La Conferenza di Berlino (1884-85)
Attorno alla metà degli anni ’80 del XIX secolo il “concerto europeo” riteneva che l’espansione coloniale in Africa (svoltasi fino a poco tempo prima in piena libertà, tranne che per il settore mediterraneo) dovesse essere disciplinata, e che le nuove acquisizioni dovessero sottostare a regole certe. Erano infatti intervenuti due fatti nuovi di grande importanza: l’apertura del canale di Suez e la scoperta dei giacimenti diamantiferi dell’Africa australe.1 Fatti che avevano attirato l’interesse generale su due settori fino ad allora considerati di importanza secondaria, e cioè l’area del Mar Rosso e del Corno d’Africa, e quella della parte più interna dell’Africa meridionale. Vi era poi il problema delle abnormi ambizioni africane dell’Inghilterra, che pure – per dirla con le parole di un insigne storico del colonialismo – possedeva già più di quanto potesse gestire. 2 Fino a quel momento, Londra si era preoccupata di insediarsi stabilmente e solidamente ai due estremi del continente nero (in Egitto e nella Colonia del Capo), convinta che sarebbe stato relativamente facile unire queste due punte attraverso un continente che era rimasto in larga parte libero dalla colonizzazione europea, fino ad allora interessata quasi esclusivamente alle coste africane e non all’entroterra. In un primo tempo il governo inglese aveva ipotizzato una semplice strada interna al continente – “dal Capo al Cairo” – ma adesso si pensava ad una catena ininterrotta di colonie e protettorati dislocati nelle fasce centrale e orientale dell’Africa. Negli ultimi anni, inoltre, soprattutto dal bacino del Congo in giù, la situazione si era fatta più complicata. Il Re del Belgio, Leopoldo II, grazie ai cospicui finanziamenti accordati alle esplorazioni di Stanley, aveva acquisito quella immensa proprietà privata che diventerà più tardi il Congo Belga. Inoltre, tedeschi e portoghesi, detentori di vaste zone costiere a sud-ovest e a sud-est, avevano iniziato a guardare con sempre maggiore interesse alle contigue regioni interne. Da qui, dunque, l’esigenza di un riordinamento complessivo della materia, affidato ad una Conferenza coloniale che si svolgeva a Berlino dal novembre 1884 al febbraio 1885.3 Gli esiti della Conferenza non erano particolarmente rilevanti: l’unica decisione importante (e singolare) era quella di creare uno Stato Libero del Congo e di attribuirne il possesso non al Belgio, ma personalmente a re Leopoldo, “sovrano-proprietario” del nuovo “stato”.4 La proprietà leopoldina veniva peraltro “aggiustata” secondo determinate convenienze: le si dava uno sbocco sull’Atlantico, attribuendole la regione del delta del fiume Congo, scippata al Portogallo; ma la si delimitava nettamente ad est (al confine con la regione dei grandi laghi) in modo da lasciare campo libero all’Inghilterra – Germania permettendo – per realizzare la sua catena di colonie Cairo-Capo. Unica consolazione per i portoghesi era il mantenimento del territorio di Cabinda, che diventava praticamente una enclàve a nord del delta del Congo. Ora, Lisbona accettava la perdita del delta del Congo, ma rifiutava di cedere all’Inghilterra i territori che congiungevano l’Angola (sull’oceano Atlantico) al Mozambico (sull’Indiano). Era in tale contesto che maturava una svolta fondamentale per il futuro politico del Portogallo.
