoneria per arrampicatori). Reghini è geniale sostenitore della sacra romanità occidentale – la crisi dell’Occidente, per lui, è dovuta alla fatale lontananza dalla potenza di Roma –, e non giustifica quell’interessato buonismo filo-cattolico che condurrà l’Italia alla firma dei Patti Lateranensi. Insomma, è quel che si dice un uomo combattivo, un interventista. Ha un’idea chiara delle relazioni o possibilità spirituali, molto più chiara – almeno nella maturità – di quanto abbia mostrato di possedere Evola. La sua influenza (Reghini aveva appunto già trattato di un imperialismo pagano) non durerà a lungo e si concluderà negli uffici delle fredde cancellerie dei tribunali.

Reghini e René Guénon saranno per Evola due doni del destino cui corrisponderanno rinnovati strumenti di polemica intellettuale. C’è un Evola ante-Reghini e c’è un Evola post-Reghini così come c’è un Evola ante-Guénon e un Evola post-Guénon (epperò c’è già stato un Evola che valutava criticamente Gentile). E se i rapporti col fiorentino saranno burrascosi quelli col Maestro francese – a cui deve il concetto di Tradizione – non difetteranno di incomprensioni e critiche: diversi ma avvicinabili se si tratta di “filosofia” della Tradizione, tanto che per riprendere giudizi già riportati si potrebbe dire che: «da un lato abbiamo Guénon, l’Oriente e la metafisica; dall’altro Evola, l’Occidente e la magia»[5].

Le idee reghiniane sono legate a esperienze a loro modo scientifico-realizzative e sciolte dall’agnosticismo che caratterizza, più nella pratica che nella teoria, la condotta del chierico contemporaneo. Di un Reghini lontano dal “mondo” dice a sufficienza Elémire Zolla: «Sentì d’aver ricevuto in dono una chiarezza intellettuale ineguagliabile, che lo poneva a una superba distanza dal penoso positivismo dei più, dal cristianesimo come dal socialismo, dagli occultismi e dalla teosofia»[6]. Passato alla storia come convinto antifascista, di contro a una più salda apolitia guénoniana, il fiorentino ha dalla sua conoscenze e frequentazioni di assoluto valore, tra cui quella di Amedeo Rocco Armentano. Dasein quasi del tutto sconosciuto nell’esoterismo italiano (ovviamente per gli osservatori esterni), Reghini è in rappresentanza di un quasi convitato di pietra nei e dei Venti. Dopo averlo conosciuto (e “tradito”), Evola consoliderà la propria verve polemica da “arrabbiato” interventista.

Come quasi tutti i libri del filosofo, Imperialismo pagano è un testo difficile, interpretabile; se si guarda al complesso dell’opera del barone, influenzati dalla sua stessa autovalutazione, il lavoro potrebbe perfino apparire come opera di passaggio. Claudio Bonvecchio ne fa un volume importante – e ha ragione – che andrebbe letto – ancora non gli si può dare torto – con le opere di Spengler, e di Martin Heidegger e di Ernst Jünger; la lettura di queste illumina infatti sui complessi di decadenza – o di tramonto – dell’Occidente, la nostra Europa, e sugli sforzi progettuali per ridonare forza a una tradizione, appunto rianimandola, che aveva perso non da poco tempo i presupposti spirituali. Era questo il significato (che in pochi colgono o coglievano) di una rivolta che fu generazionale e politica, violenta e ingannevole, pura a tratti inaccettabile, rivolta che fu nei fascismi e in quello italiano in particolare: il primo. A un tempo novità politica e culturale e sforzo noetico per riavvicinare una dimensione storica, trascorsa e mitizzata, per la qual cosa anche metastorica.

