La Filosofia della Storia è il ramo della Filosofia che riflette sul senso possibile della Storia umana; ipotizza, giustificandolo in maniera appropriata, un eventuale fine teleologico (1) del suo sviluppo. Si chiede se esista o meno un disegno, uno scopo, un obiettivo o un principio guida nel processo della storia umana. Se il suo oggetto è la verità o il dover essere, se la Storia è ciclica o lineare, o esiste in essa il concetto di progresso, sono tutte questioni discusse dalla Filosofia della Storia. Non si devono confondere i possibili fini teleologici dell’uomo nella Storia con i fini della Storia stessa, ovvero la giustificazione della propria storia come memoria dell’umanità. La Storia è una scienza sociale ed umana che non può esimersi dal comprendere perché è responsabile di studiare i processi sociali: essa infatti deve spiegare i fatti e gli eventi del passato, sia per la conoscenza in sé, sia perché ci aiuta a comprendere il presente (Miguel de Cervantes ha definito la Storia, una maestra di vita).

Sallustio giunse a dire che tra le varie occupazioni che si esercitano con l’ingegno, la memoria degli eventi passati è prominente per la sua grande utilità.
Gaio Sallustio Crispo.
L’importanza radicale di ciò si basa sul fatto che la Storia è l’unica scienza – insieme alla medicina – in cui il soggetto ricercatore coincide con l’oggetto dello studio. Da qui la grande responsabilità dello storico: la Storia ha una proiezione verso il futuro proprio per la sua potenza trasformatrice come strumento di cambiamento sociale.
- In filosofia: argomento teleologico, la prova dell’esistenza di Dio che si ricava dalla considerazione finalistica del divenire (se ogni cosa tende a un fine da realizzare, dovrà necessariamente esservi, perché il movimento non continui all’infinito, un fine ultimo, cioè l’assoluto divino.
Giambattista Vico: La Storia e le sue Età
Vico illustra la propria concezione della storia, che, provvidenzialisticamente, muove dal desiderio dell’uomo di superare lo stato primitivo di caduta e di bisogno e di innalzarsi verso l’ordine divino a cui sente di appartenere. Questo sforzo, denominato da Vico “conato”, è necessario per superare quegli impulsi primitivi che limitano gli uomini, i bestioni insensati che si affidano esclusivamente all’istinto ferino, così che, prima della costituzione della società, non è possibile parlare di umanità in senso proprio. Per il filosofo, sono tre le istituzioni civili che fanno uscire l’essere umano dalla condizione di bestia: il concetto di religione, lo strumento del matrimonio, il ricorso alla sepoltura dei morti.
Giambattista Vico.
Vico divide quindi la storia in tre differenti Età
l’Età degli Dei, in cui gli uomini, affidandosi esclusivamente ai propri sensi e alla loro fantasia, interpretano il mondo come un gigantesco organismo di forze incommensurabili. Così, le forze naturali diventano divinità, benefiche o punitive, di un sistema politeista generato dalla fervida immaginazione dei primi uomini. Il potere spetta alle divinità superiori, e il loro volere è reso noto per mezzo di auspici ed oracoli. Il linguaggio, che qui è ai suoi albori, è il depositario di queste credenze, concretizzatesi nei miti religiosi.
L’Età degli Eroi, in cui la società inizia a stratificarsi: un gruppo si impone con la forza sugli altri, arrogandosi quelle qualità che prima spettavano agli dei. È il tempo della virtù aristocratica (in cui si fondono, tra le altre, valore militare, pietà, temperanza e coraggio) si formano i governi aristocratico-oligarchici, fondati sul dominio dei pochi sui molti. In questa fase, è la poesia epica a celebrare le gesta dei primi eroi.
l’Età degli Uomini, in cui tutte le credenze precedenti ricevono un fondamento e una spiegazione razionale e si impone il principio dell’uguaglianza degli uomini di fronte alla legge, che è la garanzia sia delle repubbliche popolari sia delle monarchie. In quest’età, oltre alla filosofia e al diritto naturale che assicura la convivenza civile, nascono anche le altre discipline, come la logica, l’economia, la politica. Ai generi poetici della fase precedente si sostituisce l’espressione in prosa, e il linguaggio stesso assume la natura di una convenzione stabilita storicamente tra gli uomini.
Secondo un’analogia tra lo sviluppo dell’uomo e il progresso della Storia, Vico istituisce un paragone tra queste tre età e i tre gradi della mente umana, che sono quindi differenziati in senso, fantasia e ragione. Anche se questa successione non va interpretata troppo rigidamente, essa spiega bene la rivalutazione vichiana degli aspetti creativi e fantastici esclusi dal “metodo” cartesiano e dal suo privilegiare la certezza scientifica e il primato della ragione; Vico infatti assegna al grado della fantasia lo sviluppo della sapienza poetica: la poesia, nata prima ed indipendente dalla ragione e dall’intelletto organizzato, è così l’espressione di una facoltà a sé stante, con cui gli uomini esprimono il trascendente attraverso il linguaggio. Esempio tipico – e per Vico forma più elevata della poesia umana – di tutto ciò è la poesia omerica dell’Iliade e dell’Odissea, che è il racconto corale e l’opera collettiva dell’età eroica del popolo greco, una poesia “barbara” che però esprime verità sostanziali non ancora razionalizzabili tramite una riflessione intellettuale. A questo servono gli “universali fantastici”, ovverossia immagini poetiche che riproducono gli attributi topici dell’esperienza. Alla decadenza della poesia con il sopraggiungere del raziocinio corrisponde invece l’affermarsi, sia a livello del singolo individuo che dello sviluppo dell’umanità, dei “concetti universali”.


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