Controstoria. Fernando Cortés: l’amico degli indios. Di Michele Tosca.

Cortés incontra l'imperatore del Messico.
Fernando Cortés.

E’ nel 1521, che Fernando Cortés (Hernán Cortés Monroy Pizarro Altamirano), cede alla Corona di Spagna i territori conquistati nel sud dell’America, a cui viene messo il nome di Nuova Spagna. Cortés è stato descritto, dalla storiografia cor­rente, come un avventuriero rapa­ce e spietato, un mercenario avido di ricchez­ze, accompagnato da una masnada di predoni e da preti fana­tici che consideravano gli indios esseri non umani. La realtà storica è ben diversa: Cortés non era un uomo di armi, ma un uomo di cultura[1], ed il successo della sua impresa è del tutto incredibile, se si considera che contro lui e i suoi uomini vi erano milioni di abitanti dell’impero azteco. La sua impresa fu resa possibile da una serie di circostanze favorevoli e dal rispetto portato dagli spagnoli alle popolazioni indigene, esattamente il contrario di ciò che va oggi di moda spiegare e cioè la leggenda nera della distruzione delle culture indiane e dei «roghi spagnoli»[2]. Nulla di tutto ciò è vero ed, inoltre, l’evangelizzazione dell’America Spagnola non è stata un’impresa nazionale interessata della monarchia iberica. Lo dimostra anche il fatto che molti dei suoi protagonisti, anche se risposero all’appello della Spagna, non erano spagnoli. Nel primo drappello degli evangelizzatori dell’America, inviato nel 1495 da Isabella la Cattolica, vi sono due francescani fiamminghi: fra Jean de la Deule e fra Jean Cousin. Una delle primissime evangelizzazioni sulla terraferma americana (1515) fu quella condotta in Venezuela dai francescani piccardi di Rémy de Faulx. Quattro dei più importanti evangelizzatori del Messico, come vedremo, sono francescani fra Pietro di Gand, fiammingo; fra Arnaud de Bazas, fra Jean Foucher e fra Mathurin Cordier, francesi. Nel secolo successivo, l’apostolo della California, del Sonora e dell’ Arizona, sarà il gesuita italiano, tirolese della Val di Non, Eusebio Chino, più noto fuori d’Italia come Kino ed i suoi successori saranno dei gesuiti svizzeri e tedeschi.

 Lasciamo pertanto i pregiudizi ed esaminiamo i fatti. Cortés partì da Cuba, con meno di cinquecento uomini, non per fare el conquistador, ma perché perseguito come “ ribelle” dal governatore di Cuba, Diego Velàzquez de Cuéllar, che, a causa di dissapori, ne aveva firmato la destituzione dall’incarico di suo segretario, ordinandone l’arresto. Cortés, allora, decide di partire, con i suoi uomini, verso il centro America, ed appena sbarcato a Vera Cruz ordina di incagliare e sabotare le navi: in questo modo intende assicurarsi che i soldati lo seguano senza ripensamenti. Dopo poco, attraversando il paese immenso e affascinante a cui era approdato, si ritrova al suo fianco un esercito di circa 3000 indios, in quanto egli non sottometteva affatto gli indigeni, ma stringeva alleanze con i popoli e le tribù dominate dagli Aztechi[3], che avevano visto in Cortes un liberatore poiché gli Aztechi erano dei tiranni: razziavano continuamente le popolazioni sottomesse per procurarsi vittime da sacrificare agli dei e li affliggevano con pesanti tributi.  Cortes era per loro l’occasione per ribellarsi.[4] Dopo aver assediato per settantacinque giorni la capitale, Tenochtitlan, con i suoi trecentomila abitanti, gli spagnoli ed i loro alleati sconfiggono l’esercito azteco e prendono il controllo della città. Montezuma II, l’imperatore azteco,[5] accetta di far cessare i sacrifici umani e persino di farsi battezzare, mentre agli alleati indigeni Cortés, riconoscente, concede ampi poteri e privilegi. Se questi fatti dimostrano che  non tutti gli indios erano creature innocenti (altro mito da sfatare), per desiderio di verità storica bisogna far notare che anche certe asprezze degli spagnoli vanno inquadrate nel contesto storico di allora. Un viaggiatore inglese, una fonte sicuramente non interessata, il mercante Henry Hawks, scrive nel 1572 che “Montezuma, l’ultimo grande imperatore azteco era assetato d’oro, da cui i suoi «tesori» , e si rifiutava di esentare dal tributo anche i più poveri dei suoi sudditi, obbligandoli per punizione a indossare una spoglia di piume riempita di pulci. E Hawks nota che, in generale che «Gli Indiani sono dei gran ladri e rubano tutto ciò che possono, e se cadete nelle loro mani vi denudano completamente».[6] Se infatti pensiamo ai continui sacrifici umani, dei quali ricerche attendibili attestano come cifra plausibile circa 20.000 vittime all’anno,[7] è veramente difficile credere ai miti della “civiltà” Azteca  e del “buon selvaggio”. In tali “civiltà” vi era un  potere  molto oppressivo, non solo politicamente e religiosamente, ma anche socialmente[8]. Gli Aztechi avevano una nobiltà assai privilegiata, una classe di schiavi e una monarchia avida, dedita in continuazione alla guerra di conquista. A ciò si aggiungeva, la tirannica oppressione religiosa, con la pratica dei sacrifici umani. Non per nulla i popoli assoggettati dagli Aztechi, che fornivano il “materiale umano” di tali sacrifici, furono  ben contenti dell’arrivo degli Spagnoli , e si unirono a loro per liberarsi da un giogo così disumano, contribuendo in modo non secondario alla vittoria di Cortes,[9]il quale d’altronde si comportò nei loro confronti come un compatriota. Quando morirà, in Spagna a 63 anni, dopo aver lasciato in eredità le sue proprietà anche ai figli naturali meticci, vorrà essere sepolto a Tezcuco, attuale Città di Messico[10], dove riposa tuttora nella chiesa Jesús Nazareno e Inmaculada Concepción.