Evola giovane, il fascismo era materia a cui dare forma, materia o materiale scampato alla guerra, e per ciò stesso futuristicamente ribattezzato secondo le migliori attese. Imperialismo pagano è il tentativo di essenzializzare un regime trasvalutandolo in impero, spirituale prima di ogni disavventura, il nuovo regime cioè di una vecchia tradizione: tradizione nostra riattualizzabile in un genere pagano e in una storia romana. Una rivolta contro la civiltà del Cristianesimo (e qui, certo, le pagine di Nietzsche non si possono trascurare), civiltà – ecco il punto – quale attributo oggi diremmo onnicomprensivo. Prima che politico, spirituale appunto, immateriale, mitico-simbolico, religioso e archetipico. Con termine semplice, ma che ne denuncia finanche il côté programmatico: educativo.

Nel merito di un filone, non esclusivo, di interesse meno pratico e più valoriale, filosofico o ancora spirituale, è conveniente sostenere, strizzando l’occhio alla metafisica aristotelica, di come in realtà si tratti, per ciò di cui si parla, di un impegno metapolitico. Per i più, ancora: formativo. Non relativo alla filosofia prima bensì conoscitivo, di filosofia politica, le cui specificità, o meglio obiettivi, sono di giungere alla profondità dei temi, in quanto più direttamente trasposta, tale filosofia, in un’idea di comunità di comando, platonicamente retta da anime fuoriuscite dalla caverna.

Per quel che interessa, i titoli degli articoli sono: Stato, potenza e libertà (data di pubblicazione: 1° maggio), Note critiche sulla dottrina democratica (15 agosto e ristampato successivamente) e Per un rinnovamento dell’idea politica (31 dicembre). Affermo siano gli interventi segnanti l’esordio del filosofo in un confronto a tutto campo e di non comoda attualità. Se a quel tempo Gentile dà tutto se stesso per divulgare il verbo fascista, giustificandone temi e modi, Evola, che non firma alcun Manifesto, seppur appaia spavaldo o quasi-divertito, non si dà a rincorrere desiderio di regime alcuno né intende democratizzare il proprio “dizionario”. Al più talune pagine, date le urgenze e in trasparenza, esortano (il capo del governo?) a non lasciarsi intimidire da un nemico insidioso, a non indietreggiare; ma solo se e in quanto l’anima fascista non faccia per riprodurre, con rozza banale miopia, l’anima democratica. Noblesse oblige. L’anno successivo, all’interno del periodico diretto da una conoscenza di vecchia data, Giuseppe Bottai (nuovo Gentile), Evola ribadirà con adeguata forza i princìpi della propria visione del mondo.

Attualmente, il fascismo è un’esperienza politica al cui interno non si distingue controparte alcuna – che stia al vero e proprio movimento come il superiore sta all’inferiore –, controparte in grado di affrancare, confidando in taluni presupposti, da scontatissime umane, troppo umane fenomenologie. È un Evola distante sia da Gentile, per il quale il fascismo del Manifesto è un alto ideale, sia da Croce, che da liberale – o chierico della libertà – giudica il fascismo caotica, inafferrabile mescolanza di fatti e di parole.

Tutto sommato però, meno gentiliano che crociano, per l’analitica dei contenuti, per il “cruccio” di una violenza endemica e per una personale avversione nei riguardi di un criticatissimo rivale (e “rivale” il siciliano lo sarà ancora nel dopoguerra dei nostalgici e dei neofascisti), per di più (ex) ministro e senatore. Per Evola, il fascismo è lontano dal mito quanto il mito lo è dal mondo sensibile. E se non c’è mito o mito fondante ovvero, ancora, manifestazione di un sacro a-spaziale, a-temporale – come vedremo – non ci può essere alcuna verità disponente. «L’idea deve giudicare la realtà e non viceversa…» scrive, ed è anche affermazione sufficientemente platonica e proposizione scevra da certo volontarismo militante[7].

