Caporetto, 1917: il ruolo dell”intelligence’. Di Luigi Emilio Longo.

Obice 305 mm. italiano (Friuli 1917).

All’atto dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, il nostro Servizio Informazioni poteva considerarsi alla stregua di un neonato. È del 19 aprile di quello stesso anno, infatti, il documento riservatissimo n. 1245 con il quale il gen. Cadorna disponeva la costituzione presso la frontiera Nord-Est di 7 uffici distaccati di informazione, dislocati rispettivamente a Milano, Brescia, Verona, Belluno, Tolmezzo, Udine e Palmanova. Tre dovevano gravitare sul fronte giulio-carsico, tre sul fronte trentino ed uno su quello svizzero. Erano quelli che nel 1917 sarebbero divenuti gli Uffici I.T.O. (Informazioni Truppe Operanti).

In quello stesso anno l’Ufficio Operazioni e Situazioni di guerra del Comando Supremo cominciò ad essere preoccupato dell’atteggiamento tenuto dalla Germania, e chiese al Servizio Informazioni di sorvegliare tutti i movimenti di truppe tedesche nei pressi del nostro fronte; fino alla metà del mese di settembre, venne escluso qualsiasi schieramento di truppe germaniche contro di noi. Sul fronte interno, invece, si scoprirono cellule di propaganda sovversiva nell’Esercito, e la censura dovette adoperarsi per reprimere la sempre più insistente campagna pacifista all’interno del Paese ed intervenire sulla posta proveniente dall’estero (specialmente da parte dei nostri prigionieri) sapientemente manipolata, in certi passaggi, dal nemico.

Nel corso dell’estate, il Servizio Informazioni italiano entrò in crisi, e nell’autunno la situazione si aggravò ulteriormente. Probabilmente, si trattò di un calo di tensione per stanchezza di fronte alle sempre più pressanti esigenze, ma nell’analisi dei suoi sviluppi non sarebbero da escludersi interferenze di carattere politico. È quindi tuttora da chiarire quanta influenza abbia avuto la crisi del Servizio Informazioni sulla rotta di Caporetto.

Il 7 settembre 1917 il Capo del SI., brig. gen. Garruccio, che nel grado di colonnello era succeduto nel 1915 al pari grado Poggi, venne sostituito dal ten. col. Odoardo Marchetti. Il Garruccio aveva sempre avuto un occhio di riguardo per la politica interna, quando magari sarebbe stato più opportuno occuparsi più a fondo di quella estera. Egli sosteneva che il Comando Supremo, dovesse essere sempre al corrente di quanto si andava decidendo nei palazzi della politica, specialmente di quanto si andava tramando ai danni del Capo di Stato Maggiore. In base a tale logica, un rapporto opportunamente coltivato con il mondo della politica non avrebbe potuto che giovare alla strategia del Capo. Accadde però che subito dopo la sua sostituzione lo stesso Garruccio venne richiesto e messo a disposizione del Presidente del Consiglio per costituire un ufficio centrale politico-militare di informazioni al servizio del governo. Si trattava di una
decisione ambigua, perché un conto era alleggerire il lavoro del S.I. presso il C.S. togliendogli la parte politica ed un altro era costituire un nuovo organismo che sottraeva competenze militari al C.S. stesso.