il contrasto fra Portogallo e Inghilterra in Africa: la mappa rosa (1886)
E’ da considerare che, fin dalla riconquista dell’indipendenza portoghese nel 1641, la politica del Regno dei Bragança era stata caratterizzata da alcune linee-guida: difesa dell’indipendenza nazionale dai manifesti appetiti spagnoli, difesa dell’impero ultramarino dalle mire dei concorrenti europei, ricorso all’alleanza della Gran Bretagna (tradizionale nemica della Spagna) per proteggersi contro il potente vicino, e speranza nella buona sorte per far convivere tutte queste diverse esigenze. Il risultato di tale linea era stato l’affermarsi di una fortissima egemonia politica ed economica dell’Inghilterra sulla nazione lusitana. Dal 1861 regnava Dom Luís I di Bragança (detto “o Popular”), che nel 1862 aveva sposato la principessa Maria Pia di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele II. Sovrano illuminato e dotato di un notevole intuito politico, i primi anni del suo regno erano stati segnati da due scelte di grande rilevanza: l’abolizione della schiavitù nelle colonie e la ripresa della politica di acquisizione dei beni del clero, il cui primo impulso risaliva al 1834.
Dom Luis de Braganza.
Durante il suo regno i nodi dell’alleanza inglese avevano iniziato a venire al pettine. Non in Europa, dove i comuni interessi antispagnoli favorivano i buoni rapporti anglo-lusitani; ma in Africa, dove Lisbona appariva seriamente intenzionata a difendere i propri diritti “storici” su una determinata area dell’Africa australe, in forza della della presenza portoghese in quei territori. I primi dissapori si erano già manifestati negli anni ’70 del XIX secolo, quando il progetto inglese “dal Capo al Cairo” aveva iniziato ad apparire meno fumoso e più minaccioso, palesando in maniera inequivocabile il disegno di spezzare e di attraversare quell’unicum ideale che – nella visione dei portoghesi –comprendeva non soltanto l’Angola ed il Mozambico, ma anche i territori intermedi, quelli che gli inglesi chiameranno Rhodesia del Nord e Rhodesia del Sud e che oggi corrispondono grosso modo allo Zambia e allo Zimbawe. Era quello che i portoghesi consideravano «um Império sem solução de continuidade»,5 ma che sarebbe venuto ad interrompere inevitabilmente la soluzione di continuità dell’impero africano dell’Inghilterra. Luís I aveva reagito alle mene britanniche opponendo al progetto verticale Cairo-Capo un suo progetto orizzontale Atlantico-Indico, ed aveva dato impulso a tutta una serie di missioni esplorative verso l’entroterra, alla stipula di vari trattati di vassallaggio con le tribù dell’interno ed alla creazione di numerose stazioni coloniali (le estações civilizadoras) nei territori contesi. Intanto la Germania di Bismarck, interessata ad ottenere l’internazionalizzazione del fiume Congo (“il Danubio dell’Africa”), appariva in sorprendente accordo con l’Inghilterra di Gladstone. Successivamente, dopo il ritorno ad un certo antagonismo, l’innaturale alleanza africana anglotedesca sarà per breve tempo ripresa sotto il cancellierato von Caprivi. Per il momento, comunque, inglesi e tedeschi avevano promosso la conferenza coloniale di Berlino, che – come abbiamo visto – aveva defraudato Lisbona del delta del Congo. E non solo: aveva anche esplicitamente rigettato il criterio “storico” come elemento per riconoscere alle singole nazioni europee dei diritti di colonizzazione, stabilendo che solo la piena occupazione fisica di singoli territori africani avrebbe dato luogo a prerogative concrete. La qualcosa equivaleva ad eliminare dalla corsa coloniale quei paesi che – come notamente il Portogallo – non disponevano di forti risorse economiche e potevano permettersi soltanto presenze a macchie di leopardo. Nonostante ciò, il Portogallo non defletteva dalle sue posizioni e, all’indomani della conferenza di Berlino, continuava a rivendicare anche in termini ufficiali l’intera fascia di Africa australe che andava dall’Angola al Mozambico. Accadeva così che, in due trattati stipulati rispettivamente con la Francia nel 1886 e con la Germania nel 1887, Lisbona ribadisse a chiare lettere tutte le sue rivendicazioni africane, peraltro evidenziate nella famosa mappa rosa (la Mapa cor-de-rosa) che, d’intesa con i rappresentanti di Parigi e di Berlino, veniva consacrata nei documenti diplomatici ufficiali. L’Inghilterra reagiva con la consueta arroganza, dichiarando che l’accettazione delle rivendicazioni portoghesi da parte di Francia e Germania era nulla, perché quei paesi non avevano interessi diretti nel territorio in questione.