Più che etichettarle come antifasciste o afasciste – tutt’altro che valide definizioni – si può dire che tali idee siano quelle di un intellettuale che vuol distanziarsi da una forma che non può non imitare – dati i tempi – un moviment(ism)o democratico o iper-democratico. Il fascismo è più o meno un comunismo piantato da un’altra parte (in futuro Evola scriverà cose non molto diverse, seppur in ben altro contesto e con ben altri scopi). Se è una rivoluzione dello spirito che si vuole, dice, occorre rivolgersi altrove giacché, per lui, fascismo e antifascismo, riposano su un’identica superficie logica. Se c’è infine da optare, è bene tenersi lontani da talune “furie”, la cui azione Gentile tende a giustificare, scegliendo un antifascismo spirituale, non o non solo politico e che scorti le anime di una selezionata élite. E di questa élite, seppur polivoca o equivoca, Evola è attivo frequentatore. Negli anni a tale congrega di maghi dedicherà, in edizioni diverse, uno dei suoi più riusciti saggi: anche se i toni saranno in massima parte ostili[8]. Il carro fascista, di quel fascismo le cui intenzioni sembrano adesso palesi, non è il mezzo sul quale è conveniente accomodarsi (sempre si decida di farsi catturare da un gioco viepiù spiacevole); in ogni caso restando la democrazia come scienza, un’idea politica edificata sulle basi di un ottimismo popolare irrazionale e dunque inaccettabile.

In un certo senso, Evola anticipa di un secolo il dibattito che vede nelle critiche al pensiero unico, di qualunque tono e contenuto, una velata, delle volte non esageratamente velata, forma o espressione di fascismo o di Ur-fascismo alla Umberto Eco. Mi riferisco però alla percezione politica non alla coscienza intenzionale. Una frase che viene sovente ripetuta, tratta dal secondo degli interventi citati è: «Non essere democratico ed essere fascista sono due cose diverse!», riletta varrebbe a significare che qualunque opposizione anche delle più dure, tenaci e finanche pericolose, non è detto sia formulata per implicita o non dichiarata adesione a una qualsiasi forma ovvero essenza di fascismo. Un dualismo che non apparteneva a Evola, che al fascismo e al neofascismo si avvicinò e si allontanò per ragioni diverse (personali, pubbliche, non note, private) dimostrando allo stesso tempo che le possibilità di dirsi o sentirsi vicini al, o lontani dal, fascismo non erano tra loro macroscopicamente distanti. E certo Evola non era esempio raro nel panorama delle intellettualità operanti al confine tra epoche diverse.

Un dualismo che appartiene, oggi, al pensiero unico “parmenideo”, secondo il quale le differenze si riducono, si semplificano, si elevano nel troppo affollato reame del contrasto tra essere e non-essere; o ancora del bene cioè dell’antifascismo, e del male cioè del fascismo. Con una agilità ermeneutica e una mescolanza a dir poco preoccupante di proposizioni tratte da ontologie ed etiche, con l’ovvia aggiunta di politiche, talvolta nel moderno significato machiavelliano.

Ma se i presupposti pratici e operativi dell’interventismo, cioè dell’attività pubblicistica di Evola, e nel merito del dibattito metapolitico, si scorgono, neanche troppo a distanza, nelle frequentazioni occultistiche, nelle letture, negli impegni e negli interessi perfino artistici, impossibile tacere, adesso, dell’attività di filosofo puro. Diversamente, lo si accennava, se ne avrebbe una conoscenza limitata, nei caratteri, nelle opinioni, negli esiti. Senza metter mano a una dialettica come susseguirsi di momenti dello spirito, dialettica che valga come direbbe l’autore stesso anche nel campo del non razionale –, Evola qualifica la sua storia come un cammino alchemico avente come fine una immortalità se non altro spirituale – la filosofia è uno strumento di lettura ugualmente privilegiato: in essa è già anticipata certa obbligante antropologia, largamente utilizzata – non si tratterà, qui, di eventuali aporie – negli anni a venire. Di fatto fino alla morte. La filosofia cosiddetta dell’Individuo assoluto inserisce per traverso la questione della validità della ragione libera, impostata secondo criteri tradizionali, vale a dire, ancora, occidentali. In trasparenza c’è Gentile, c’è ancora J. G. Fichte, c’è ovviamente G. W. F. Hegel ma ci sono anche autori del tutto marginali come Carlo Michelstaedter, cento anni fa animale filosofico quasi del tutto sconosciuto.

