Da giorni, l’omicidio dell’attivista politico statunitense Chiarlie Kirk (Arlington Heights, 14 ottobre 1993 – Orem, 10 settembre 2025) ha monopolizzato i social e, come era inevitabile che accadesse, dopo un po’ sono arrivati quelli che dicono “Pensiamo alle tasse, al carovita, alla guerra” e via discorrendo, convinti che quanto accaduto sia una bolla che tra qualche giorno sarà schiattata e nessuno ne parlerà più. Chi scrive una cosa del genere, stupisce per la sua superficialità. Occorre che tutti noi prendiamo consapevolezza che quello che è accaduto è molto più importante, nella sua pericolosità e gravità, di tutto il resto. Quanto accaduto a Kirk, è bene ripeterlo, è da considerare a tutti gli effetti l’Undici Settembre della libertà d’espressione e un punto di non ritorno. Perché?
Quando iniziai a scrivere, nel lontano 2003, era già nell’aria crisi che sarebbe poi esplosa nel 2008, come un temporale che senti arrivare ma che nessuno vuole vedere. Quando poi la tempesta scoppiò, la blogsfera si riempì di personaggi che costruirono la loro fortuna di divulgatori criticando il sistema dominante, spesso con la stessa foga con cui un predicatore arringa la folla. Ma la cosa che era già in incubazione – e che poi si sarebbe manifestata in tutta la sua brutalità – è che il sistema si sarebbe trasformato in una macchina tecnocratica e professorale, pronta a stilare una lista di opinioni “buone” da contrapporre a quelle “sbagliate”, una divisione che ancora oggi ci avvelena, dai telegiornali fino ai social. E non si tratta di preferenze da bar, tipo se sia meglio il prosciutto crudo o quello cotto, o se il caffè vada bevuto amaro o dolce: qui si gioca sulla carne viva degli interessi reali delle persone, del loro patrimonio valoriale, morale e materiale. E la sensazione, sempre più diffusa, è che certi interessi non siano considerati più meritevoli di tutela e che chi li difende sia automaticamente un nemico da abbattere.
Basta soffermarsi un attimo su questo punto per capire che ciò che è successo il 10 settembre non può essere archiviato come la solita storiella da rotocalco, tipo la coppia beccata a limonare al concerto dei Coldplay, o la diatriba da bar su Raoul Bova coglione o martire, o ancora l’ennesima, stucchevole rissa tra femministe e maschilisti. Qui si parla della libertà di espressione, cioè della possibilità di raccontare la nostra esperienza, di discutere il nostro quotidiano, di mettere in discussione ciò che ci circonda senza dover passare per un tribunale morale. Quando si arriva a stilare una lista, anche solo implicita, di idee “giuste” e idee “sbagliate”, e in nome di questa divisione si arriva a giustificare – o peggio, a eseguire – l’eliminazione fisica di chi difende certe posizioni, anche solo con le parole, nelle università, nelle piazze, nei luoghi dove dovrebbe regnare il confronto, allora la conseguenza è lampante: siamo già dentro un regime, e non serve nemmeno più il manganello per accorgersene. Quello che è successo a Kirk, e soprattutto il modo in cui una parte consistente dell’opinione pubblica ha reagito – tra indifferenza, sarcasmo e compiaciuta approvazione – ci sbatte in faccia una serie di verità che molti fingono di non vedere. Quali?
1) Siamo tutti diventati bersagli ambulanti. Che poi abbiano sparato a Kirk invece che al sottoscritto, è solo una questione di irrilevanza personale: la mia voce, in fondo, vale quanto il due di briscola quando si gioca a scopa con le carte truccate dal mazziere. Ma il meccanismo resta identico: se hai l’ardire di dire quello che pensi davvero, se osi mettere in discussione il sistema di potere che ci sta soffocando, se denunci la deriva culturale che ci sta trascinando verso il baratro, diventi automaticamente un nemico da eliminare. Non conta quanto sia flebile la tua voce, non conta quanto sia limitata la tua influenza: il solo fatto di esistere e parlare ti trasforma in un problema da risolvere.