Il cancelliere tedesco Otto von Bismarck.
Il governo di Sua Maestà britannica, inoltre, supportava tale singolare interpretazione della prassi diplomatica con il solito, elegante ricatto: se i portoghesi non si fossero piegati alle richieste inglesi, il governo di Londra avrebbe riconsiderato la sua tradizionale politica di sostegno all’indipendenza lusitana, lasciando campo libero agli appetiti annessionisti spagnoli. Iniziava un lungo braccio-di-ferro tra Londra e Lisbona, con i portoghesi tutt’altro che rassegnati a subire le pretese britanniche. Non soltanto – infatti – il Portogallo continuava le spedizioni militari nell’entroterra, ma iniziava a tessere un abbozzo di alleanza africana con la Germania e con le repubbliche boere del Transvaal e dell’Orange in nome del comune interesse a contrastare l’invadenza britannica.6 A Lisbona nasceva e rapidamente cresceva un forte movimento d’opinione che sosteneva el Rei e il suo governo; la Mapa Corde- Rosa diventava in breve tempo il manifesto dell’orgoglio nazionale lusitano e della volontà di resistenza contro la prepotenza britannica. L’Inghilterra annaspava: se l’alleanza tedesco-luso-boera fosse divenuta operativa, quasi tutta l’Africa a sud del Congo sarebbe stata definitivamente perduta per Londra, e la stessa Colonia del Capo avrebbe corso qualche rischio.
L’ultimatum inglese e la nascita del nazionalismo repubblicano (1890)
Le repubbliche del Transvaal e dell’Orange, create nel 1854 dai coloni boeri (di stirpe olandese) dopo una dura guerra d’indipendenza contro la dominazione inglese, conserveranno la loro libertà fino alla nuova guerra del 1899-1902, che le vedranno definitivamente soccombere ai britannici. In aiuto dei britannici giungevano però alcuni avvicendamenti ai vertici europei: in Portogallo – innanzitutto – dove nell’ottobre 1889 moriva dom Luís I “o Popular” e saliva al trono dom Carlos I “o Diplomata”, sovrano certamente più incline che non il suo predecessore alla tradizione anglofila della casa di Bragança; e – poco tempo dopo – anche in Germania, dove nel marzo 1890 il “cancelliere di ferro” Otto von Bismarck usciva improvvisamente di scena e veniva sostituito dal generale Georg Leo von Caprivi, personaggio notamente digiuno di politica estera. Più o meno in concomitanza con tali eventi, la situazione precipitava: il Portogallo revocava alcuni privilegi precedentemente accordati in Mozambico all’Inghilterra, e questa prendeva le difese della tribù Macolele in lotta contro i coloni portoghesi.
Dom Carlos I.