Carlo Michelstaedter.

Evola raccoglie le sfide dell’immanentismo per spingersi verso una metafisica come ultima, radicale, chiamata della filosofia, come punto di contatto tra il pensiero moderno e il mondo spirituale, ove giovano le regole della prassi, meno quelle dell’astratta conoscenza. Il problema della filosofia è di far fare un passo ulteriore all’individuo come individuo (per Evola: al dominante come dominante), ente che non deve superarsi, superare la propria forma, bensì governare il processo del divenire. Rimanere protagonista, non superato (nel processo) ma (attivo) superante. Il filosofo vede l’Io trascendentale della tradizione occidentale come mera e pura affermazione, per ciò stesso fa acquisire ad esso la qualità non secondaria dell’assolutezza, riassumibile in compiti posti al di là dell’attività del conoscere, come le esigenze d’esercizio della volontà e della libertà. Un potere di scelta che prescinde da qualsiasi obbligazione, un potere di andare al di là dell’umano o al di là del moderno: l’una e l’altra come casi in fondo particolari. Proprio per questo la singolare filosofia evoliana non è semplice tradizionale speculazione ma rimanda a, di più: converge in, una ben precisa attività: quella dell’uomo che si spinge oltre il comune pensiero critico, l’uomo del mito e nel mito e che ugualmente procede da presupposti lontani dal pensiero critico, cioè ancora dal mito.

Il lavoro del filosofare è quello di stringere in una sorta di nodo un Occidente che guarda alla pre-modernità – quindi mentalmente oltre l’idealismo – come orizzonte culturale tra i tanti, e all’Oriente come rafforzante campo d’ispirazione non-filosofica. Quella di Evola è così non-filosofia della filosofia come superamento della conoscenza, e filosofia cioè conoscenza della non-filosofia cioè della prassi. Una parentesi o via razionale tra due altre vie anti-razionali.

Sul periodico di Colonna di Cesarò, Evola si riferisce alla democrazia ovvero al democratismo – o ancora: all’idea di democrazia, ovvero alla democrazia come dovrebbe essere per i democratici – come a un regime o a una forma di Stato che affonda le radici ideali nel Cristianesimo. Dottrina religiosa inaccettabile per le reprimende nietzscheane rivolte alle meschinità d’un certo tipo d’uomo. Il problema del Cristianesimo verrà risolto dal filosofo accordando, alla sua maniera, stile e toni a una tradizione anti-guelfa. Due entità, dirà, come Stato e Chiesa non possono convivere in una sostanza unica (sia chiaro: qualora il Cristianesimo abbandoni la sua natura democratico-egualitaria, facendo valere l’autentico principio gerarchico), a meno che la sostanza statuale non contenga in sé il principio spirituale: epperò solo in quel caso essa sarà degna di chiamarsi Stato. Per Evola sarà l’entità statuale o a quel punto: imperiale, cioè non dotata di limiti moderni, ad assorbire quella propriamente spirituale, il fine sarà la creazione di una luminosa “concreta” armonia tra i poteri.

