Italia, anni Ottanta. Nella Destra, sulla Destra. Di Marco Iacona.

La chiamavano 'Nuova Destra.'

In un video disponibile su YouTube, è appena il caso di dire gettonatissimo, si agita a mo’ di airone in volo. Lei è Donna Summer interprete di I Feel Love, pezzo supersexy del bolzanino, tre volte Oscar, Giorgio Moroder. Sigla di Primo piano: idee e fatti dei nostri giorni, appuntamento intrinseco a uno spazio pubblico televisivo che, di lì a pochi anni, non esisterà più. Dicembre 1980, giovedì 4, un quarantenne Giampiero Mughini, molto Philip Marlowe, conduce e nell’intervallo di un’ora: Nero è bello, “storicissimo” documentario sulla destra giovanile italiana. Anche se i vertici del FdG sembreranno non gradire: una goduria per militanti e fiancheggiatori.

Ecco. Si prova finalmente a sondare quel «paesaggio umano complesso» che è la destra, o chiamatelo pure neofascismo. E la novità è duplice: si dà spazio alla voce dei protagonisti, giovani e meno giovani, contemporaneamente si rende pubblico il fatto che essa, la destra, da almeno un lustro cerca di diventare altra cosa da quel che finora è stata. Mughini, catanese in prolungata trasferta, riusciva a sintetizzare a stento la storia di un movimento del quale a mala pena si conoscevano le sigle, le azioni, quelle infelici, pochi protagonisti e purtroppo anche le vittime, come Francesco Cecchin e i ragazzi di Acca Larenzia. Ovviamente, pochissimo le idee. Mettiamola così: la storia va avanti per cesure e ripartenze e, fino a quei giorni, le date da ricordare erano solamente due: 1945 e 1968.

Pino Rauti.

A rammentare la prima è Rauti, fondatore di Ordine Nuovo, sodalizio che è padre e madre della destra radicale e intellettuale. Giornalista ed europeista “della prima ora”, Rauti pareva simboleggiare l’avversione al sistema e più di ogni altro, a destra, riproduceva il tipo faustiano con genuina voglia di conoscere, elegantemente polemico e raramente soddisfatto. È lui che sintetizza, in una battuta, umori e urgenze dei giovani rivoluzionari. Ciò che conta è quel punto di vista ideologico che, traduttore pressoché unico, si fa e si farà carico delle ragioni della continuazione della “lotta”. Dato che il Ventennio, per Rauti, restava una «grande incompiuta»[1], era ovvio forse perfino necessario che la fazione evoliana, i Figli del sole, non abbandonasse l‘arena dello scontro; scontro idealmente interpretabile come battaglia di civiltà al di qua e al di là dei confini nazionali. Il futuro segretario missino spiegava che nel 1945 era stata l’Europa per intero, cioè come idea, ad essere sconfitta.

Più che un Continente geografico, e di certo anche quello, trattavasi di un Continente evoliano (e heideggeriano), che ovviamente e idealmente non era né quello statunitense né quello sovietico, ma spazio teorico che, alla meno peggio, custodiva spirito e tradizione di un Occidente che alla modernità dei due blocchi era ed è fisicamente e metafisicamente ostile. Rauti ha doti di chiarezza e intelligenza, per questo è leader riconosciuto della destra giovanile, non essendo peraltro mai stato sordo al dibattito sulla contemporaneità (a chi scrive confessò durante una lunga chiacchierata di esser stato un evoliano diciamo così poco ortodosso, cioè tutt’altro che reazionario), in quel contesto si mostrava sensibile alle idee della “Nuova Destra”.

Per essa c’è ovviamente Tarchi, invitato a dire la sua anche sul Sessantotto. La lingua batte dove il dente duole. Nel periodo della contestazione la destra non c’era (o se c’era era abitata dagli incubi), poiché in e di quel mondo, fatto per lo più di libertari, la sinistra era interprete autentica e diciamo così ispirata. Quella prolungata esperienza, divisibile in piccole grandi “rivolte”, verrà comunque a soccorrere una destra in crisi di lungo periodo. Pratiche o di principio, le questioni in ballo erano tante: la tradizionale contesa circa il mondo giovanile, la maggioranza numerica all’interno delle università, la perduta o ri-acquistata credibilità circa la lotta per una ringiovanibile Kultur, per non tacere infine del destino politico di una comunità realisticamente mai a corto di argomenti. Già a partire dai Settanta destra e cultura non apparivano più polemicamente ossimori (ammesso che lo fossero mai stati), basti pensare ai volumi già editi da “Volpe” e da “Rusconi”, basti ricordare quei quattro “moschettieri” di un imprecisabile re: il cattolico Del Noce, l’eclettico Zolla, il “marxista” Plebe e il tradizionalista Evola.