Avvenne pertanto che il gen. Garruccio, ostacolato nei suoi disegni dagli organi politici e di pubblica sicurezza che egli si proponeva di sostituire con la propria struttura peraltro priva di mezzi e di direttive, prese ad appoggiarsi al suo vecchio ufficio, accettando ora l’ospitalità già offertagli ed in un primo tempo rifiutata e continuando così a servirsi dei mezzi che aveva a portata di mano. Ciò comportò, inevitabilmente, la modifica del suo piano orinario, fino a concepire gradualmente il disegno di staccare il S.I. dal C.S. togliendogli quasi tutto, e cioè le Sezioni “R” ed “M” ed i centri all’estero e riducendolo alla sola
Sezione “U” (Udine). Infatti, in base al nuovo ordinamento del S.I., entrato in vigore il 5 ottobre 1916 dietro iniziativa dello stesso Garruccio, era stato
istituito, accanto alla Direzione, un nuovo organismo specializzato in materie economiche e preposto anche a seguire la parte relativa al controspionaggio ed
alla polizia militare. Il settore delle informazioni militari era stato suddiviso in due branche, una delle quali doveva lavorare presso le truppe operanti (i già citati Uffici I.T.O.) occupando il posto degli Uffici I delle Armate, mentre l’altra doveva prendersi cura delle informazioni provenienti dalle retrovie e dall’estero. L’onere di questa seconda branca competeva al S.I. del C.S. Gli organismi di nuova istituzione (Sezioni ed Uffici Territoriali ) erano dislocati a Roma (Sezione R), a Milano (Sezione M) e ad Udine (Sezione U). Quest’ultima, diretta dal capo del S.I., era costituita su due sottosezioni distinte, segreteria e polizia militare e controspionaggio, e doveva occuparsi della tutela del segreto militare sulla dislocazione delle truppe dei servizi, dei materiali, del loro movimento ed impiego, della sicurezza dei mezzi, degli impianti e delle vie di comunicazione ed infine di tutte le pratiche relative ai prigionieri di guerra ed ai disertori (1).

In sostanza, la politica, e chi per essa lavorava, comprese l’importanza di prendere possesso di questo nuovo centro di potere. Le attenzioni e l’impegno dei dirigenti del Servizio Informazioni furono distratti su altro fronte, ed il risultato di tale comportamento lo si sarebbe visto a Caporetto. In merito agli eventi che avrebbero dato risonanza a questo piccolo centro sono stati versati fiumi di inchiostro. Dopo la rotta, i protagonisti diretti furono i primi a dare la versione dei fatti nel tentativo di controbattere le accuse e di allontanare il pericolo di venire ritenuti, sia pure in parte, responsabili di un dramma
nazionale. La Commissione d’Inchiesta non chiarì completamente le responsabilità e d’altro canto, nel clima politico in cui operò e con i condizionamenti ancora in atto, non ci si poteva aspettare di più.
Il 17 settembre il Centro Informativo di Berna comunicava movimenti di truppe germaniche verso l’Isonzo; era il segno inequivocabile che i tedeschi stavano trasferendo proprie forze verso Est, notizia confermata il 29 dello stesso mese dalla Sezione “M”, che informava come le frontiere austro-svizzera e svizzero-germanica fossero state chiuse, come fossero stati soppressi molti treni viaggiatori a beneficio dei trasporti militari tedeschi ed infine che truppe germaniche erano giunte dietro il fronte austriaco dell’Isonzo, presso il San Daniele. Ed il 6 ottobre, sempre da Bema, giungeva il seguente dispaccio: Da
nostri rimpatriati civili ed ex-prigionieri si ha conferma di trasporti di truppe austriache e germaniche verso il medio ed alto Isonzo; conferma della
prossima offensiva che, secondo alcuni, sarebbe portata nel settore di Tolmino; precisazione di 200 treni di truppe germaniche pronte a sbarrarci la via nel caso di una nostra avanzata vittoriosa verso Lubiana; il passaggio per quella stazione, dal 19 al
23 settembre, di circa 100 treni con soldati germanici; è stata fatta la cifra di 75.000 uomini. Un ufficiale ex-prigioniero riferisce di aver veduto personalmente autocarri con truppe germaniche avviati alla nostra fronte (2).

Fino al 23 ottobre, tutte le informazioni concordavano su una prossima grande offensiva austro-germanica, ed in alcune di esse si indicava persino il settore nel quale si sarebbe incuneato il nemico. Ma di ciò non si poteva avere certezza assoluta in quanto altre informazioni davano come ancora probabile un attacco dal Trentino, ovvero indicavano a rischio altri tratti del fronte. Al riguardo, il gen. Max Ronge, che fu capo dell’Evidenz Bureau, il servizio segreto austro-ungarico, durante l’arco di tutta la guerra, affermò nelle sue memorie che “quanto più gli italiani si accanivano sull’Isonzo, tanto più fatale sarebbe stato per essi attacco delle nostre forze nel Tirolo. Per deviare dunque la condotta del nemico facemmo lavorare un gran numero di stazioni dal limite estremo della Carinzia fino al centro di essa con una chiave trovata dal cap. Figl. I dispacci dovevano essere assolutamente decifrati dagli italiani,  ma dovevano non far pensare ad una “trappola”. Anche il contenuto dei messaggi doveva essere attendibile e far credere al nemico che si raccogliessero grandi forze in quella zona (3).