Un siffatto regime non c’è e difficilmente si avrà. Quello del filosofo è un osservare mentalmente la cosa – servendosi di lenti categoriali – non un pensare comunemente la cosa, comunemente appunto. Il mondo della vita si mostra in tutt’altro ordine e con ben altre regole. Quel crudo dover essere, quel rapportarsi al mito sarà, per Evola, solo uno stadio di avviamento – un puro mezzo – in funzione dello Stato, che è o sarà, sempre e solo, potenza assoluta; libero cioè da qualunque obbligo o posizione. Qualora esso ancora non sarà, e chissà fino a che limite temporale, ci si vedrà costretti a constatare l’insufficienza degli uomini alla realizzazione di un soggetto. Se l’uomo avrà in sé la potenza – come andava scrivendo da tempo e come afferma interpretando il tantrismo orientale – sarà definitivamente e invincibilmente in atto; se l’uomo o gli uomini falliranno, difficilmente potrà essere accampata alcuna scusa che non riposi nella sufficienza ovvero insufficienza della potenza stessa[9].

Friedrich Nietzsche.

Più che riferirsi alle “altezze” di colui che sarà – anche se fino a un certo punto – riferimento dottrinale e padre dell’anti-positivismo europeo, cioè Friedrich Nietzsche, Evola intende qui mettere a nudo: a) le opposizioni logiche all’interno della democrazia, rendere cioè pubblica l’idea (sua) che la democrazia – s’intende o democrazia come alto valore o in più casi democrazia come metodo – non esista (per una serie aggrovigliata di motivi che illustrerò); b) la non sottovalutabile circostanza che, essa, sia un modo come un altro per sottomettere la massa al volere altrui, una sorta di metafisica dell’uomo solo, unica possibile via, sovente smerciata in altra forma, di cui Evola è abile, strenuo sostenitore. Per la qual cosa, al di là degli effetti (probabilmente per Evola positivi), non varrà la pena concedere spazio alla democrazia, alla sua idea, ovvero costruire per essa una narrazione di tenore epocale.

Al lettore attento alle vicende attuali, taluni passaggi appariranno pericolosamente confinanti con una interpretazione elitaria, da sinistra, del significato ultimo di democrazia: democrazia non come potere esercitato dal popolo, ma eventualmente come potere esercitato per il popolo. Un auto-riferirsi alle proprie stesse posizioni o funzioni, anziché rispondere alle sollecitazioni provenienti da un corpo elettorale. Un pastone di cultura dell’interesse, così per gli universali, e di esibito buonismo, così per sé.

Diversamente da altri, il filosofo scrive di un governo dei molti e non del popolo per il semplice fatto che, come espliciterà, egli stesso non offre alcun diritto di cittadinanza alle sostanze universali. Si concentra quindi su un punto fondamentale per la democrazia in senso moderno: la distinzione governanti-governati. Tale distinzione sulla quale non è possibile derogare è un’attestazione di ovvia superiorità dei primi sui secondi, una non sottile eccezione al sacro principio di eguaglianza, privo così di reale consistenza; ovvero una negazione della filosofia moderna che corregge, per via istituzionale, la o le verticalità di una, o della, tradizione. La risposta del tipo democratico, a questo punto, sarà: la suddetta ma funzionale superiorità verrà, per così dire, attenuata dal controllo effettuato dai molti: controllo esercitato a priori come corrispettivo di scelta o di selezione. Superiorità quindi solo di fatto, funzionale al meccanismo istituzionale, ma nient’affatto di “diritto”.

Epperò la disputa, replica Evola a un immaginario interlocutore, non potrà essere affrontata dal lato di una ragione tecnica in quanto occultante la verità delle cause, bensì da una ragione pura – originale – in grado di snudare la sostanza scientifica del fatto. Scrive così: i controllori, per evidenza o auto-evidenza, non hanno in se stessi qualità o attributi che non siano pratici, ne conseguirà la circostanza che i rappresentanti saranno meri soggetti pratici. Coerentemente, la democrazia: 1) o sarà un modo di governare che elargisce esclusivamente risposte pratiche; 2) o sarà una finta scommessa sui cosiddetti alti valori; 3) o infine baserà la propria credibilità sulla fiducia, ma una fiducia mal riposta: presto o tardi infatti i molti potrebbero intendere che il criterio materiale non è né il primo né l’ultimo tra i valori, impareranno cioè a riconoscere valori veri, superiori o perfino religiosi. Tuttavia, avendo Evola postulato la non razionalità della massa, cioè la sua congenita, percepibile incapacità, l’ultima tra le opzioni non verrà affatto considerata.