Marco Tarchi.

Da anni va avanti la storia che gli acculturati a destra tra un saggio di Spengler, Pareto o Eliade, si contendessero le letture dei giganti Gentile ed Evola, “amici” mai, o meglio: quasi mai, né del resto affiancati/affiancabili in una lotta comune (di assoluto rilievo ermeneutico la considerazione che i due moriranno a trent’anni di distanza). Punto d’ispirazione per veri contestatori e perfino libertari, “aristocratico” che ama la libertà in sé e negli altri, pensatore ma anche uomo d’azione e per l’azione, divulgatore di stratosferica valenza, il secondo; teorico di un inquadramento statuale rigido e “casermistico” viatico per un ordine sociale a garanzia di un innesto delle istanze più moderne, come il lavoro, organizzatore culturale di immense virtù, il primo. Entrambi avversi ai princìpi della Rivoluzione Francese, anti-materialisti, anti-individualisti e “mussolinisti”. Si può ben dire che se Gentile è il fascismo-storico con le sue istanze di nuova pedagogia, Evola è il neo-fascismo, o naturalmente certo neo-fascismo, nella sua rivolta globale contro il moderno. L’uno ultra-statalista, l’altro comunitarista. Da non sottovalutare infine, laddove presente, un terzo filone cattolico che si oppone a certi ritorni “paganeggianti”, riferibile alla cultura di destra, agostiniano o tomista.

Julius Evola.

Non v’è dubbio che Mughini sia attratto dalla personalità di Evola (come lo è Vittorio Sgarbi, suo “nemico” televisivo e ideatore di una mostra delle pitture del romano, nella primavera del 2022, a Rovereto: mostra fin troppo modesta come d’altra parte quella di Reggio Calabria del 2005). Difficile dire se i “pellegrinaggi” a casa Evola, in centro a Roma, abbiano in un certo qual modo rimpiazzato quelli diretti a Predappio, sulla tomba di Mussolini. E se il numero dei visitatori di casa-Evola, Evola vivente, fosse maggiore di quello diretto al sepolcro mussoliniano. Militanti e curiosi a caccia di una testimonianza, lì per motivi di studio o all’indifferibile ricerca di un “centro di gravità permanente”. Probabilmente no, certo è che la destra ha “blindato” ognora miti e personalità cui rendere costante, devoto omaggio (si pensi, se non al rumeno Codreanu, al giapponese Mishima, poi a J. R.R. Tolkien e a tanti altri); dal canto suo, Evola, uomo di destra più che fascista, si è reso protagonista di occasioni culturali che ne hanno consolidato la fama di genio, della filosofia, dell’arte e non solo.

Definirlo, cioè circoscriverne gli interessi, è impresa ardua. Giorgio Almirante, rivale di Rauti, lo paragonò al francofortese Marcuse, Sgarbi lo affianca all’antipositivista Kandinskij, per Stefano Zecchi Evola è un neo-stoico, il suo Cavalcare la tigre un libro di titolata resistenza contro le violenze della modernità. La credibilità e la fama del filosofo della Tradizione sono state, però, basculanti. Pesano come macigni quei libri sulla razza e quel volontario accreditarsi come “teorico del razzismo”, nel periodo in cui il fascismo storico tramontava, ri-scoprendosi affine, per forza o per piacere, all’hitlerismo. All’acerbo teorico dell’Individuo Assoluto, quegli accenti razzisti, a loro modo ingenui e polemici, non sono mai stati perdonati[2]. La vecchia destra non imbastirà alcun dialogo costruttivo con chi di destra non è, le fondamenta del pensiero evidenziano l’incomunicabilità di due pianeti: quello politico, della bassa politica, della polemica spicciola, quasi accidentale, e quello ideocratico eretto sulla chiara disapprovazione delle moderne fenomenologie, come avviene per esempio in Georges Bernanos, e sull’oggettività di un morbo attuale e come altro da sé.

Giano Accame.