Poi, l’11 gennaio 1890, Londra indirizzava a Lisbona una perentoria richiesta di ritiro delle truppe dai territori contesi, minacciando la rottura delle relazioni diplomatiche e lasciando addirittura intravedere l’ipotesi di una dichiarazione di guerra: era il famoso ultimato inglês (o ultimato britânico); ovvero, come taluni lo battezzeranno, o insulto inglês. Dom Carlos I – re da neppure tre mesi – era ben cosciente che il piccolo Portogallo non aveva neanche la minima possibilità di far fronte alla superpotenza britannica, e si acconciava a sottomettersi all’intimazione della nazione “amica”. D’altro canto, proprio in quei mesi anche la Germania di Caprivi iniziava una politica di genuflessione dinanzi ai desiderata inglesi, politica che – nel prossimo luglio – sfocerà nel cosiddetto Trattato Zanzibar-Helgoland, nefasto per gli interessi tedeschi. Né Parigi – sempre più remissiva di fronte a Londra – mostrava interesse a sostenere la politica africana di Lisbona. Il Portogallo si trovava, dunque, quasi del tutto isolato, con il solo appoggio delle deboli seppur combattive repubbliche boere. El Rei non aveva perciò alternative, ma commetteva l’errore di arrendersi senza combattere, anche soltanto metaforicamente; cosa che avrebbe poi avuto conseguenze drammatiche per la sua sorte e per quella della dinastia dei Bragança. Scriverà più tardi Mircea Eliade, il grande storico delle religioni che cinquant’anni dopo sarà addetto culturale dell’ambasciata rumena a Lisbona: «L’ultimatum e, soprattutto, la sua accettazione provocano però una formidabile agitazione popolare in tutto il Paese, rivolta sia contro la Gran Bretagna sia contro il Re, accusato d’aver venduto il Portogallo agli inglesi. Le manifestazioni si susseguono una dietro l’altra; gli studenti delle università e dei licei giurano solennemente di boicottare i prodotti inglesi, rifiutandosi persino di leggere Shakespeare; nascono svariate associazioni patriottiche per la salvaguardia dell’onore nazionale e la promozione d’una resistenza passiva contro la Gran Bretagna. Vengono attaccati i consolati e le sedi delle società inglesi. Si tratta di un’azione popolare di proporzioni impressionanti, che pochissimi immaginavano possibile e che dimostra una coscienza nazionale dall’insospettabile sensibilità.»7 Ma il Sovrano non sembrava comprendere la portata del grande movimento popolare che era in atto. Mentre nel Paese era un continuo fiorire di iniziative patriottiche, mentre cresceva la passione e montava la rabbia, mentre l’ostilità verso l’Inghilterra andava rapidamente assumendo le tinte accese dell’odio politico, dom Carlos non trovava di meglio che licenziare il governo di José Luciano de Castro,8 colpevole – solo per un momento – di lesa maestà britannica. Lo sostituiva con un gabinetto guidato da António de Serpa Pimentel, 9 incaricato di ricondurre rapidamente alla normalità i rapporti anglo-lusitani.10 L’immagine che il Re offriva all’opinione pubblica portoghese era, dunque, quella della rassegnazione, del ritorno disciplinato nell’alveo della subordinazione alla potenza inglese; subordinazione che – sia pure al nobile scopo di difendere l’indipendenza nazionale – aveva sempre caratterizzato la linea seguita dalla Casa regnante.
José Luciano de Castro.
La conseguenza di tutto ciò era che il movimento nazionalista portoghese – che in quei frangenti nasceva dalla reazione patriottica all’ultimato britânico – si incanalava nel solco di una linea repubblicana che, fino a quel momento, aveva rappresentato nel panorama politico lusitano un fenomeno estremamente marginale, di nicchia, espressione di sparuti circoli intellettuali il cui estremismo poneva automaticamente ai margini della società e della vita politica. Adesso, invece, il repubblicanesimo diventava di colpo un fenomeno egemone nella borghesia cittadina, sia pur limitatamente alle due grandi città di Lisbona ed Oporto, gli unici centri (a parte alcune cittadine particolarmente vivaci, come Coimbra e Braga) ove si svolgesse una vita politica ed ove esistesse un minimo di opinione pubblica.11 I rimanenti 9/10 della popolazione risiedevano nelle campagne e nei paesi rurali, dove nessuno sembrava interessato alle istanze repubblicane o alle rivendicazioni nazionaliste. In ogni caso, lo spirito dell’agitazione repubblicana della borghesia era squisitamente patriottico e “africanista”, e le sue ragioni potevano riassumersi nel motto «tutto per le colonie, nulla contro le colonie».12 Era così che un piccolo e fino ad allora inoffensivo Partido Repúblicano Português veniva di fatto rifondato ed assumeva, nell’ultima decade del XIX secolo, i tratti di una formazione politica nazionalista, nettamente ostile alla Gran Bretagna e propugnatrice di un iberismo che guardava alla Spagna con minor timore. I medesimi sentimenti nazionalisti e patriottici pervadevano anche la potentissima Massoneria portoghese (il Grande Oriente Lusitano Unido), che nel suo seno accoglieva indifferentemente elementi repubblicani e monarchici. Questo primo nazionalismo (“di sinistra”, laico, repubblicano, con forti connotazioni massoniche) era assai diverso da quello che, alcuni decenni più tardi, si affermerà come l’elemento politico dominante della scena portoghese: un nazionalismo “di destra”, filoinglese, monarchico, conservatore, cattolico se non addirittura clericale. In futuro, i due nazionalismi saranno spesso rivali, ma talora troveranno significativi momenti di collaborazione, come nel periodo della breve dittatura nazionalista-repubblicana di Sidónio Pais.