Se nel 1521 la capitale azteca viene conquistata definitivamente, è solo nel 1535, con la nomina del primo viceré spagnolo, Antonio de Mendoza,  che la colonia della Nuova Spagna (fondata nel 1520) diviene Vicereame della Nuova Spagna che, più tardi, allargando i suoi confini,  giungerà a comprendere gli attuali territori del Texas, del New Mexico e della California. Dopo la sconfitta azteca  le operazioni belliche  vedono i soldati europei, sostenuti dalle popolazioni indigene loro alleate, in parti­colare i Tlaxcalani, occupare la parte cen­trale dell’impero, da dove progressivamen­te partono spedizioni alla conquista dei vasti territori limitrofi e sarà proprio questa guerra in comune, condivisa, che affratella due etnie e rende possibile, nei territori cattolici, la nascita di un nuovo popolo il cui sangue è misto di indio e spagnolo, cosa inammissibile per il razzismo protestante che avrebbe dominato nell’America del nord . E’ vero che una parte dell’autorità civile spagnola,violando la legge reale,tenterà, ed in parte riuscirà, nel tenere gli indigeni in una situazione d’inferiorità  favorendo i grandi proprietari (encomenderos), ed arrivando ad uccidere i messi del re che cercavano di farla rispettare. In ogni caso, la condizione degli indigeni nei territori dominati dagli spagnoli sarà molto diversa da quella dei vicini territori portoghesi, dove la schiavitù rimase pienamente in vigore per moltissimi anni.. Saranno proprio i missionari ad im­pedire che gli indios vengano segregati e ridotti in schiavitù: con  il battesimo a conferendo loro la stessa dignità degli spagnoli , rendendoli “fratelli di tutti i cristiani”. Sarà lo stesso Cortès che, nel 1524, volle fondare in Messico, a loro maggior tutela,  la prima Giunta (di diciannove religiosi, cinque preti secolari e sei laici), con la responsabilità di Alto Consiglio della Conquista. Gli indios vedranno nei missionari una Chiesa che valorizza le loro energie per il bene comune, e quest’opera  riuscirà anche a fondere due popo­li, in parte già avversari, tanto radicalmente diver­si tra loro, ed il Messico conoscerà così una nuova civiltà, fatta di indios, di bianchi, e – in gran parte – di meticci: infatti all’azione evangelizzatrice era del tutto ignoto un aspetto, che troveremo invece tra i conquistadores ( quelli si!)  protestanti nel nord dell’America , scaturito dalle menti degli illuministi: il Razzismo. [11]  Se infatti ’Illuminismo è storicamente il momento di rinascita dell’ateismo filosofico[12], il Razzismo, contrariamente alla falsa storia sinora divulgata, ne è sicuramente il figlio .[13] Basti l’esempio di Voltaire (1694-1778), il famoso “apostolo della tolleranza” che ritiene l’idea cattolica, secondo cui gli uomini sono tutti “fratelli” essendo creature di un unico Padre, una sciocchezza assolutamente antiscientifica. Alla spiegazione biblica dell’unica origine dell’uomo, che esclude di per sè qualsiasi visione razzista, il nostro Voltaire sostituisce l’idea secondo cui i diversi gruppi umani discendono da numerosi e diversi antenati: «Checchè ne dica un uomo vestito di un lungo e nero abito talare [il prete N.d.A.], i bianchi con la barba, i negri dai capelli crespi, gli asiatici dal codino, e gli uomini senza barba non discendono dallo stesso uomo»[14]. Pertanto, l’uomo della Dea Ragione e padre della Rivoluzione Francese, continua situando i neri nel gradino più basso della scala, definendoli animali, in quanto nati da matrimoni tra donne nere e le scimmie[15], e considerando i bianchi «superiori a questi negri, come i negri alle scimmie, e le scimmie alle ostriche»[16]. In relazione a queste idee pertanto finisce poi per elaborare giustificazioni “naturali” allo schiavismo e al colonialismo, giustificazioni che saranno alla base dell’imperialismo statunitense , sia nei confronti dei pellerossa che degli indios del sud America, che dell’importazione e del mercato degli schiavi dall’Africa .[17]

Altri famosi illuministi atei, come Diderot e D’Alambert (per i quali l’uomo era figlio del caso, «nel numero dei possibili»), scrissero nell’Encyclopédie del 1772, compendio dei valori illuministici, che «all’animale più evoluto, la scimmia, viene unito il tipo d’uomo ritenuto inferiore, il negro: per il pallido europeo, infatti, questi trascina un’esistenza semiferina, alinea dal pensiero razionale e dalla civile convivenza». I neri vengono poi dipinti come viziosi e «per lo più inclini al libertinaggio, alla vendetta, al furto, alla menzogna”.[18]