Da ultimo e non per ultimo, nei Settanta, la società si brutalizzerà, parte della responsabilità sarà della sinistra giovanile che, a sentire Mughini, si darà a quasi-militarizzare le proprie schiere; per altro verso, replicherà Accame, l’Italia ufficiale non si farà mai carico della precarietà esistenziale e politica dei giovani di destra, che per ciò stesso mariteranno braccia e menti a certo anarchismo materiale e intellettuale. Poco utili (o se poco utili) al sistema, i fascisti, continueranno ad alloggiare nelle fogne, nelle quali sorretti da caustico buon umore si troveranno sovente a loro agio. Mughini strapperà a Tarchi un inequivocabile commento: sì, la destra nutriva davvero un senso di inferiorità; affermazione grave e seria che, facilmente, potrebbe essere smentita: la penna di uno dei leader giovanili dei Cinquanta, Enzo Erra, aveva perpetuato quello stadio di autentica, giovanile “consapevolezza” raggiunto dai giovani reduci, dopo la fine della guerra. Essi, per se stessi, erano almeno fino a un certo punto gli “eletti”.

Gianfranco Mughini.

Sconfitta ed isolamento creano un nuovo tipo antropologico, ovviamente pronto ad innestarsi al vecchio. Sempre necessaria la regola della doppia esse, spirito e sconfitta, fattasi carne e sangue con Drieu La Rochelle, Robert Brasillach, Louis-Ferdinand, Céline, Ezra Pound, e poi con Hermann Hesse ed Eliphas Lévi, ragionanti, “maghi” e ragionatori a favore di una crescita individuale e di un supporto pedagogico e meta-politico. Smaltita, in parte, la sbornia consumata nelle stagioni delle feroci contrapposizioni, giovani e meno giovani adesso (forse) ambiscono a somigliare gli uni agli altri. Le culture massmediologiche, non propriamente di destra, catturano le menti delle nuove generazioni, tornano al primo posto, come fogge esistenziali, anche le esperienze di vita. Il destrino non è più esclusivamente borghese, non è più solo per “legge e ordine”, bensì ultra-sensibile ai movimenti alternativi e di protesta provenienti dal mondo anglosassone e da quello francese. Un tipo radicale nei modi ma con un’aggiornata visione del mondo da opporre, sempre e comunque, a un Occidente malato; meno conservatore in politica (conservatore nel senso più comune del termine) e nei fatti avverso a un paludato Msi.

Per bocca dei suoi leader, la “Nuova Destra” si scoprirà avvinta alla parola, in nome di un anticonformismo generazionale post-adolescenziale, fiduciosa in un confronto dialettico sintetizzabile nella “banalità” di un ordinario tono comunicativo[3].

Cosa vorrebbero gli intellettuali? Per sfuggire a un astrattismo che a distanza di decenni distorcerebbe il messaggio della destra negli ottanta, potrei dire che essi vogliono anzi in primo luogo cercano il dialogo, prediligendo, così pare, le teorizzazioni in modalità ascolto. Su quale base certa? Direi, approssimativamente: sull’esistente o sull’esistenza a discapito di talune incancrenite essenze che caratterizzavano primitivi confini tra destra e sinistra. Due realtà politico-culturali vere, precise, ma che il lungo Sessantotto aveva deformato dal momento in cui erano venute a contatto, per la prima volta, vecchie ideologie e nuove generazioni.

Un Sessantotto che seguiterà ad essere interpretato come costitutivo di un processo di caduta nichilistica e di secolarizzazione delle pratiche, contro il cui irrompere a bocce ferme qualcosa poteva essere fatto e non solo detto. Un desio di concretezza pareva distinguere i giovani di destra, esso replicava le mansioni rivoluzionarie dell’intellettuale: assiduamente aperto all’interrogazione dell’altro da sé, spiazzante, creativo, non omologabile ad immagini stra-usate, non omologato al “pensato”[4]. Attento a misurare le distanze dai linguaggi del potere[5]. Su quel “qualcosa” isolabile come fenomeno di nuova sintesi o semplicemente “sintesi”, si programmavano assemblee e conferenze al fine di tradurre quella che veniva letta come passiva «testimonianza» nel moderno, in una costruzione di senso nel «caos» di tutte le apparenze del moderno[6].