(1) La Sezione “R” interveniva nella censura postale telegrafica e telefonica, nel rilascio e visto dei passaporti, nella vigilanza alle frontiere, nella raccolta e
controllo di notizie economiche, nei servizi di polizia militare e di su tutto il territorio nazionale. La Sezione “M” provvedeva allo spoglio della stampa estera, alle relazioni con tutti i centri di raccolta delle notizie dall’estero, ai rapporti con i Servizi alleati, alla cooperazione con le altre sezioni per la propaganda dissimulata.

(2) Marchetti O., Il Servizio Informazioni dell’Esercito nella Grande Guerra, Roma, Tipografia Regionale, 1937, pag. 23.

(3) Ronge M. Spionaggio, ed. Tirrenia, Milano, 1933, pag. 223.

Occorre qui ricordare come il ricorso ai cifrari per la trasmissione delle informazioni e degli ordini di operazione fu una prassi costante per tutta la durata della guerra. Al pari delle intercettazioni, i cifrari si rivelarono un mezzo determinante per l’attività intelligence e, a seconda delle circostanze, vennero sopravvalutati o sviliti. Durante la ritirata seguita alla rotta di Caporetto, il rilevamento delle nostre stazioni radiotelegrafiche servì allo Stato Maggiore austriaco per identificare la nostra linea di ripiegamento, e da documenti catturati dopo l’armistizio risultò come il nemico avesse trovato la chiave di quasi tutti i nostri cifrari, compresi quelli più complicati.

Le informazioni comunque non mancarono al C.S., anche se l’Ufficio Situazioni e Operazioni di Guerra – retto dal col. Calcagno, che aveva sempre avuto un rapporto problematico cori il Servizio Informazioni – rimase inesplicabilmente scettico in merito all’entità ed allo sforzo che il nemico si accingeva a compiere, continuando ad emettere bollettini giornalieri sconcertanti per le conclusioni contraddittorie che venivano formulate.
Fino al 18 settembre, Cadorna era decisamente orientato per un’offensiva strategica, e solo dopo optò invece per uno schieramento difensivo, avvertendo di ciò i comandi della 2a e 3a Armata poiché il continuo accrescersi delle forze avversarie sulla fronte giulia faceva ritenere probabile che il nemico si proponesse di sferrare lì un serio attacco. Il 21 ottobre si presentarono alle nostre linee di Gabrije due ufficiali disertori di nazionalità rumena, portando notizie precise circa l’offensiva nemica e fornendo l’ordine di operazione delle truppe che dovevano attaccare la sommità del monte Mrzli. Secondo le informazioni fornite dai due, l’attacco comprendeva l’intero fronte del IV e XXVII C.A., e ad esso avrebbero concorso 9 divisioni tedesche.

Ed effettivamente l’offensiva austro-tedesca, denominata Waffentreue (Fedeltà di armi) ebbe inizio il 24 ottobre in corrispondenza di Tolmino e
di Plezzo, nel settore di pertinenza dei CC.AA. IV e XXVII, rispettivamente alle dipendenze dei generali Cavaciocchi e Badoglio. La punta avanzata della
XIV Armata nemica, al comando del gen. Von Below, la sera dello stesso giorno pervenne a Caporetto, mentre il resto della G.U. occupò tutti i capisaldi
difensivi italiani. Tre giorni dopo, il 27, cadeva Cividale, con il che la pianura friulana si apriva all’esercito nemico.
Le notizie via via più particolareggiate fornite da prigionieri e disertori permisero quindi di poter prevedere l’offensiva nemica; fu però soltanto con l’approssimarsi dell’ultima decade di ottobre che essa apparve più sicura, anche per quanto riguardava le direzioni dell’attacco. Mancarono però, anche negli ultimi giorni, quegli indizi caratteristici dell’imminenza di essa, quali ad esempio, grossi concentramenti di artiglierie; vero è che furono individuati nuovi tiri con carattere di inquadramento, ma non in misura tale da destare preoccupazione, anche perché mancava il carattere abituale di preparazione del fuoco di demolizione delle nostre difese.
Ad ogni modo, il grosso dei rinforzi al IV C., venne inviato solo a partire dal 21, e questo ritardo fece sì che l’ala destra del nostro schieramento si trovasse il giorno dell’attacco in stato di inferiorità in confronto all’entità dello sforzo nemico. Mentre la grande preparazione dell’avversario era datata 18 settembre,
la nostra su grande scala – almeno per quanto riguardava il IV CA, il più minacciato – era iniziata il 21 ottobre.