Svolte queste premesse (la democrazia pensata finge di essere alto valore ma appunto è solo meschinità), la maieutica evoliana si concentra sulla questione degli universali. Lo schierarsi del filosofo in favore degli individui è netto. Aristotele affermava che le sostanze seconde non fossero di alcun sostrato in quanto appunto non fossero individui bensì concetti utili alle classificazioni. Popolo, per Evola, è solo una metafora alla quale, per definizione, corrisponde una somma di forze instabili. Popolo o peggio umanità è una sorta di dogma insignificante: a contare sono i cittadini o gli uomini o al più, come ha già scritto: i molti. Mancando di un soggetto, la volontà del popolo è dunque volontà ingiustificata, un mero sofisma verbale, un artificio.

Tenendo conto di questo fondamentale passaggio, il filosofo prolunga la critica alla democrazia o democratismo, distinguendola o meglio distinguendolo in due componenti o punti di vista: 1) teleologico; 2) statistico. Il primo punto riguarda ancora i superiori e la loro capacità di fornire unità al popolo. In questo caso, ci troveremo nella situazione di un un’anima superiore o anima dei superiori che dà vita al popolo, lo essenzializza, lo rende agente secondo una volontà. Epperò, essa, cioè l’anima, tenderà come qualsiasi anima a non servire il corpo, cioè la parte inferiore, bensì a sottometterlo, imponendogli fini e urgenze proprie. Per il filosofo, la preminenza della Res cogitans sulla realtà fisica – la prima è però da intendersi come motore intellettuale non agito – è naturalmente più che acclarata.

Non ci sarà democrazia, cioè governo dal basso o autogoverno, ma semmai il suo contrario: governo ispirato dall’alto. Una sorta di finalismo spiegherà, giustificherà e condizionerà ciò che prima era, prima cioè che il processo si compiesse. La massa starà all’élite come in un rapporto aristotelico di potenza e di atto, ovvero di materia e di anima, vale a dire, ancora, di forma. Se la base divenuta organismo deve proprio all’anima il suo farsi organismo cioè unità, sarà a questa, cioè all’anima, che essa di continuo guarderà, e sarà ancora questa a farsi dominatrice – ma per se stessa, senza legittimazione alcuna –, non riconoscendo volontà sanzionatoria al di là, o al di sotto, dell’essere categoria. Di un individuo, cioè di un potente, Evola scriverà ancora nel 1926. La sua concezione dello Stato sarà assoluta ma a suo dire non totalitaria, uno Stato lontano, discosto, tutt’altro che invasivo. Lo Stato sarà un’entità solare, leviatanica, la sua guida o Capo una figura quasi profetica, unica ad essere autenticamente libera. Un’entità non sottomessa ad alcuna legge che per ciò stesso possa limitare la libertà di movimento. Il Capo sarà legislatore supremo, principìo, anima o potenza, potenza, da se stesso posta; e da esso, in senso aristotelico, si distinguerà, ma solo idealmente, un corpo nel pieno significato medievale, cioè ancora, per Evola, si distinguerà una bruta materia.

Il secondo punto di vista sul democratismo, invece, si basa unicamente sul concetto di maggioranza numerica. Il popolo non è essere a sé, la sua volontà non può essere unitaria bensì frutto della combinazione di un numero di elementi: è questo il filo del suo ragionamento. Ma su cosa basare la volontà di cui il filosofo scrive, cioè, ancora, su quale principio vincolare il prevalere dei governanti? I criteri, prosegue, sono soltanto due. O questa prevalenza è qualitativa e dunque, la stessa democrazia, che non prevede alcun genere di diseguaglianza verrebbe meno; o essa è quantitativa cioè edificata sulla presunta superiorità del numero. I molti sarebbero dunque tra loro tutti uguali, così da poter agevolmente combinare le loro volontà in una sorta di super-volontà? Se sì, a governare in questo caso sarà esclusivamente la maggioranza numerica e non l’individuo potente.