La destra si apriva al mondo o ai mondi attraverso un’esuberanza ermeneutica o una fase di ricerca di libere identità, di esperienze e miti fondanti, carezzando i fianchi degli aggiornati profili del relativismo o perfino di tal estetismo anti-valoriale. In primis, non intendeva più concepire, essa, la cultura di massa o delle masse come mostruosa al più penosa alterità contro la quale per necessità scontrarsi. Un atteggiarsi snobistico che faceva del mitizzato quarto d’ora di celebrità la versione satanica dell’ordinativo bisogno di un’élite funzionale. E il passato? Qualunque esso fosse, doveva spogliarsi della nevrosi maniacale del manicheismo che attribuiva patenti etiche ad amici (pochi) e nemici (tanti). Fatta fuori, per teoria, ogni velleità autoritaristica si riscopriva il politico come dimora spazio-temporale per così tanto discorrere.

La Nuova Destra, ché di questo si tratta, si prefiggeva l’obiettivo di colmare i disagi della destra attraverso le fasi di un posizionamento dialettico tipiche della modernità in senso non astratto. Si tornava a scommettere sull’uomo facitore di un mondo ordinabile per differenze naturali e culturali, un uomo che non era aprioristicamente “per” o “contro” qualcosa o qualcuno, né in alcun modo privilegiato per convenzionali appartenenze. Un discorso, quello del confronto tra amici e nemici, che sarebbe andato avanti per lungo tempo subendo ripetuti ed effettivi cambi di marcia.

Le rigidezze di Evola sono forse distrattamente avvertibili come chiusure assolute, purtuttavia la sua biografia pullula di svolte necessitanti e di confronti con i frutti del “qui e adesso”. Lo stesso Evola che sopravvive al fascismo, pur dichiarandosi reazionario, si mostra sensibile a forme di concreto diveniente tatticismo, come a taluni modelli della modernità istituzionalizzata. Le sue rivolte sono ispirate dai livelli assunti, volta a volta, da una “sovversione” appunto in divenire. Quelle rigidezze sono sovente frutto dello spostarsi in avanti delle tensioni politiche, e si può ben dire che il filosofo adatti la prosa a un registro di tipo conservatore, essendo tra l’altro cosciente del proprio ruolo da “utopista”. Lui però e non altri. Un osservatore del costume italiano non può non volare a bassa quota, riassumendo il proprio disappunto con qualche opportuno rimbrotto.

Discorso ben diverso si può fare per quanto riguarda l’esegesi tolkieniana; la lettura rigidamente etica della ben nota trilogia, di un’etica che perimetra le superfici di un conflitto durissimo, ha sovente oscurato un esercizio “educativo”, pienamente formativo, sapidamente iniziatico, per se stessi e che si conclude in se stessi; insomma, si è andati alla facile ricerca di nemici fuori di sé (non di nemici in sé) auto-celebrando una purezza (in sé) ad un tempo ragione e opinione. Presupposto, quello della lotta contro lo “spirito” borghese ovunque esso si trovasse, che Evola stesso aveva posto a monte di qualunque azione o condotta; si diceva che l’educazione fascista fosse primariamente “spirituale”, e qui valga per emotiva. D’altra parte, quello di un uomo nuovo e di un nuovo sguardo sul mondo erano stati temi favoriti da buona parte delle avanguardie e dai letterati di primo Novecento.

Renzo De Felice.

C’è ancora qualcosa che non quadra, anzi forse no: quadra perfettamente. Il fascismo anti-storico (metafisico), morale anzi immorale, eterno benché umano troppo umano e poco istituzionale, negli Ottanta acquisisce un significato che per bocca di qualcuno s’intende psicologico. O meglio: psicologico nel senso originario di “fascismo dell’anima”, intuibile da certo non-conformismo ma al più osservabilissimo. La destra ottimisticamente si avvicina alla sinistra, nel senso che letture operate da fronti opposti paiono al fine congiungersi. Se quello usualmente fascista era stato, in linea di massima, “modello” paradigmatico di sostanza politica, capacitante, inemendabile nella sua struttura attualistica, un fascismo in attesa di positive nuove politiche, adesso vestendosi di criticismo si intellettualizza de-spiritualizzandosi, divenendo materia per auto-critica e appunto per un utile dialogo fondato sul dubbio conoscitivo.