Non intendiamo certo negare che la colonizzazione scrisse anche pagine di tragica violenza, ma è corretto ed opportuno puntualizzare alcuni aspetti volutamente ignorati dai creatori del mito del “ buon selvaggio” e del “rapace conquistadores”. In primo luogo, per quanti errori possano imputarsi agli spagnoli, il loro sistema di colonizzazione, come abbiamo visto, messo a confronto con quello delle altre grandi nazioni che si af­facciarono sul Nuovo Mondo, diede senza dubbio risultati migliori non solo sul piano dello sviluppo economico, ma, cosa più importante , sul piano del rispetto delle culture locali e dei diritti dei nativi. Il problema che si presentò sin da principio agli europei era la sorte da riservare gli indigeni: dovevano essere respin­ti nell’interno e separati in riserve, si dove­vano assimilare, anche forzatamente, o si doveva tentare di integrarli, nel rispetto delle loro tradizioni ? I colonizzatori protestanti, giunti nelle Americhe dopo gli spagnoli, scelsero il primo di que­sti due sistemi, e gli indigeni della parte set­tentrionale del continente conobbero così le stragi, la schiavitù, la deportazione nelle riserve, il geno­cidio. La storia dei Pellerossa ne è la testimonianza . All’inizio del XVII secolo i nativi che abitavano gli attuali Stati Uniti erano circa 12 milioni, nel 1890, l’anno che stabilisce la fine delle “guerre indiane”, la popolazione nativa arriva a malapena alle 300.000 unità. Se ciò non avvenne anche nel nei popoli del centro e del sud America  è merito dei missionari cattolici, in gran parte gesuiti, domenicani e francescani, che con la loro azio­ne di carità e di giustizia cercarono una integrazione degli indios, nel rispetto dei costumi e tradizioni, opponendosi non poche volte ai governatori  spagnoli ed alle stesse gerarchie ecclesiastiche[19]. E se ne combatterono alcuni aspetti, come i sacrifici umani, fu proprio per rispetto di quella dignità umana che predicavano come diritto di tutti gli indios. E se un altro esempio servisse basti pensare al non secondario problema della schiavitù, combattuta dai cattolici nel sud America e non solo ammessa ma usata a piene mani dai protestanti del nord America.

«I nostri re ci hanno mandato non per soggiogarvi, ma per insegnarvi la vera religione» disse Cristoforo Colombo agli indigeni de La Española (Haiti), mentre piantava la croce al suolo, prendendo possesso dell’isola in nome dei Re di Spagna. Ed i Re di Spagna s’interessarono personalmente dell’amministrazione ed evangelizzazione dei territori, prendendo sul serio gli impegni imposti dal patronato. Dal 1535 al 1592, saranno inviati nelle colonie 2.682 religiosi e 376 preti diocesani, ed in un secolo saranno create 34 diocesi in America Latina. Ma la difesa dei diritti degli indigeni non sarà così semplice, i missionari dovranno scontrarsi spesso con i alcuni compatrioti, soldati, mercanti, avventurieri d’ogni risma, che della religione hanno un concetto distorto, da non saper più distinguere tra fede e cupidigia, tra devozione e istinto. Per il fatto d’essere cristiani, molti di loro si sentono autorizzati a sottomettere chiunque non lo sia e con qualsiasi mezzo. Se ciò non avviene è per il comportamento dei religiosi che, come visto, usano i sacramenti , il battesimo in particolare , anche come difesa degli indigeni. Con il battesimo li fanno entrare nella Chiesa cattolica, conferendo loro la dignità di figli di Dio e fratelli per tutti i cristiani.

Molti sono gli episodi che mostrano, da parte dei religiosi, la difesa degli indios. E’ emblematica la vicenda del frate domenicano Antonio de Montesinos (1475-1540),che è assieme a frate Pedro de Còrdoba (1482-1521) sarà uno dei primi religiosi ad arrivare nel Nuovo Mondo, nel 1510,  approdando sull’isola di Hispaniola. Ben presto si rende conto che le direttive della Corona non sono rispettate e vista la condizione degli indios decide di denunciare immediatamente e pubblicamente tutte le forme di oppressione dei popoli indigeni delle Americhe. Famosi i suoi sermoni del 21 e 28 dicembre 1511: «Allo scopo di farvi conoscere i vostri peccati contro gli Indiani sono venuto su questo pulpito, io che sono la voce di Cristo che grida nel deserto di quest’isola e perciò dovete ascoltarla. Questa voce dice che voi siete in peccato mortale, che voi vivete e morite nel peccato mortale, a causa della crudeltà e della tirannia che voi usate nel trattare con queste genti innocenti. Ditemi, per quale diritto o giustizia tenete questi Indiani in tale crudeltà e orribile schiavitù? Sulla base di quale autorità avete dichiarato una guerra detestabile a questa gente, che viveva tranquillamente e pacificamente nella propria terra? Quanta conoscenza avete voi conquistatori sulla dottrina e sul Dio creatore? Sul battesimo, sul partecipare alla messa e santificare le feste e la domenica? Non sono uomini questi? Non hanno anime razionali? Non siete tenuti ad amarli come amate voi stessi? ”State certi che in questo stato non potete salvare nessuno e nemmeno mantenere la fede in Gesù Cristo». [20]Le forti accuse, ed il giusto rimprovero verso un comportamento anti-cristiano e la rivendicazione della responsabilità cristiana causano un forte disagio nei coloni e nei funzionari, tra essi vi è il governatore Diego Colombo, figlio primogenito di Cristoforo Colombo e Filipa Moniz. Ma passato il primo momento di sconcerto, sono in molti a reagire contro i monaci, impedendo le loro prediche e chiedendo di ritrattare pubblicamente le dichiarazioni. Accade anche, però, che uno dei più importanti amministratori presenti, Bartolomé de La Casas, viene così profondamente colpito da questi sermoni che si decide ad una vera conversione e diverrà il primo vescovo del Nuovo Mondo[21].