2) Se mi sparano domani, questo avverrà col plauso compiaciuto degli intellettuali. Quelli che si riempiono la bocca di democrazia, pluralismo, diritti civili, saranno i primi a dire che me la sono cercata, che chi semina vento raccoglie tempesta, che la violenza genera violenza e procederanno, sistematicamente, allo sputtanamento della mia vita privata, senza che ovviamente io possa difendermi. Gli stessi che predicano tolleranza e inclusività saranno pronti a giustificare qualsiasi cosa accada a chi osa mettere in discussione le loro verità rivelate. E questo non è un caso, non è un incidente di percorso: è la logica conseguenza di anni di demonizzazione sistematica di chiunque non si allinei al pensiero dominante.
3) Più grave delle altre due, è stata ufficializzata una scissione netta tra il diritto positivo e quello dei pretoriani di un sistema di potere che si è costruito una sorta di diritto parallelo, non scritto, che da anni sabota il diritto ufficiale, quello per il quale alcuni opinion leader molto popolari in Rete, per le cose che fanno e che dicono – altro che le parole di Kirk – in un qualsiasi paese normale sarebbero in galera. In molti discorsi che ho letto da parte dei cosiddetti “progressisti” – che ogni anno che passa, mi sembrano sempre più “regressisti” sul piano mentale – un magistrato potrebbe riscontrare gli estremi per un’istigazione a delinquere.
Charlie Kirk.
Naturalmente, non sono così ingenuo da pensare che prima questa scissione non ci fosse, e del resto sono tanti anni che faccio bisboccia sul web per denunciarla. Ma quello che è successo a Kirk ha ufficializzato che esiste una giustizia per chi sta dalla parte giusta e un’altra per chi ha la sfortuna di trovarsi dall’altra parte della barricata.
Di conseguenza, quando hai sabotato il confronto democratico, quando hai reso impossibile il dibattito civile, quando ogni divergenza di opinione diventa una guerra di religione, allora i temi per cui rivendichi attenzione non possono più essere discussi con onestà. Perché le soluzioni che vorresti proporre per risolverli non sono gradite a quello stesso sistema che ha fatto fuori Kirk. È un meccanismo perfetto, una trappola a orologeria: prima si elimina la libertà di parola, poi si pretende di affrontare i problemi con le stesse ricette marce che li hanno generati. Chi minimizza ciò che è accaduto non capisce che stiamo assistendo all’agonia di ogni possibilità di confronto civile. Non capisce che, quando si arriva a sparare a chi dissente, tutti gli altri problemi diventano automaticamente secondari, perché senza libertà di parola non esiste nemmeno la possibilità di affrontarli. Chi dice “pensiamo alle cose serie” dimostra di non aver capito che questa è la cosa più seria di tutte, perché decide se potremo ancora occuparci di tutto il resto o se dovremo solo subire in silenzio. La stupidità di chi sottovaluta ciò che è successo sta nel non vedere che quello che è accaduto a Kirk è solo l’inizio, non la fine. È la prova che siamo entrati in una fase in cui la violenza è diventata l’unico strumento rimasto per zittire il dissenso. E quando il dibattito democratico viene sostituito dai proiettili, significa che abbiamo già perso tutto ciò che vale la pena difendere.
Quindi, che vi piaccia o no, sì, continuerò a parlare del caso Kirk. Lo farò finché mi andrà, finché avrò qualcosa da dire, finché mi pare e piace. Se avrò spunti di riflessione tali da riempire questa pagina fino a dicembre, continuerò a parlare di Kirk fino a dicembre, magari pure nel 2026 o nel 2027. Perché quello che è successo è più importante di tutto il resto, persino delle guerre. Su questa vicenda, l’Occidente si gioca tutto. Chi non è d’accordo, naturalmente può fare una sola cosa: smettere di leggermi.

Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.