Ancor più “rivoluzionaria” era la lettura che si dava del (neo)fascismo giovanile dei Settanta. Non funziona, non poteva funzionare il modello semplice “destra radicale” da taluni riferibile a un mondo “altro” che non si voleva più o che forse non si era mai voluto davvero, esplicitamente vendicativo[7], frutto di dissennati innamoramenti e sorto da un origami di distorsioni politico-concettuali imparentabili al primissimo atto del reducismo. Una triste parentesi anche almirantiana debole del comandamento generale di resistere alle ostilità diffuse. Certe teoriche, peraltro coltissime, davano il senso di un’estraneità costituente e costituzionale al mondo dei vivi. O meglio: a quei vivi che la bruta scienza biologica destinava all’occasionale ruolo di protagonisti. I viventi erano coloro che in nome di una filosofia anti-democratica tout court eleggevano a patria altre dimensioni. Il bosco assurgeva, per esempio, a scenario di resistenza ed immagine principe di un desiderio necessario, nel quale risaltava una posa esistenziale assunta nel corso di un faticoso, arricchente attraversamento nella direzione della libertà più autentica.     

Il “fascismo” tornava invece in lavorazione attraverso un piacevole bagno psicologico e in una ben capiente tinozza; quello Stato idealmente autoritario di cui si era discusso perdeva la sua potestà impositrice attingendo al dizionario virtuale della sana accoglienza. Pedagogicamente si sarebbe chiamato Stato facilitatore per la “compra-vendita” dei valori. Il passato recente veniva dichiarato “illusorio” da Marco Tarchi in nome di una acquisita o acquisibile neo-realtà. Due gli elementi o i fattori che avevano, per dirla con Giovanni Gentile, reso fin troppo “artistico” il fascismo. Ovviamente l’evolismo e ovviamente la prassi di quell’assordante de-soggettivizzazione che aveva ridotto il fascismo a una fantasia im-popolare. La seconda andava nella direzione di un superamento ingenuo e iper-idealistico dell’attualità e della semplice contrapposizione destra-sinistra per cui il fascismo poteva ben essere un paradiso di trasgressive incorporee buone volontà; il primo nell’iper-valutazione di quella trascendenza che aveva reso il verbo evoliano parola sacra per più generazioni. Ma insomma, il fascismo era di destra cioè evoliano o non era né di destra né di sinistra?[8]

Sciascia continuava ad avere ragione, i fascisti stavano studiando, certamente non leggevano solo Céline, e le coeve interpretazioni del fenomeno storico portavano acqua al mulino di nuovi intellettuali alla ricerca “graalica” di una destra sempre meno vecchia. È una sintesi già affrontata, ma circa il fascismo storico se ne erano già dette troppe. Dal fascismo tutt’altro che rivoluzionario di Angelo Tasca, Paolo Alatri e Luigi Salvatorelli a quello corporativista di Federico Chabod, dal fascismo di sinistra di Fidia Gambetti a quello rivoluzionario di Giampiero Carocci, da quello nato socialista di Franco Catalano a quello sinistrorso ma antibolscevico di Enzo Santarelli. Ciascuno aveva avuto un proprio fascismo da divulgare nel tempo e con buona dose d’applausi.

Giorgio Almirante.

Ci si avvicinava a una lettura meno criminalizzante o meglio diversamente “a-politica” che avrebbe, quasi per paradosso, introdotto il fascismo in uno spazio di civiltà nel quale protagonisti non fossero partiti o correnti bensì fenomeni epocali, significati del significante, abusato o meno, di “contemporaneità”. Esattamente per questo, scrive Tarchi, George Mosse e Renzo De Felice aprono le porte rispettivamente alla conoscenza dell’«humus culturale» nel quale il fenomeno in parola si era sviluppato (o i fenomeni in parola si erano sviluppati), e all’immagine poli-dimensionale che ora confusamente ora no il fascismo di ieri e di oggi aveva rimandato di sé. Un fascismo che era conservatore, rivoluzionario, borghese, rivoluzionario-borghese con annessi e connessi e perfino “nazional-popolare”. Un fascismo da sezionare non da demonizzare, da frazionare in tracciati, fasi e volumi, ché appariva «come un crocevia di pulsioni di opposta provenienza»[9].

Giovanni Gentile.

Ed è Mussolini, uomo di certissimo spessore politico, ad essere investito della responsabilità di centro equilibratore tra ritagli di Regime o pezzi d’Italia in quasi costante, obiettivo conflitto. Benissimo il fascismo storico non poteva affatto prescindere dallo sforzo di imporsi dell’una o dell’altra parte fino alla tragica conclusione della Rsi. Perfino il Msi sarebbe stata la prosecuzione di una “lotta intestina” tra componenti sociali e borghesi, in stretta relazione con una progettualità economica da alcuni garbatamente rifiutata, ma da altri nella ben nota parabola del corporativismo e della socializzazione resa riconoscibilissima.