Le rivelazioni dei due disertori rumeni avevano convinto molti increduli, ma non tutti. È peraltro necessario un chiarimento circa le affermazioni di incredulità, perché alcune di esse erano dirette ad inferiori allo scopo di ostentare la massima sicurezza ed infondere in loro fiducia. Pareva a molti impossibile che il nemico, da poco decisamente battuto potesse muovere all’attacco non disponendo di una decisa superiorità di mezzi. Si trattava certamente di un giudizio superficiale e sommario, che denotava la mancata conoscenza dei nostri punti deboli. Creduli ed increduli tuttavia avevano dato disposizioni d’urgenza atte a parare la minaccia.

L’attività dell’artiglieria nemica durante la notte del 22 e del 23 era stata normale, ma nel corso della mattinata di quest’ultimo giorno era andata aumentando, con tiri aventi caratteri di inquadramento specie nei punti vitali delle nostre seconde linee; inoltre, movimenti di autocarri e di truppe, blandamente disturbati dalla nostra artiglieria, erano stati notati nella conca di Plezzo.
Significativo, ai fini del disorientamento presente nei comandi italiani quanto avvenne nel settore del Mrzli occupato dalla Brigata Caltanisselta, al cui comando, il giorno 22 ottobre, pervenne un ordine contenente due disposizioni intimamente connesse, delle quali una era quella di tenere la truppa non distesa ma riunita, come volevano le esigenze del combattimento, e l’altra – non detta però esplicitamente – che contemplava il ripiegamento dalla
prima linea e stabiliva che le truppe non dovessero essere inchiodate alle trincee ma che, finito il loro compito di copertura, fossero destinate a ripiegare. Non si specificava, pero, chi avrebbe potuto impartire l’ordine.
Questo avrebbe richiesto, in complesso, che fosse cambiata tutta la dislocazione nelle trincee avanzate, passando dalla rada catena di vedette di nuclei di plotone a sensibili intervalli; per questo, sarebbe stato necessario cambiare anche le idee fondamentali, ben delle trincee, né risulta se sia stato diramato dal comando di brigata ai due reggimenti dipendenti radicate nei reparti secondo le quali tutte le trincee venivano sorvegliate ed ogni passo indietro vietato. Sta di fatto che l’ordine non ebbe attuazione, per quanto si riferiva all’occupazione; ad ogni modo, mancava comunque il tempo di cambiar le disposizioni delle truppe e, quel che più conta, le idee fondamentali per la difesa, quando si tenga presente che l’ordine dovette arrivare al comando di brigata il 23, giornata
nella quale altri numerosi ordini pervenivano dalle autorità superiori mentre il cambio delle truppe nelle trincee, il completamento dei lavori di difesa e
l’organizzazione delle nuove posizioni assorbivano l’attività dei comandanti. Nulla ne sapevano i comandanti di battaglione delle linee avanzate, i quali
rimasero su di esse anche quando il fronte era stato rotto ed il nemico, penetrato nei nostri avamposti, procedeva spedito verso le nostre trincee.