Il Grande Oriente lusitano.
Un’ultima notazione: per una singolare coincidenza, in quello stesso 1890 circostanze del tutto analoghe ponevano le premesse pure per la nascita del moderno nazionalismo tedesco. Anche in quel caso la vicenda scaturiva dalla politica coloniale e dall’arrendevolezza del governo nazionale di fronte alle pretese inglesi. Abbiamo già ricordato il trattato Zanzibar- Helgoland, trattato con il quale – in cambio dell’acquisizione di un minuscolo arcipelago del mare del Nord – la Germania riduceva al minimo la propria presenza nell’Africa orientale, lasciando campo libero all’Inghilterra in Kenia, Uganda e Zanzibar. Orbene, esattamente come l’ultimatum inglese in Portogallo, così in Germania il trattato Zanzibar-Helgoland generava un sentimento di frustrazione nazionale da cui prendeva le mosse un forte movimento d’opinione di segno nazionalista ed antinglese: da questo movimento – l’anno seguente – sarebbe scaturita l’Allgemeine Deutsches Verband (poi Alldeutscher Verband), la lega pangermanista progenitrice del nazionalsocialismo.
Soldati portoghesi in Mozambico (1916).
Note:
1 Endre SIK: Storia dell’Africa nera. Volume 1. La Pietra, Milano, 1977.
2 Henri WESSELING: La spartizione dell’Africa. 1880-1914. Casa editrice Corbaccio, Milano, 2001.
3 René ALBRECHT-CARRIÉ: Storia diplomatica d’Europa. 1815- 1968. Editori Laterza, Bari, 1978.
4 Georges-Henri DUMONT: Histoire de la Belgique. Le Cri éditions, Bruxelles, 1997.
5 Jesus PABÓN: A Revolução portuguesa. Editorial Aster, Libona, 1961.
7 Mircea ELIADE: Salazar e la rivoluzione in Portogallo. A cura di Horia Corneliu CICORTAS. Edizioni Bietti, Milano, 2013.
8 José Luciano de Castro Pereira Corte-Real (o semplicemente José Luciano), fondatore di uno dei partiti liberali (il progressista), Primo Ministro dal 16 febbraio 1886 al 14 gennaio 1890.
9 António de Serpa Pimentel (o semplicemente Serpa Pimentel), esponente del partito liberale regenerador, Primo Ministo dal 14 gennaio all’11 ottobre 1890.
10 L’imbarazzata marcia indietro di Serpa Pimentel era ben poca cosa di fronte alla resa totale alle pretese britanniche ed all’ignobile tradimento verso i boeri che più tardi saranno messi in atto dal 2° governo di José Luciano de Castro, responsabile del vergognoso trattato di Windsor, vera e propria abiura delle ragioni africane del Portogallo.
11Alle elezioni legislative del marzo 1890 il Partito Repubblicano Portoghese otteneva tre deputati, tutti eletti a Lisbona
12 José Antonio SARAIVA e Júlio HENRIQUES: O 28 de Maio e o fim do liberalismo. Vol.1: Das lutas liberais de Oitocentos ao advento da República. Livraria Bertrand, Lisbona, 1976.







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