Come ogni rivoluzione dichiarata e progettata, quella della Nuova Destra nutriva legittime aspirazioni nazionali, addirittura europee. Per quanto detto, nulla a che vedere coi conservatorismi banditori di un gioco di alleanze strategiche, seppur mai dimentichi, essi, di purezze irrinunciabili ed auto-ghettizzanti, né con fascismi vecchi e soprattutto nuovi la cui radicalità si traduceva in un quasi-obbligatorio disinteressarsi del momento formativo-esperienziale. Il campo di incontro-scontro delle opzioni critiche, in linea del tutto generale, era però eccessivamente vasto: molte le simpatie, molte le antipatie, diversi gli anatemi dei “democratisti”, qualche scrollata di spalle. La Nuova Destra era un contenitore a più anime (virtualmente gigantesco), per analisti del politico, taluni, uomini e donne, dal tratto indiscutibilmente geniale. Ragioni di paura poi, o talvolta di sollievo, scovavano nel contenitore Rivoluzione Conservatrice, problematica corrente di pensiero temporalmente anticipatrice del nazionalsocialismo, precedenti di incondizionato rispetto. Gli è che, quella corrente di magiche intelligenze aveva, in un certo qual modo, dato fondo ad ogni opzione di successo in merito a quel peculiare rivoluzionarismo, per cui letti e commentati erano ancora Schmitt, Jünger, Spengler, e con loro “papà” De Maistre e quel campione di “trasversalismo” che è Nietzsche. Ma letti e commentati, quegli autori un po’ profeti un po’ maledetti, lo erano anche da Giacomo Marramao e Massimo Cacciari, filosofi dialoganti e simpaticamente “alleati” delle ambizioni trasvalutanti della Nuova Destra.

Nondimeno, le ceneri della vecchia Europa erano ancora calde, gli occidentalismi e gli orientalismi se non necessari qui e lì necessitanti, i punti di riferimento intellettuali, francesi e appunto tedeschi, erano gravati di un eccesso di considerazione ora storica ora meta-storica, certe cuginanze infine particolarmente ingombrati. Non da adesso, i paesi del terzo mondo abbracciavano una onerosissima libertà. Qui e lì, riapparivano le macchie di un fascismo indistruttibile: quell’“antica” dottrina secondo il cui dettato un giovane di destra era «fascista» anche se sedeva tra gli «antifascisti». Il dubbio avanzato da Franco Cardini era allora di questo tenore: quel fascismo incancellabile non era forse la prova provata del fallimento di un intero sistema? La storia aveva come eretto margini di eternità alle sue narrazioni, certo criticismo egualitario e progressista ancorché confortato da nobili adiacenze perennizzava quell’incerto darsi, risolvendo il suo girovagare nell’usato costume della condanna senza appello.

Fascisti per alcuni, “al passo coi tempi” per altri (e per altri poteva ben significare la medesima cosa…). Meriti e colpe della Nuova Destra erano forse quelli di parlare il linguaggio dei giovani, di pretendere un confronto con qualsiasi gruppo politico anche se subalterno a taluni schemi ideologici. I temi determinanti pescavano in un quasi utopizzante amore per comunità scevre da statualistiche oppressioni o da americanismi di maniera. Probabilmente, nessuno in nome di idealismi anch’essi di maniera, avrebbe rigettato proposte provenienti da una scienza portatrice, adesso, di peculiari, stimolanti fortunate prospettive. Gli è che anni di violenza politica e la misera prospettiva del “riflusso”, giudicato colpo di coda di un sistema che dopo aver lavorato all’interno delle generazioni imponeva, adesso, dall’esterno una quiete dettata da “correttissime” istanze, avevano operato alla formazione di aspettative invero molto generose. In due parole: c’era un’urgente necessità, a destra, di dimostrare certo acquisito valore sul campo, nel territorio delle opinioni.   

La parola d’ordine tornava ad essere «concretezza» anche se, si poteva star tranquilli, talune proposte della Nuova Destra ancorché coraggiose (si pensi alla dialettica eguaglianza/specificità) non avrebbero mai conquistato la maggioranza del Paese. Errore a questo punto da evitare, concludeva il battagliero Cardini, sarebbe stato quello di trasformare la destra in un soggetto politico conformista ovvero semplicemente di «dirsi sempre, tutti e comunque, di sinistra»[10].