 Il re Ferdinando II d’Aragona a cui erano stati riferiti i fatti in maniera faziosa, si lamenta duramente con l’Ordine dei Domenicani (Ordine dei Predicatori) in Spagna e chiede sanzioni per i religiosi sull’isola, minacciando perfino di espellerli. Nel frattempo ai frati vengono negati i mezzi di sussistenza, ma nonostante le intimidazioni i Domenicani non si fermarono, sostenendo che la loro dottrina è il risultato dello studio della verità e della lettura del Vangelo. Il Re arriva a decretare che nessun religioso avrebbe più messo piede nelle terre spagnole del Nuovo Mondo. Ma Montesinos , convinto della buona fede del Re, decide, allora, di tornare in Spagna col proposito di informare le autorità  sulla vera situazione dei popoli indigeni e sui motivi che lo hanno spinto a predicare così duramente. Re Ferdinando, dopo averlo ascoltato, ordina al suo Consiglio di riesaminare approfonditamente le questione e convoca anche una commissione di teologi e giuristi (il “Consiglio di Burgos”). I frutti di questo studio diverranno norme con la promulgazione delle Leggi di Burgos (1512), primo codice di ordinanze per la protezione delle popolazioni indigene, nel quale si prevede anche che il Re di Spagna ha titoli di padronanza del Nuovo Mondo, ma senza il diritto di sfruttare gli indigeni, il quale sono dichiarati uomini liberi con il diritto di possedere proprietà. Le Leggi di Burgos limitarono inoltre le richieste lavorative che i coloni spagnoli potevano avanzare, stabilirono che le donne in gravidanza fossero esentate dal lavoro, fu proibita ogni tipo di punizione, aumentate le condizioni igieniche ecc. Si ordinò anche l’obbligo di catechizzare gli indios, in quanto la necessità della loro conversione  in molti casi era necessaria sopratutto a causa dei cruenti riti sacrificali che gli indigeni praticavano continuamente a causa della loro religione , con tanto di cannibalismo e incisione delle vertebre dei bambini. [22]

Il Messico spagnolo.

Le ‘encomiendas’  

All’inizio della colonizzazione, nel 1510, con l’intento di reperire manodopera per la coltivazione delle terre occupate e il lavoro nelle miniere, la Corona propose l’istituzione di un sistema già collaudato in patria: l’encomienda [23]. Le encomiendas indiane erano però signorie limitate che non godevano di due degli attributi fondamentali delle signorie vere: la perpetuità e la giurisdizione[24]. Vedasi  ad esempio ciò che viene scritto nelle Nuove Leggi del 1542  “Ordiniamo che nessun titolare di encomienda possa esigere “servizi” dagli Indiani» .[25] La servitù – ed ancor meno la schiavitù – non era dunque, come si legge nelle recenti storie della Chiesa, «organizzata tramite il sistema dell’ encomienda», che era, al contrario, un sistema legale di protezione degli indigeni e di evangelizzazione, oltre che un beneficio laico accordato ai governanti spagnoli. Protezione ed evangelizzazione alle quali il titolare dell’ encomienda si impegnava nei confronti della Corona di Spagna che gli concedeva il titolo, in modo personale e sempre revocabile[26]. La prestazione che il titolare del privilegio riceveva dagli Indios – e che sostituiva per loro il tributo preispanico – se da un lato costituiva per lui la ricompensa dei suoi meriti , dall’ altro aveva questi oneri come contropartita.

Fin dalle prime concessioni di encomiendas in Messico da parte di Cortés, la concessione era formalmente fatta nei confronti del titolare, «a condizione che abbiate a istruire gli Indiani nelle cose della nostra santa fede cattolica, ponendo in ciò tutta la vigilanza e la sollecitudine possibili e necessarie» (Archivo de Indias, P.R. 112-21).

Il messicano Silvio Zavala, esperto universalmente riconosciuto dell’ encomienda, ha scritto  a proposito dei giudizi diffusi  sinora da storiografi interessati : «In queste opere l’encomienda è studiata come una parte della storia delle haciendas messicane, che sono grandi proprietà non della Conquista, ma del Messico moderno. Ne risulta la credenza, diffusa fra i sociologi, i giuristi, gli indigenisti e gli studiosi, che le encomiendas della Conquista furono di natura territoriale, che costituirono una espropriazione degli indigeni e prepararono la concentrazione delle terre del XIX secolo. Credo che convenga adottare un atteggiamento di riserva nei confronti di questa tesi, poiché i caratteri giuridici dell’ encomienda indiana, e gli insegnamenti che risultano dai documenti che trattano delle terre comprese nei villaggi delle encomiendas, giustificano altre conclusioni» [27] Lo stesso Ferdinando Cortés, benché signore del marchesato del Valle d’ Oaxaca, titolo più assoluto che non quello di titolare di encomienda, scriveva nel suo testamento del 1547 che le terre degli Indiani non gli appartenevano, e stabiliva pertanto la restituzione a questi ultimi, con i danni e gli interessi, insieme alle terre del villaggio di Coyoacan di cui aveva fatto dono ad un ospedale.

Un altro celebre governatore (e conquistadore), il memorialista Bernal Diaz del Castillo, verrà incaricato nel 1579, proprio dagli Indios della sua encomienda, di difenderli in giudizio contro una concessione delle loro terre fatta abusivamente a beneficio di un proprietario spagnolo. Il tribunale darà ragione agli Indios ed al loro difensore: la concessione di terre verrà annullata. Ad ulteriore dimostrazione delle motivazioni della Conquista , che non erano quelle di depredare i nativi, vi è il fatto che la giustizia spagnola difendeva i diritti degli indios, contro le prepotenze e che  lo stesso Cortés  difese in giudizio la domanda degli Indios del suo marchesato per recuperare la terre sulle quali uno spagnolo aveva insediato un mulino da zucchero. Alla fine, nel 1539, un arbitrato decise che il mulino da zucchero sarebbe stato sfruttato in società dallo Spagnolo e da Cortés. Come contropartita della quota di un settimo che era riconosciuto a Cortés in questa società, quest’ultimo indennizzò gli Indios per l’ammontare corrispondente alle terre che erano state loro tolte.