Epperò anche qui, Evola, citando G. W. Leibnitz ha molto da obbiettare. Secondo il principio degli indiscernibili, o identità degli indiscernibili, in natura non si danno due esseri identici – anche le foglie sono diverse le une dalle altre – ma tutti gli esseri devono distinguersi per caratteristiche proprie, prospettive o punti di vista. L’uguaglianza dei molti è quindi solo l’ennesima contraddizione. Ed è anche un non-senso stabilire che vi siano due esseri uguali, cioè dei duplicati di un semplice se stesso. L’idea che la quantità basata sul principio di uguaglianza dei molti, una sorta di uno vale uno, a cui Evola eventualmente oppone un: Uno vale tutti, non sia logicamente possibile, fa sì che la prima opzione – cioè quella della gerarchia o della qualità – sia l’unica logicamente valida. Alla legge del superiore va quindi ricondotta l’abitudine della o alla democrazia; superiore in quanto capace di far valere la propria volontà sulla massa informe. La materia stessa troverà la sua ragion d’essere o la sua giustificazione nella forma del superiore o dominatore. La “democrazia evoliana” si capovolgerà dunque nel suo virtuale contrario.

Ma il democratismo statistico peccherebbe, infine, anche nel contesto della difficile relazione eguaglianza-libertà. L’eguaglianza, scrive Evola, implica il riconoscimento degli altri e dunque dei relativi doveri verso gli altri; conseguentemente le leggi che limitano la libertà e che pongono doveri si rivelano un attacco alla libertà in quanto libertà assoluta. Ma ammesso che dette leggi siano concesse, di nuovo: chi giudicherebbe sulla bontà o giustezza di questi provvedimenti? È facile rispondere: non la massa, in quanto per sua stessa metafisica non sarebbe capace di farlo. Il criterio statistico non guarderebbe così alle vere cause, o cause reali, della democrazia ma, ancora una volta, solo agli effetti materiali. In questo modo, il funzionamento del regime democratico potrà essere sarà visibile solo in “astratto” e paradossalmente accettato anche dai non-democratici.

Finanche da chi parteggia per quell’individuo potente che trascina con sé la massa dove egli stesso vuole. Ma appunto, così inteso, il regime democratico sarà esclusivamente un inganno.

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Note:

[1] Furio Jesi, Cultura di destra, Nottetempo, Milano 2025.

[2] Giorgio Galli, Il fascismo, dallo squadrismo a Dongo, Demetra, Bussolengo 1996, pp. 27-29.

[3] Marcello Veneziani, Gentile. L’Italia come pensiero in atto, in Imperdonabili. Cento ritratti di maestri sconvenienti, Marsilio, Venezia 2017, p. 93.

[4] Julius Evola, Il fascismo visto dalla Destra, Volpe, Roma 1974, pp. 39-44.

[5] Andrea Scarabelli, Vita avventurosa di Julius Evola, Bietti, Milano 2024, pp. 125.

[6] Elémire Zolla, Uscite dal mondo, Adelphi, Milano 1992, p. 443.

[7] Julius Evola, Note critiche sulla dottrina democratica, in www.fondazionejuliusevola.com.

[8] Marco Iacona, I pericoli del sovrasensibile. Lettura comparata delle tre edizioni di “Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo” di Julius Evola, Bonanno, Acireale-Roma, 2015.

[9] Julius Evola, Idee su uno Stato come potenza, in www.rigenerazioevola.it.

L’autore

Evola pittore ‘dada’.

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