Gli effetti della sconfitta italiana a Caporetto furono notevoli, anche se non avrebbero superato quanto già avvenuto altre e non poche volte nel corso della guerra europea, e furono dovuti a circostanze speciali, morali e materiali intimamente collegate fra loro, che fecero precipitare la situazione. Il nostro fronte
presentava, come direzione pericolosa, l’attacco dal Tirolo, mediante il quale la massa principale dell’Esercito italiano avrebbe potuto andare incontro
all’annientamento od alla dissoluzione nel grande corridoio veneto. Nessuno dei fronti di guerra nei quali si trovava impegnato l’esercito austro-ungarico e
quello tedesco offriva simili favorevoli condizioni per un grosso successo strategico. I motivi della rinuncia furono rappresentati dall’insufficienza delle forze e dalla stagione troppo inoltrata per un attacco da quella provenienza, per cui si preferì attaccare l’ala destra “manifestamente debole” dell’Isonzo per poi infliggere alla 3a Armata italiana una sconfitta decisiva prima che potesse riparare dietro il Tagliamento. Inoltre, il fronte del Tirolo era interamente montano, e l’avanzata nella direzione di uno dei grandi sbocchi (Brescia, Verona, Bassano) sarebbe stata molto più complessa e non avrebbe aperto nessun varco ampio e facile come quello del Friuli, una volta raggiunta la “porta” di Cividale.
Per il Comando Supremo tedesco, “l’aggiramento ad ogni costo” era divenuto un dogma, non tenendo conto però che l’aggiramento, ed ancor più l’accerchiamento, sono manovre molto redditizie ma da applicarsi soltanto quando siano applicabili. Condizione essenziale per l’accerchiamento era la sorpresa, e sulla fronte giulia questa riuscì, nonostante che il 21 ottobre noi avessimo avuto informazioni sul nemico quali non si potevano desiderare di migliori; ma il 21, a tre giorni di distanza dall’attacco nemico, non eravamo più in tempo per prepararci a fronteggiarlo adeguatamente.

In conclusione, l’intelligence aveva svolto bene il proprio ruolo, tanto dall’una quanto dall’altra delle parti contrapposte. Da parte austro-tedesca, l’attività informativa aveva consentito di raccogliere esaurienti informazioni circa la disposizione dei nostri centri difensivi, ed in particolare sul punti vulnerabili di essi: trovati e provocata la falla, il nemico vi si era precipitato ed il successo così ottenuto parve a noi dovuto alla superiorità delle sue forze, mentre in realtà altro non era che l’abile e previsto sfruttamento della nostra manifesta debolezza locale. Anche da parte italiana, come si e visto, l’acquisizione di notizie copiose, ed in complesso esatte e tempestive, non era mancata. Caporetto passò alla storia come una tremenda fatalità. La classe politica si guardò bene dall’assumersi anche lontanamente la responsabilità della disfatta. Cadorna, all’atto della sua nomina a Capo di Stato Maggiore del Regio Esercito avvenuta il 27 luglio 1914, aveva posto delle precise condizioni per raggiungere l’unicità del comando; nella sua mentalità autoritaria, c’era poco spazio per il potere politico. Ad ogni modo, tra il supremo organo militare e quello politico, ad onta dell’atteggiamento sempre piuttosto negativo da parte di Cadorna nei confronti del secondo, si mantenne per circa due anni una relativa consonanza di intenti. Le divergenze sorsero nell’estate del 1916, allorché ebbe vita un governo di concentrazione nazionale presieduto da Paolo Boselli del quale fecero parte ministri con tendenze politiche di sinistra e nel quale a ministro dell’Interno fu designato Vittorio Emanuele Orlando, subito molto critico nei confronti di Cadorna. Questi giunse al punto di impedire le visite al fronte del Primo Ministro e dei parlamentari, e la sua leadership, già minata dal vento di fronda che circolava negli alti comandi dell’Esercito nei confronti del suo
Capo a causa dei “siluramenti” e delle rimozioni dagli incarichi (ben 1500, nei 29 mesi di comando cadorniano), venne ulteriormente minata. Né vanno
sottovalutati i frequenti rapporti del gen. Capello, massone, con i parlamentari socialisti. La tensione fra il Presidente del Consiglio ed il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito divenne pertanto insanabile, e ciò in un momento assai critico per la nazione. Cadorna fu privato dell’apporto di un efficiente Servizio Informazioni, attraverso la vicenda del gen. Garruccio già ricordata all’inizio di questa esposizione, e la classe politica, facendo opera di destabilizzazione negli Alti Comandi, non fece che indebolire l’azione del Comando Supremo.

Più che di un eccezionale piano strategico nemico, è verosimile ritenere quindi che Caporetto costituisca il prodotto anche di una tale condotta, un “vizio” che sembrerebbe connaturato all’ambiente politico nostrano.

 

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