Un’altra volta lo stesso Cortés, citato in giudizio da altri Indios, a causa di alcune terre nelle quali egli aveva fatto piantare la canna da zucchero, il mais, ecc., riconobbe il loro diritto di proprietà su quelle terre, e, pagò agli Indios, lui signore marchese del territorio, l’affitto corrispondente al loro valore di sfruttamento. Infine, in una causa connessa- anch’ essa terminata con una transazione soddisfacente per tutti – che opponeva, dopo la morte di Cortés, suo figlio Martin agli Indios, questi avevano ottenuto dall’Audiencia [28]  di Città di Messico l’invio sul posto, per un’inchiesta, di un alto magistrato, il dottor Melgarejo, ed erano rappresentati presso quest’ultimo da un religioso, fra Francisco Lorenzo, loro curatore e difensore. In giudizio fu stabilito che i «servizi» in mano d’opera resi dagli Indios a Cortés, venissero loro pagati e i «diritti d’acqua» fossero proporzionati al contributo – rispettivamente di Cortés e degli Indios – alla costruzione degli acquedotti; il diritto di transito sulle loro terre accordato dagli Indios veniva considerato come un contributo a tale costruzione. Dai documenti concernenti queste cause, e da altri ancora, Silvio Zavala trae le seguenti conclusioni:

1. «I titoli di encomiendas non comportavano alcun diritto [per il loro titolare] alla proprietà delle terre. Tutt’al più, in vista del pagamento del tributo in natura, gli erano assegnate alcune terre seminate, senza che venisse modificato il diritto di proprietà su di esse».

2. «Gli Indiani possedevano le terre collettivamente e individualmente, senza che il signore o titolare dell’encomienda ne potesse legittimamente spogliarli. Si ebbero, certo, esempi di espropriazioni, ma anche prolungate questioni giudiziarie che ripararono il torto».

3. «La difesa della proprietà degli Indiani coincideva con l’interesse del titolare dell’ encomienda, e quest’ ultima riconosceva di buon grado il diritto indigeno di proprietà» .

4. «Nelle signorie e nelle encomiendas d’America, si constata una protezione della proprietà degli Indiani che va al di là dei limitati diritti riconosciuti ai contadini nell’Europa medievale [e che rimanevano gli stessi all’epoca della Conquista americana]».

E’, pertanto, una menzogna storica che il sistema dell’ encomienda era nato per organizzare l’ espropriazione degli Indios e ridurli in schiavitù, esso invece rappresentò, anche in rapporto all’Europa, un progresso sociale, organizzando intelligentemente un consenso tra Indios e titolari di encomiendas. E se abbiamo visto come il sistema di ricompensa per gli uomini della Conquista, garantiva anche agli Indios la protezione dei loro diritti, dobbiamo anche sottolineare che, con l’andar del tempo non furono pochi i coloni che, approfittando della lontananza del controllo reale, maltrattarono gli indios usandoli come forza lavoro e senza rispetto: si ebbero casi di deportazione che  smembrarono le famiglie e casi di  lavori forzati.  «l titolari di encomienda arrivarono presto a vedere nei territori loro attribuiti la loro proprietà personale, e nei contadini indigeni i loro servi»[29]  Simpson, conferma: «l titolari di encomienda dimenticarono i loro doveri legali e, invece di proteggere gli Indiani nella persona e nella proprietà, si impadronirono gradualmente delle loro terre e ridussero gli indigeni alla condizione di servi»[30] Ed è contro tali abusi che insorgono i domenicani. Se ne fa portavoce Antonio de Montesinos: «Non vi salverete più dei turchi. Siete tutti in peccato mortale e in esso vivete e morite, a causa della tirannia con cui trattate questa povera gente» tuona dal pulpito il 21 dicembre 1511. [31] Questo episodio porta, ancor di più, a comprendere perché l’evangelizzazione ed in particolare il battesimo, che li rendeva cattolici di fronte a tutti gli spagnoli ,  fosse anche un modo di difendere la dignità indio. Per questo che nel 1524, solo due anni dopo la conquista operata da Ferdinando Cortés, arrivano in Messico, a dar man forte ai pochi religiosi presenti , i «dodici apostoli» francescani. A sette anni di distanza, il primo vescovo di Città del Messico, Zumárraga, scriverà: «Un milione di persone sono state battezzate; 500 templi di idoli distrutti; 20 mila dipinti di dèmoni bruciati. Un fatto ancor più meraviglioso: una volta gli abitanti di questa città sacrificavano ogni anno ai loro idoli 20 mila cuori umani; oggi offrono a Dio sacrifici di lode, grazie all’insegnamento e buon esempio dei religiosi». Dopo 15 anni i battezzati saranno 6 milioni. La sera i frati andavano a dormire con il «crampo da battesimo», come testimonia il più famoso dei «dodici apostoli», Toribio da Benavente, detto Motolinía, cioè il povero. Ma la testimonianza più importante , del rispetto dovuto agli indios, sta nell’intervento pontificio del 2 giugno 1537, nella quale il papa Paolo III, scontrandosi con le autorità laiche, emana la bolla  Sublimis Deus  scrivendo:”Gli Indiani sono dei veri uomini [ … ] capaci di ricevere la fede cristiana [ … ] con l’esempio di una vita virtuosa [ … ]. Essi non devono essere privati né della libertà né del godimento dei loro beni».[32] Con questo intervento spazzò via tutti gli appetiti schiavistici sulle popolazioni del Nuovo Mondo[33], proclamando che “Indios veros nomine esse” e scomunicando tutti coloro che “ridurranno in schiavitù gli indios o li spoglieranno dei loro beni”. Il Papa condannò le tesi razziste, riconobbe agli indiani, cristiani o no, la dignità di persona umana, e avanzò il divieto di ridurli in schiavitù, definendo i coloni dei “violenti” e i portatori di potenti interessi coloniali «manutengoli di Satana, desiderosi di soddisfare la loro avidità, e costringere gli Indios occidentali e meridionali e altri popoli, che ci sono venuti a conoscenza in questi ultimi tempi, a servirli come fossero animali bruti, sotto il pretesto che non hanno la fede. Con l’autorità apostolica e attraverso questo documento stabiliamo e dichiariamo che i predetti Indios, e tutti gli altri popoli, anche se non appartenenti alla nostra religione, non si possono privare della libertà e del dominio della loro proprietà, e che è lecito ad essi godere della loro libertà e dei loro beni e acquisirne, né che si debbono ridurre in schiavitù. Se qualche cosa sarà fatta in contrario dichiariamo nulla e invalida alla detta fede in Cristo». [34]Dobbiamo anche dire, per amore della verità, che secondo molti studiosi la bolla di Paolo III servì ed ebbe l’effetto di annullare tre bolle precedenti, quelle di papa Niccolò V, la “Dum Diversas” (1453) e la “Romanus Pontifex (1455) e quella di papa Alessandro VI, la “Inter Caetera” (1493), attraverso le quali si autorizzavano formalmente non solo le conquiste coloniali, ma anche la schiavitù[35].