Pino Rauti, Giano Accame, Marco Tarchi, anche loro sono personalità in vista. Leader e intellettuali aperti a una trasformazione quasi genetica della destra; in diuturna attesa di un soggetto politico inusuale, alternativo all’immagine di un “Sé” che avversari e amici andavano costruendo. Legati all’esperienza della Rsi in vario modo: volontari i primi due, nipote di un ex ministro il terzo; lontani dalla posa da guerrieri sconfitti, tipica di una compagnia conquistata per necessità “statutaria” dall’impegno gravoso di contemplatrice di rovine o di cavalcatrice di fiere; non propriamente in attesa che il moderno si “smodernizzasse” ovvero nient’affatto alla ricerca di inclassificabili rivelazioni. Non per niente, ognuno a modo loro, protagonisti per decenni.

Armando Plebe.

Sono le voci della destra degli Ottanta, messaggeri delle novità proposte e, perché no?, responsabili di energiche reazioni e vivide attinenze. In ogni dibattito colto, potenzialmente inesauribile, si presentano con sicura dignità. I loro toni, dati spazi e tempi, non possono non essere forti e leggeri all’unisono. Rauti è immagine dinamica di contrasto alla sostanza del potere, nonché della cerca di un equilibro tra logiche istituzionali e richieste in ambito culturale (l’ala rautiana o componente ordinovista della destra è tradizionalmente quella colta). Partigiano di un socialismo nazionale di fonte risorgimentale e poundiano, Accame è uomo del dialogo tra parti in causa inconciliabili solo in apparenza, entrambi formulatori di personali eziologie per ciò che concerne origini e sviluppi dell’attuale crisi, una su tutte l’insufficienza o la non completa originalità della critica della “Scuola di Francoforte”. L’eretico Tarchi invece anticipa la crisi delle sostanze ideologiche partendo appunto dalla semplice analisi della crisi del sistema. Tutti e tre, non pregiudizialmente contro il protagonismo giovanile restituito dalla più recente prassi generazionale.

Da sinistra: Gianfranco Fini, Giorgio Almirante, Maurizio Gasparri, Almerigo Grilz (Montesilvano, 1981).

Per Accame e ovviamente per Tarchi, Nuova Destra è possibilità di sintesi politica o dei valori politici che contrastano con le scelte delle destre a vocazione totalitaria, senza tralasciare il Msi forza politica demagogica che vive o forse sopravvive di un “moderatismo” fine a se stesso. Rauti invece legge il fascismo con lenti sternhelliane, anti-occidentaliste, anti-borghesi e/o rivoluzionarie tout court ed è tra i tre quello più legato alla tradizione partitica; quel carismatico vice-segretario non può non interpretare battaglie e confronti del e nel Msi come momenti di un utile chiarimento, con eventuale storicizzazione, in relazione al mai morto Ventennio[11]. Anche a destra, in quella destra, il fascismo storico non interrompe le proprie avventure dello spirito.


[1] Testimonianza scritta di Pino Rauti all’autore, luglio 2006.

[2] Francesco Germinario, Razza del sangue, razza dello spirito. Julius Evola, l’antisemitismo e il nazionalsocialismo (1930-1943), Bollati Boringhieri, Torino 2001; Mirella Serri, Sgarbi celebra l’Evola pittore e futurista ma dimentica il suo lato fascista e razzista, in la Stampa, 5 luglio 2022 (seguiranno repliche e controrepliche anche su altre testate).

[3] Nero è bello, documentario di Giampiero Mughini, https://youtu.be/jLFGvwWygDk.

[4] Peppe Nanni, Destini del Politico, in Diorama Letterario, n. 76, Novembre 1984.

[5] Umberto Croppi, I luoghi del potere, in Diorama Letterario, cit.

[6] Marco Tarchi, Falsa identità e nuove sintesi, in Diorama Letterario, cit.

[7] Marco Tarchi, Falsa identità e nuove sintesi, cit.

[8] Marco Tarchi, Falsa identità e nuove sintesi, cit.

[9] Marco Tarchi, Falsa identità e nuove sintesi, cit.

[10] Franco Cardini, Nella galassia della Nuova Destra, in Diorama Letterario, cit. 

[11] Anonimo, Quale destra?, in Diorama Letterario, cit.

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