 Le buone intenzioni della Corona spagnola devono pertanto il fatto di essere state messe in pratica, e di non esserse stae solo “buone intenzioni”, all’intervento dei missionari cattolici  francescani, ai quali si unirono domenicani, agostiniani e, più tardi gesuiti, che, predicando il Vangelo, fondarono scuole, ospedali, orfanotrofi in una spettacolare gara di dedizione e carità. Questo spiega il radicamento della religione cattolica nel popolo indio. E se il Cristianesimo viene costruito sulla rovina della religione e cultura azteca, non mancano i tentativi di adattamento, per trasmettere il messaggio del vangelo i missionari sfruttano gusti e attitudini degli indigeni: pitture, teatro religioso, gesti simbolici, splendore del culto ed esuberanza architettonica delle chiese.
Come detto a differenza di quello che sarà l’atteggiamento dei missionari protestanti e di molti coloni spagnoli, i missionari non hanno alcuna intenzione di ispanizzare gli indios. Fondano le loro missioni lontano dai villaggi dei coloni; imparano le lingue indigene; preparano grammatiche, dizionari e catechismi e tendono a capire in profondità i popoli che evangelizzano[36].
Alla fine del secolo XVI, la Chiesa è saldamente impiantata in quasi tutto il continente latino americano, con arcidiocesi e diocesi ancora vastissime, ma già in grado di trasformare quelle regioni nel continente più cattolico del mondo e nel Terzo Concilio Messicano del 1585[37] vengono stabilite pene canoniche contro i vessatori degli indigeni, intimando riparazione dei danni e si iniziano le opere di beneficenza, istituti di carità e di protezione, asili, ospedali, ricoveri, ospizi per gli indios . Nei due secoli seguenti l’evangelizzazione si spinge sempre più nell’interno del continente e due missionari si distinguono per zelo e santità: il gesuita trentino Francesco Chini (1645-1711) e il francescano spagnolo Junipero Serra. Il primo evangelizza l’Arizona; il secondo dissemina la costa della California di stazioni missionarie, destinate a diventare grandi metropoli. Per ironia della sorte, quando questi territori saranno annessi dal potere imperialista degli U.S.A., entrambi saranno onorati come «padri fondatori» degli Stati Uniti.

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Spectator –Fede di popolo, Fiore di Eroi– Ed. Astesano, 1933

Todorov Tzvetan La conquista dell’America. Il problema dell’ «altro».Einaudi 2014

Voltaire, Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni, 1756

 


[1] La storiografia corrente ha fatto di questo ex studente di Salamanca un sanguinario mercenario, morto «disprezzato e dimenticato». In realtà la prima protezione delle popolazioni indie (Giunta do Governo del 1524) e la prima evangelizzazione sono dovute a lui. Le sue lettere a Carlo V, vera storia della Conquista, testimoniano una profonda umanità e carità cristiana. L’anno che precedette la sua morte, fu salutato con il titolo di «nuovo san Paolo» dal portavoce dell’Umanesimo spagnolo, Francisco Cervantes de Salazar, all’inizio di un’opera  (Obras, presentate da Francisco Cervanntes de Salazar, Siviglia, 1546).che raccoglie i nomi dei più brillanti spiriti spagnoli dell’epoca.

[2] Esemplari , per esempio, accuse della francese Nouvelle Ecole sul Figaro-Magazine del 16 febbraio 1980,

[3] Occorre ricordare che il primo contatto di Colombo con gli indios araucani fu che gli chiesero aiuto contro i vicini caribi, che erano cannibali. Lo stesso accadde a Cortés e Pizarro, che i popoli usati come carne da sacrificio umano dai aztechi e incas salutarono come liberatori e si affrettarono ad allearsi con loro

[4] Il modo con cui è avvenuta la colonizzazione è da sempre oggetto di spietate critiche, per la presunta brutalità dei conquistadores spagnoli che avrebbe causato la fine di una civiltà già abbastanza avanzata ed evoluta, come quella degli Aztechi e degli Incas. Tali critiche, non sono, nella maggior parte, dovute ad  una serena valutazione dei fatti  e pertanto ci  si trova spesso di fronte, a una interessata campagna ideologica di aggressione, propagandisticamente orchestrata, più che ad un’analisi storica dei fatti. Per un giudizio sereno c’è da tener presente il fatto che Olanda e Inghilterra hanno, nei secoli moderni, alimentato una leggenda nera antispagnola (e anticattolica), mal digerendo di non essere arrivati loro per primi e cercando, col demolire la Spagna, di legittimare un loro “subentrare”,al posto degli spagnoli. In tempi più recenti la leggenda nera  è stata rialimentata da tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, odiano l’idea di America latina, con una sua identità cattolica ,specifica ed antica, distinta dall’America anglosassone. Ad esempio, molte lobbies statunitensi, non da oggi, considerano come fumo negli occhi il radicamento del cattolicesimo in America latina, perché questo fornisce alla gente un criterio con cui contestare l’idea, protestante e anglosassone, di un individualismo esasperato e volto al solo profitto individuale.

[5] pare che, in base a segni premonitori e ad antiche leggende del suo popolo, Montezuma II, avesse scambiato gli spagnoli  per emissari di Quetzalcoatl, una delle principali divinità azteche. A tale convinzione, contribuirono probabilmente  le innate doti di Cortès,  abile comunicatore 

[6] Henry Hawks- Relazione scritta su richiesta del signor Richard Hakluyt- Madrid 1963 , pagg. 63-70

[7] Le stime del numero delle vittime messe a morte e mangiate annualmente, a seconda dei ricercatori , si aggirano tra un minimo di 15.000 e un massimo di 250.000. La maggior parte di questi erano nemici catturati in battaglia, ma non mancavano schiavi e donne prigioniere delle famiglie del popolo

[8] Anche presso gli Incas regnava la segregazione: vi era una giustizia per i poveri ed una giustizia per gli aristocratici. Per non parlare degli schiavi, la dipendenza del contadino era totale: aveva unicamente un diritto di usufrutto, revocabile, non solo sulle sue terre ma anche sulla sua casa ed il suo orto. Poteva essere, e spesso lo era, deportato all’altro capo dell’impero, secondo l’arbitrio dei funzionari imperiali o le necessità imperiali.

[9] Riportiamo qui un brano in proposito

“Collocatisi tutti e sei dinnanzi all’idolo, genuflettevano e si disponevano intorno alla pietra piramidale convessa che […] era collocata davanti alla porta della camera dell’idolo. Questa pietra era talmente incurvata, che collocando su di essa di spalle colui che doveva essere sacrificato, il suo corpo si piegava in due, in modo che lasciato cadere il coltello sul suo petto esso si apriva a metà con grande facilità. Dispostisi ordinatamente questi sacrificatori, prendevano tutti quelli che avevano catturato in guerra ed erano stati destinati al sacrificio per quella data festa e, dietro scorta di molte persone armate, li facevano salire per quella lunga gradinata ai piedi della palizzata, tutti in fila e completamente nudi. Subito scendeva un dignitario del tempio nominato per svolgere quel compito, e portando in braccio un idoletto […] lo mostrava a coloro che si avviavano a morire.
Quindi andavano tutti dietro di lui e, giunti al luogo dove erano pronti i sacrificatori, questi ultimi afferravano una alla volta le vittime umane: due la prendevano per i piedi due per le mani e poi la collocavano supina sull’anzidetta pietra angolare mentre il quinto sacrificatore poneva alla gola della vittima il collare di legno. Quindi con rapidità straordinaria il sommo sacerdote le apriva il petto, le strappava il cuore con le mani e lo mostrava al sole. Si volgeva poi verso l’idolo e gli cospargeva il volto di sangue. Frattanto il corpo del sacrificato rotolava giù dai gradini del tempio con gran facilità, in quanto la pietra del sacrificio era collocata così vicino alla gradinata, che non distava dal primo gradino più di due piedi: bastava un calcio per buttar giù i cadaveri. È in tal modo che sacrificavano i prigionieri di guerra. Una volta giunti i corpi ai piedi della scala, coloro che li avevano catturati li afferravano, se ne spartivano le carni e le mangiavano, e così celebravano la festività.

Per pochi che fossero i sacrificati erano almeno quaranta o cinquanta ogni volta, dal momento che vi erano dei guerrieri assai abili nel catturare i nemici. […] Finiti i sacrifici, subito uscivano i ragazzi del tempio preparati come si è già detto, tutti in ordine e in fila gli uni di fronte agli altri, e danzavano e cantavano al suono di un loro tamburo in onore della solennità e del dio che celebravano. Al loro canto rispondevano tutti i nobili, gli anziani e i rnaggiorenti, danzando nel cerchio da essi formato, costituendo uno splendido colpo d’occhio secondo il loro costume, tenendo sernpre nel mezzo fanciulli e fanciulle. A tale spettacolo assisteva l’intera popolazione della città. Questo giorno del dio Huitzilopochtli era una festa di precetto assai osservata in tutta la regione.”

[10] Hernán Cortés, che si era ritirato a vita privata nella sua proprietà a Castilleja de la Cuesta, in Andalusia, muore il 2 dicembre del 1547, all’età di 62 anni. La sua salma, così come espresso nei suoi ultimi voleri, verrà inviata a Città del Messico e tumulata nella chiesa di Gesù Nazareno. Oggi il Golfo di California, il tratto di mare che separa la penisola della California dal Messico continentale, è conosciuto anche come Mare di Cortés.

[11] Gli sforzi “razzisti” del dopo Spagna sono tragicamente simboleggiati dall’arte: mentre le due culture, prima, si erano meravigliosamente intrecciate, dando vita al capolavoro del barroco mestizo, il “barocco meticcio”, si divisero di nuovo con l’arrivo al potere degli illuministi. All’architettura straordinaria delle città coloniali e delle missioni si sostituì l’architettura solo di imitazione europea delle nuove città borghesi, dove per i poveri indios non c’era più alcun posto. Vittorio Messori,

Pensare la storia. Una lettura cattolica dell’avventura umana Ed. Paoline, Milano 1992, p. 658-660.

[12] C. Tamagnone, L’illuminismo e la rinascita dell’ateismo filosofico, Clinamen 2008

[13] Lo  storico George Mosse (1913-1999) lo definisce una «religione laica», nata dall’Illuminismo e basata essenzialmente sul materialismo biologico. Lo conferma anche  L. Poliakov( Il mito ariano, Editori riuniti 1999) che sottolinea a lungo la stretta correlazione fra il pensiero illuminista e la genesi del razzismo4

[14] Voltaire, Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni, 1756

[15] Alla genesi di questa cultura, in piena continuità con le speculazioni illuministiche, contribuirà Charles Darwin, che nonostante i grandi elogi per la sua teoria, è uno dei primi teorici del razzismo moderno.

[16] Voltaire, Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni, 1756

[17] Non deve pertanto stupire se tra i mercanti di schiavi troviamo GiuseppeGaribaldi, lo comprovano le sue scorribande in America Latina, e le sue affermazioni («tratto negri e cavalli», egli stesso affermerà).

[18] Lo stesso Bartolomeo Las Casas aveva inizialmente proposto a Carlo V l’importazione di schiavi neri per sostituire gli indigeni nei “laboriosi inferni delle miniere d’oro delle Antille”; ritrattò in seguito questa posizione, schierandosi al fianco  anche degli africani schiavizzati nelle colonie.

[19] Dobbiamo però precisare che in molti casi bisogna tener distinte le responsabilità dei cattolici e di molti religiosi dalla Chiesa gerarchica ed ufficiale .

[20] B.D. Las Casas, Historia de las Indias, en Obras Completas

[21] Las Casas diventerà nel tempo uno dei più attivi difensori dei diritti dei popoli indigeni d’America

[22] A seguito di ciò , per perpetuare la memoria di frate De Montesinose ricordare la sua lotta per la giustizia per gli indigeni del Nuovo Mondo, venne creata una grande statua in suo onore nella città di Santo Domingo (Repubblica Dominicana)

[23] Ai proprietari terrieri viene dato un certo numero di indigeni con l’impegno di nutrirli, proteggerli e istruirli nella fede cristiana; questi ripagano con il lavoro. «L’encomienda indiana fu un’ istituzione apparentata al patronaato romano, ai feudi medievali e più immediatamente alle signorie spagnole, come espose brillantemente Sol6rzano Pereira nel XVII secolo» (Silvio Zavala). Precisamente, l’encomienda indiana è la trasposizione in America delle «signorie puramente giurisdizionali» del XVI secolo spagnolo, dove il signore non possedeva alcuna terra ma riceveva dal re, in privilegio, il potere di governo e il beneficio delle rendite o imposte che gli abitanti dovevano al monarca. Tali «signorie puramente giurisdizionali» sono descritte in Rafael Alltamira,Historia de Espafia, Barcellona, 1900-1906, t. III, p. 192. Lo stesso termine encomendaci6n (messa in encomienda) è usato per un tipo abbastanza simile di signoria spagnola, la «signoria libera», da un altro grande storico spagnolo, Claudio Sanchez Albornoz, in Anuario de Historia del Derecho espanol, Madrid, 1924, voI. I, pp. 158 e ss.

[24] L’encomienda (tutela) consisteva nella delega ad un imprenditore dei diritti signorili su un repartimiento (dominio) e sugli indigeni che lo abitavano L’encomienda era un contratto per il quale il re concedeva degli indios in usufrutto (non in proprietà) e per un tempo limitato al conquistatore, il quale aveva l’onere di organizzare la loro vita, di istruirli e di cristianizzarli. L’encomienda serviva anche a uno scopo socio-militare: siccome il pagamento “in indios” costituiva parte delle retribuzioni che il conquistatore riceveva dal re per i suoi servizi militari, la corona vedeva in questo rapporto uno strumento per stabilire un controllo sul conquistatore, che era tenuto, in forza appunto dell’encomienda, a determinati doveri nei riguardi del re. La corona inoltre sperava che l’encomendero si sentisse integrato nella società coloniale nascente ed evitasse di abbandonarla dopo averla sfruttata al massimo L’encomienda rappresentò il passaggio dalla fase in cui l’indios veniva “negato” come tale, alla fase in cui, dopo averlo riconosciuto come “essere umano”, si iniziava ad “assimilarlo”, rendendolo accettabile alla cultura europea.

[25] in Jean Dumont – Il Vangelo nelle Americhe- dalla barbarie alla civiltà- ed.Effedieffe, Milano 1992 , pag.33

[26] Il titolo era sempre revocabile infatti le concessioni di encomiendas si facevano «per il tempo che Sua Maestà vorrà che le abbiate in encomienda»

[27] Silvio Zavala nell’ opera De encomiendas y propiedad territorial , cit. in Jean Dumont – Il vangelo nelle Americhe- dalla barbarie alla civiltà- ed.Effedieffe, Milano 1992.

[28] Le Audiencias erano organi di giustizia e di controllo amministrativo della Corona. Nella stessa Spagna li si vede frequentemente difendere i diritti e i beni dei più modesti contadini  contro i tentativi di usurpazione dei più potenti signori, vicini alla Corona. Così, proprio nella stessa epoca, li vediamo condannare il duca di Medina, Sidonia, vero e proprio re dell’ Andalusia, su querela dei suoi contadini ai quali aveva cercato di sottrarre il godimento delle loro terre collettive

[29] Così  in O.M.C. Cutchen Mc Bride, in The Land Systems oJ Mexico ,N.Y , 1923 . p45

[30]E.N. Simpson, The Ejido, Chapell Hill , 1937, p.10

[31] Il fatto è raccontato da Bartolomeo de Las Casas, domenicano pure lui, strenuo difensore dei diritti degli indigeni, tanto da meritarsi l’appellativo di «padre e protettore degli indiani».

[32] La pubblicazione della bolla è anche la conseguenza della richiesta in tal senso del vescovo di Tlaxcala bolla

[33] in realtà lo fece già nella lettera al Cardinale di Toledo del 29 maggio 1537

[34] Non pochi storici ritengono che la bolla abbia avuto un forte impatto sul “dibattito di Valladolid” e che questi principi divennero la posizione ufficiale di Carlo V del Sacro Romano Impero e re di Spagna.

[35] P. Thornberry, “Indigenous peoples and human rights”, Manchester University Press 2002, pag. 65

[36] In questo campo si distingue soprattutto il francescano Bernardino da Sahagun: scrive la Storia generale delle cose della Nuova Spagna (Messico), frutto di 40 anni di ricerche sulle antiche usanze religiose azteche; a mano a mano che procede nella descrizione, s’innamora dei popoli descritti, fino a sognare, insieme ad altri missionari, uno stato cristiano e messicano libero dalla colonizzazione. Tale simpatia suscita i sospetti delle autorità; Filippo II fa distruggere tutte le cronache scritte dai missionari. L’opera di Sahagun si salva e sarà pubblicata solo nel XIX secolo.

[37] in Luigi Ziliani -Cristeros: Messico Martire Società Editrice S. Alessandro -Bergamo, 1929

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